[NuovoLab] report da nahr el Bared 3/0/2008

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Autore: Elisabetta Filippi
Data:  
To: Social Forum
Oggetto: [NuovoLab] report da nahr el Bared 3/0/2008

3/04/2008

Campo profughi palestinese di Nahr el Bared – nord del Libano
Il campo è stato raso al suolo dall’esercito libanese tra maggio e settembre 2007 per sconfiggere i militanti di Fatah al Islam che si erano insediati al suo interno. Dai primi di ottobre 150 famiglie, circa 4.000 profughi, sono tornati a quel che resta delle loro case.

E’ mezzogiorno e con il pass dell’UNRWA passo il controllo passaporti al check point per entrare in quella che non è zona off limit, il “campo nuovo”. Telecamera e macchina fotografica sono nascoste sotto il sedile dell’auto. All’interno del campo è vietato filmare o fotografare, ci vogliono permessi speciali. Il campo, o meglio ciò che ne resta e presidiato da soldati libanesi, alcuni si sono istallati nelle macerie di stabili meno danneggiati, quelli che hanno ancora qualche muro in piedi per farne caserme temporanee.

L’odore. Ovunque. Dopo poco che si è all’interno del campo entra nella gola. E’ odore di putrefazione. Le tubature sono distrutte, gas, scarichi, fognature.
Varchi lastricati di fango e terra, quelle che una volta erano strade. Aste di metallo, stracci, pezzi di cose non identificabili, resti di razzi anticarro, resti di mortai e di rpg, spuntano tra le macerie, sui tetti e un po’ ovunque. Ci sono già i primi feriti, un bambino che giocava tra le macerie è rimasto mutilato. Ordigni inesplosi sono lì ad attendere le loro vittime.

Carcasse d’auto accartocciate, sassi, frantumi di esistenze e polvere dove si aggirano come fantasmi donne, uomini e bambini. C’è chi prende l’acqua dalle cisterne fornite dall’UNRWA, chi con una pala sposta macerie da una parte all’altra senza tregua. Se ti vedono o ti avvici tutti raccontano furenti, non importa se alcuni non sanno l’inglese, raccontano in arabo e non importa se non capisci, loro continuano, gesticolano e capisci che hanno perso tutto, che tutto è crollato, che tutto è andato perduto. C’è grande bisogno di ascolto, di sostegno psicologico.

Non vedo nessuno che aiuta, i profughi sembrano soli. Adulti e bambini lavorano per pulire. Non ci sono gabinetti, ma ci sono ridicoli cassonetti dell’immondizia targati UNRWA qua e là e qualche doccia, mi chiedo a cosa servano. Ieri c’è stata una manifestazione di protesta spontanea, scatenata dall’invivibilità nei prefabbricati dell’UNRWA, quando piove l’acqua entra dal tetto di lamiera.

Se si sale sui tetti si vede a perdita d’occhio una devastazione che sembra non avere confini, come era successo a Jenin ma moltiplicata più volte.
Entro nella casa di un dentista, vive in una stanza arredata alla meglio. Una parete è stata riparata con cemento ancora fresco. Con amaro sarcasmo mi mostra quel che resta di un armadio, un cassetto con alcuni fogli dentro. La stanza che fungeva da ambulatorio è vuota, semi demolita con i muri bruciati e le traccie delle colate di benzina. Tutti mi dicono che queste case erano in discrete condizioni fino alla fine della guerra. Sono state bruciate, saccheggiate e distrutte dai soldati libanesi a conflitto finito.

In mezzo a questa devastazione ci sono frantumi di esistenza, entri da una breccia nel muro e scopri che qualcuno a piantato nei resti di un giardino un piccolo ulivo e dei fiori, che hanno ricomposto le aiuole e accanto una stanza è stata ripulita, una porta e una finestra hanno rimpiazzato quelle distrutte. Alzi gli occhi e in un palazzo squarciato a metà e con il tetto in parte crollato spuntano panni stesi ad asciugare e un bambino in bicicletta ti sfiora passandoti accanto. Si percepisce un forte legame con il campo, un attaccamento disperato a quel che resta dei ricordi. Così le macerie irriconoscibili ad occhi estranei vengono descritte così: quella era la camera, questa la mia bella cucina, questo è il bagno e la stanza dei bambini.

Mi arrampico lungo la scala dei resti di un palazzo per 2, 3 piani stando attenta a non precipitare nel vuoto accanto, calpesto vetrate in frantumi e mi affaccio sulla voragine sotto di me, si vede un cortile con delle galline e un cardellino in gabbia, vasi di fiori. Lungo la strada c’è chi ha messo delle mercanzie al piano terra, frutta, scarpe. Un carretto accanto ad un camion accartocciato come una lattina di birra, vende the.

Elisabetta
www.associazionezaatar.org

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