secolo xix
G8, la vera storia dei depistaggi
dopo il caso de gennaro
Anche gli affari di un agente con un faccendiere dietro le false testimonianze al processo
GENOVA. «Mi hanno messo in bocca i cavalli». La vera storia dei depistaggi che hanno contrassegnato l'ultimo anno di rivolgimenti giudiziari sull'affaire G8 - culminati con la richiesta di processo per l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro - s'incardina qui, la tessera-chiave è una frase in dialetto sardo captata nella sala intercettazioni del tribunale. E c'è voluto un carabiniere di Cagliari, per decrittarla correttamente e dare forma a un mosaico che oggi Il Secolo XIX è in grado di ricomporre dal principio alla fine, rivelando scenari (a dir poco) inquietanti. Gli stessi magistrati che hanno depositato giovedì scorso l'istanza per De Gennaro nell'ufficio dei gip ricordano con chiarezza, nel documento, l'origine delle varie inchieste e focalizzano una serie di zone d'ombra della polizia, rischiarando le quali si sono prodotti effetti devastanti: indagando sulla collaborazione sospetta (e pagata) tra alcuni agenti in servizio a Genova e un faccendiere, i magistrati scoprono come sono state fatte sparire le molotov del G8; a quel punto controllano altri telefoni e arrivano ai tentativi di «istigazione alla falsa testimonianza» messi in atto secondo l'accusa dallo stesso De Gennaro sull'ex questore di Genova Colucci. «Un percorso unico - si rimarca a palazzo di giustizia - che s'è frammentato dal punto di vista procedurale in più rivoli solo perché si sono configurati reati diversi».
«MI HANNO messo in bocca i cavalli»è l'espressione usata da un artificiere per spiegare che lo avevano imbeccato nell'attribuirsi la responsabilità della sparizione di due bottiglie incendiarie, i famosi "reperti" introdotti dalle forze dell'ordine dentro la Diaz e misteriosamente scomparsi nel corso del processo a 29 poliziotti. «Un giorno vennero quelli della Digos - insiste l'artificiere parlando con un collega - dissero "queste ce le prendiamo noi..."; ma io mica posso dirlo al magistrato, eh, eh». Non poteva dirlo - e anzi firma una relazione in cui spiega che probabilmente sono state distrutte per errore - perché lui stesso è una figura abbastanza "chiacchierata". Il suo nome e il suo telefono erano infatti sotto controllo da tempo poiché finiti in un'inchiesta spinosissima, nella quale sono incappate "schegge" della questura di Genova. Si descrivono, in quel fascicolo, gli strani rapporti dell'artificiere (e di qualche amico) con un imprenditore straniero. Non solo contatti occasionali, com'era trapelato nei mesi scorsi, ma in alcuni casi l'accordo per vere e proprie "prestazioni" di lavoro non regolari e retribuite: il materiale acquisito dagli inquirenti documenterebbe almeno un viaggio in Africa direttamente connesso a questo tipo di attività.
Il primo, clamoroso intreccio, va in scena quindi il 17 gennaio dello scorso anno. È mezzogiorno circa quando i pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini s'apprestano ad ascoltare Valerio Donnini, uno dei funzionari che avrebbe guidato la sanguinosa irruzione nell'istituto dov'erano alloggiati i noglobal. Capire chi portò le molotov è uno dei punti chiave, la loro presenza avrebbe giustificato (così disse la polizia durante la conferenza stampa dopo il blitz il 22 luglio 2001) l'arresto degli antagonisti e le sommarie modalità delle perquisizioni. Donnini si accinge a prendere la parola, ma alcuni difensori chiedono di vedere il corpo del reato. Ed ecco il colpo di scena: spariti gli ordigni, si stoppa per un po' il dibattimento. E non è un episodio da poco visto che i tempi lunghi possono favorire la prescrizione. Nell'imbarazzo generale il tribunale chiede conto alla questura (delegata alla custodia delle bottiglie) e s'innesca un vorticoso giro di telefonate. Il problema è che uno dei "referenti" più volte contattati dai dirigenti della polizia genovese, che cercano di capire dove sono finite le benedette molotov, è lo stesso artificiere che aveva già il cellulare sotto controllo, in quanto sospettato d'affari non proprio regolari con l'amico imprenditore. Attenzione: non lo cercano, sulle prime, pensando che sia stato lui a perderle, ma solo perchéè da sempre un punto di riferimento in materia. «Faccio lo stesso lavoro dal '79 - dirà in una delle innumerevoli chiamate finite agli atti - scrivo tutto eppure non so dove siano 'ste bottiglie». Non solo. L'attenzione dei pm sul nucleo artificieri è solida anche per un'altra indagine: in due accusano un collega di aver dichiarato la distruzione di residuati bellici in realtà mai smaltiti (e non si sa cosa sia stato distrutto al loro posto). Fatto sta che sulla sparizione delle molotov la procura indaga per «peculato» e «trasporto abusivo di armi da guerra» (sono considerate tali e la frase "le portiamo via noi" confermerebbe che sono state rimosse dal deposito originale, ndr). Eppure l'artificiere davanti ai magistrati dice che potrebbero averle distrutte per caso: siccome è quasi l'opposto di ciò che sosteneva al telefono, lo indagano per falsa testimonianza.
E' UN EPILOGO che in qualche modo temeva, essendo molto preoccupato dai consigli ricevuti prima di compilare il rapporto che corrobora l'ipotesi dello smarrimento: «Mi hanno messo in bocca i cavalli», ovvero mi hanno imbeccato. Siccome si riferiva alla Digos decidono di ascoltare l'allora capo Spartaco Mortola, che ha la sfortuna d'essere il confidente dell'ex questore di Genova Francesco Colucci. Il quale delle molotov non si cura granché, ma di ciò che dovrà dire su altre questioni al processo Diaz sì. Aprile 2007: «Il capo (cioè Gianni De Gennaro) ripete che dovrei fare un po' marcia indietro su certe questioni».
Riepilogando: c'è un poliziotto sospettato di lavorare in modo illegale per un faccendiere, e lo intercettano. Dice che la Digos si è portata via le bombe dello scandalo, salvo poi chiedergli di scrivere che è stato un caso fortuito. A quel punto mettono sotto controllo il telefono d'un funzionario e questo parla con un ex questore, che ha colloqui quotidiani addirittura con il capo della polizia: «Mi hanno messo in bocca i cavalli» sospirava il poliziotto sardo a suo fratello. «Devo fare marcia indietro», ammette Colucci divenuto prefetto a un altro superfunzionario. Che sia dialetto duro o metafora edulcorata, per la procura è il rovescio della stessa medaglia.
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