[Lecce-sf] la cattiva utopia della sicurezza

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Autore: Silverio Tomeo
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To: social forum
Oggetto: [Lecce-sf] la cattiva utopia della sicurezza
Il filo spinato che ci circonda
      Dai campi vietnamiti alla forma-campo nelle democrazie della sorveglianza 
      di oggi. Dall'idealtipo di Guantanamo ai Cpt, l'utopia della sicurezza 
      nella politica interna del mondo globale
      Alessandro Dal Lago


      Filo spinato, prigionieri imbavagliati. Negli anni Sessanta, queste 
      immagini sembravano inevitabilmente discendere da un repertorio bellico, e 
      quindi dall'eredità del secondo conflitto mondiale e della guerra fredda: 
      campi di prigionia, lager, l'arcipelago Gulag, il muro di Berlino. E 
      dall'esistenza dello spazio carcerario. Si manifestava una volta per la 
      pace in Vietnam e una volta in appoggio ai carcerati. Dalle bocche di lupo 
      di San Vittore spuntavano le mani dei prigionieri che agitavano fazzoletti 
      o lanciavano messaggi. Si attaccava l'idea stessa di ospedale 
      psichiatrico: dietro le sbarre dei lager civili si intravedevano le facce 
      di gente internata da cinquant'anni. Liberare tutti.
      Quarant'anni dopo, il carcerario è inattaccabile perché ubiquo: lungi 
      dall'essere un residuo della violenza bellica, di dittature travolte dalla 
      storia o di un'anacronistica ferocia di stato, sembra piuttosto la 
      condizione minima perché esista qualcosa come il politico, perché si 
      produca un'identità collettiva, perché gli stati esistano. I campi come 
      normalità dinamica del politico, non come eccezione. Più il potere si 
      moltiplica, si diffonde, si insinua tra noi, più la forma campo si 
      intreccia alla cosiddetta libertà. Se esco di casa e passeggio per il mio 
      quartiere, una zona tranquilla quanto ogni altra, sono inquadrato da 
      decine di videocamere, mi imbatto ogni dieci minuti in un pattugliane di 
      carabinieri, assisto a qualche effetto della tolleranza zero. Dov'è finito 
      quel gruppo di stranieri con le lattine di birra che vedevo tutti i giorni 
      in una piazzetta? Basta un'ordinanza municipale, il proclama di un sindaco 
      o di un prefetto, e quella gente sparisce in qualche ambito di 
      segregazione, in una questura, in un Cpt, in una discarica sorvegliata 
      dalla polizia, mentre fuori le cittadinanze strepitano. È per la mia 
      sicurezza, mi si dice. Intorno a me, nel cuore del pacifico e civile 
      occidente, si srotola il filo spinato.
      Il G8 di Genova ha perfettamente riassunto, in pochi chilometri quadrati, 
      e in un crescendo che ha trovato il suo acme il 20 e 21 luglio 2001, tutte 
      le forme che può assumere l'immanenza della forma campo. Batterie 
      anti-missile intorno all'aeroporto recintato. Zona rossa: un intero centro 
      storico circondato da grate, agenti segreti e poliziotti in divisa e in 
      borghese mescolati ai passanti, cecchini sui tetti (flash: il tabaccaio 
      che ha bottega nella zona rossa mi passa le sigarette attraverso le grate; 
      io abito a dieci metri di distanza, ma nella zona gialla). Bolzaneto, la 
      nostra Abu Ghraib. 20 e 21 luglio, scene di caccia all'uomo e poliziotti 
      negli ospedali per impadronirsi dei feriti. La scuola Diaz, trasformata di 
      colpo da dormitorio in sede di mattanza, esattamente come le prigioni in 
      cui vengono sguinzagliati i Gom (tra parentesi, costituiti mentre era 
      ministro Diliberto...). Domenica 22 luglio: i blindati incolonnati dei 
      carabinieri si allontanano da Genova, tra canti fascisti e dita che fanno 
      il segno della vittoria. I cittadini che gli sputano dietro.
      Ubiquità dell'internamento. Ai cinquantamila che riempiono di nuovo le 
      prigioni (a un anno e mezzo dall'indulto), possiamo aggiungere le migliaia 
      di stranieri che vanno e vengono dai Cpt. Ma anche: il muro di Padova, i 
      rom sradicati da Rutelli e Veltroni, la cacciata dei rumeni dell'autunno 
      2007, l'espulsione dei cinesi dal centro di Milano. I campi sono duraturi 
      oppure elastici, intermittenti, just-in-time, esattamente come il lavoro, 
      di cui costituiscono, in un certo senso, un'interfaccia, almeno per le 
      categorie marginali di esseri umani. Campi di lavoro per nomadi e 
      clandestini, sbraita la Lega da una quindicina d'anni. Sembrava una 
      boutade da goliardi di estrema destra, e invece è una realtà che ci 
      incombe addosso, il perfezionamento di una possibilità: tra i Cpt e il 
      lavoro coatto, tra la marginalità e la prigione, questa sembra essere la 
      vita dei clandestini. D'altronde, ripete l'ex sindaco di Roma, la 
      sicurezza non è né di destra, né di sinistra, cioè è di tutt'e due.
      La guerra, soprattutto dopo l'11 settembre, ha profondamente trasformato 
      l'idea di campo. L'ha per così dire secolarizzata, metabolizzata, resa 
      digeribile alle sensibili opinioni pubbliche occidentali, notoriamente 
      appassionate di diritti umani. Guantanamo non è un'eccezione, ma un tipo 
      ideale, ancora una volta il perfezionamento di una possibilità. Là si può 
      torturare fino a un certo punto, quanto basta, nelle dovute forme 
      giuridiche, sotto il controllo - immaginiamo - di un ufficiale medico, che 
      magari dà il colpettino risolutore, spezza il dito giusto, esattamente 
      come a Bolzaneto, dove sono indagati poliziotti e medici per tortura (non 
      solo per abuso d'ufficio, tanto per capirci, caro Di Pietro, difensore 
      della legalità). Abu Ghraib sembra piuttosto un incidente di percorso, uno 
      strappo nella catena di comando, con quella generalessa che si è fatta un 
      po' prendere la mano e quei sottufficiali della polizia militare che 
      fotografavano tutto e poi, immaginiamo, avrebbero collocato le foto a 
      colori incorniciate sul cassettone del salotto, in qualche anonima 
      villetta unifamiliare, nel Kansas o in West Virginia. 
      Ma, da noi, solo le anime belle del Pd possono credere che queste brutture 
      le facciano solo i marines. In un incredibile servizio delle Iene, sere 
      fa, abbiamo assistito alla performance di un nostro inquisitore, militare 
      o para-militare che fosse. Ogni tanto spunta fuori la notizia di un gruppo 
      di carabinieri e tutori dell'ordine assortiti che dà la caccia agli 
      stranieri, micro-delinquenti o antipatici ai nostri protettori in divisa, 
      e poi li prende a calci, gli rompe i denti, per esempio nella Bergamasca, 
      tra gli applausi dei cittadini. E che succederà nei teatri di 
      peace-keeping? E chi ha collaborato al ratto di Abu Omar? E quanti altri 
      Abu Omar ci saranno stati? Ma su ciò cala il segreto di stato, 
      berlusconiano o prodiano che sia.
      La forma-campo, al limite, non ha bisogno di campi. Oltre alle prigioni e 
      ai Cpt, possono servire commissariati, sale riservate di aeroporti, 
      scantinati - come in gran parte dell'Europa. I luoghi di detenzione 
      (penale, investigativa, amministrativa, transitoria) punteggiano il nostro 
      continente. Ma, a ben vedere, queste sono cuciture di uno spazio-campo che 
      le fertili menti dei nostri burocrati europei vogliono trasformare nel 
      continente più sorvegliato della terra. Europol. Frontex. Sbirri di tutta 
      Europa, unitevi. Le marine della Nato a caccia di clandestini nel 
      Mediterraneo e nell'Atlantico. Gli avamposti di Ceuta e Melilla. Banche 
      dati di cui nessuno sa nulla. Al punto che persino in Germania, dove con 
      la sicurezza non si scherza, il nostro Frattini, per il quale si 
      vociferano prestigiosi incarichi in Italia in caso di vittoria 
      berlusconiana, è stato accusato di minacciare le libertà civili, di 
      schedare tutti (Verrückt nach Sicherheit, maniaco di sicurezza, così lo 
      definisce Der Spiegel, n. 11, 10 marzo 2008). La sicurezza come utopia 
      irrealizzabile, nel cui nome si profondono finanziamenti, si stuzzica la 
      paranoia delle cittadinanze, si organizzano le campagne elettorali. La 
      sicurezza non è né di destra, né di sinistra. La sicurezza è.
      Finché, un bel giorno, si scopre che nel corso degli anni la politica 
      estera, ma si dovrebbe dire la politica interna del globo, incapace di 
      stabilizzare alcunché, di soddisfare esigenze elementari di giustizia e di 
      decenza, concepisce la sicurezza come proliferazione di campi di 
      proporzioni inimmaginabili. Non ci sarà mai uno stato palestinese 
      indipendente, ma due territori-campi, Gaza e Cisgiordania, circondati dal 
      muro, esposti a ogni attacco da terra e dal cielo. Il Libano come 
      semi-campo. L'Iraq sarà in guerra per anni, mentre occidentali e mercenari 
      si sollazzano nella zona verde. Kabul come campo trincerato. Accampamenti, 
      stati-campo, flussi di guerra e internamenti a macchia. E non parliamo di 
      tutto quello che succede altrove, dove la pigra immaginazione degli 
      occidentali non si spinge. Sulla superficie del globo, gli spazi di 
      internamento si allargano a macchia d'olio.
      Da qualche parte, dal lato palestinese del muro costruito da Israele, un 
      artista inglese di strada ha dipinto la silhouette di una bambina che vola 
      via attaccata a un palloncino. Un'immagine patetica, efficace. Pare 
      tuttavia che alcuni palestinesi non abbiano gradito. Perché l'inglese è 
      volato via, ma loro restano. Se oggi dovessimo fotografare un essere umano 
      per ognuna delle situazioni di internamento che punteggiano il globo, qui 
      e là, tra noi e tra loro, in pace e in guerra, un'intera parete non 
      basterebbe a contenere le immagini.