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Un risultato peggiore per le elezioni politiche del 13 aprile era difficile immaginarlo. Il governo del Paese è di nuovo nelle mani di Berlusconi, stavolta con un forte consenso popolare e con una larga maggioranza tanto alla Camera che al Senato. La stampa estera commenta con incredulità il prepotente ritorno per la terza volta a Palazzo Chigi dell'uomo che era stato capace di demolire, in nome del suo interesse personale, l'immagine internazionale dell'Italia. Sembra impossibile, ma il Paese sarà nuovamente governato da quella stessa destra populista e reazionaria che in cinque anni l'aveva messa in ginocchio devastando i conti pubblici, distruggendo le garanzie sociali e minacciando gli equilibri istituzionali. Una destra oggi sempre più condizionata dalla Lega, forte di un successo elettorale travolgente in Veneto e Lombardia ma imprevedibilmente esteso ad altre regioni come la stessa Emilia Romagna.
Lo spostamento di consensi verso destra è netto e inequivocabile. La scommessa elettorale di quelle che furono le componenti dell'Unione, che oggi si presentavano separate alla prova del voto, si è risolta in una sconfitta pesante per tutto il centrosinistra e in una vera e propria disfatta per i socialisti e le forze della sinistra radicale. L'indubbia affermazione di Veltroni ha consentito al Partito Democratico di operare una consistente rimonta conseguendo un risultato elettorale significativo ma comunque insufficiente a ribaltare le previsioni. Il PD ha ottenuto un successo importante nelle regioni rosse ma ha sostanzialmente fallito lo sfondamento al nord, ha perso consensi al sud ed ha finito per prosciugare il campo alla sua sinistra senza riuscire invece a recuperare granché dallo schieramento avversario. Il prezzo più alto lo paga la Sinistra Arcobaleno che viene letteralmente travolta perdendo consensi sia in direzione del voto utile al Pd che dell'astensionismo e, in misura minore ma pur sempre significativa, delle liste minori.
Il dato che maggiormente caratterizza il risultato elettorale è sicuramente la forte polarizzazione attorno ai due maggiori partiti, tendenza di cui hanno beneficiato anche le forze minori coalizzate come Lega e Italia dei Valori, che hanno visto crescere i consensi in modo consistente e per certi versi imprevedibile. La Lega su un fronte e l'Italia dei Valori sull'altro hanno offerto ad una parte dell'elettorato la possibilità di conciliare il voto "utile" ad uno dei due schieramenti principali con quella del voto "radicale" su temi tenuti sottotono dai partiti maggiori, come la sicurezza e l'immigrazione in un caso e la legalità e la moralizzazione nell'altro.
Dalle urne del 14 aprile emergono l'affermazione del bipolarismo ed una sempre più marcata tendenza verso il bipartitismo. Un terremoto politico che produce la decimazione di quasi tutti i partiti minori e una forte semplificazione del quadro parlamentare, salutata con enfasi da molti politologi come l'atto di nascita della terza repubblica. Ma non c'è molto da rallegrarsi, perché se da un lato era auspicabile il superamento della cronica frammentazione di cui soffre la politica italiana, questo processo nel nostro Paese sta avvenendo a prezzo di un netto spostamento a destra e di una brutale riduzione della rappresentatività delle assemblee elettive. Complice un sistema elettorale inguardabile, milioni di elettori che domenica hanno espresso la loro scelta non saranno rappresentati nel nuovo Parlamento, e questo non può che accrescere pericolosamente il distacco fra le istituzioni e una parte della società. L'assenza dal Parlamento, per la prima volta dal dopoguerra, di socialisti e comunisti, non solo rappresenta un fatto di portata storica, ma soprattutto apre un serio problema politico di cui non potrà non tener conto lo stesso Partito Democratico. E' un problema per tutti il fatto che oggi un'area importante della sinistra, presente in modo significativo nella società italiana e impegnata in tanti governi locali, venga relegata ad un ruolo extraparlamentare che potrebbe esasperarne le spinte antagoniste. E' un problema per la democrazia il fatto che forze socialmente rappresentative non siano presenti nelle sedi istituzionali dove si realizza la dialettica democratica. La sinistra radicale paga la debolezza di un progetto alternativo di società e il fallimento di gruppi dirigenti incapaci di rappresentarlo, ma il problema è più grande e chiama tutte le forze del centrosinistra alla responsabilità di una nuova sfida.
Dovremo riflettere seriamente sull'egemonia culturale che la destra sta ormai esercitando fra i soggetti più deboli della società e sulla difficoltà della politica ad offrire un'alternativa al disagio delle condizioni di vita di tanti cittadini, all'insicurezza e alla solitudine delle persone, alla paura del nuovo e alla frammentazione degli interessi sociali. Non c'è tempo da perdere, ciascuno deve fare la propria parte. La politica deve uscire dal suo isolamento e colmare la distanza che la separa dalla vita quotidiana delle persone, recuperare la dimensione della partecipazione e dell'impegno civile diffuso. Anche l'associazionismo e le diverse realtà del terzo settore possono fare molto, col lavoro di animazione sociale e culturale delle comunità, per ricostruire dal basso quella cultura della cittadinanza e della responsabilità di cui la politica non può fare a meno se vuole essere strumento di emancipazione umana e di trasformazione sociale.

Paolo Beni
presidente nazionale arci