[Lecce-sf] Fw: Se fossimo tibetani

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Autor: Rosario Gallipoli
Data:  
Dla: forumlecce
Temat: [Lecce-sf] Fw: Se fossimo tibetani
Se fossimo tibetanihttp://www.antiimperialista.org
Notiziario del Campo Antimperialista - 23 marzo 2008

RICEVIAMO E DIFFONDIAMO:

Il collettivo "IQBAL MASIH" ed il "COMITATO DINO FRISULLO" di Lecce,
organizzano per giovedi 27 marzo dalle ore 17,00 alle 19,00 D' AVANTI ALLA SEDE RAI DI BARI
sit in di protesta contro l'estradizione dei compagni Avni Er e Zeinep Kilic e contro lo stato fascista Turco che opprime numerose minoranze, tra cui Kurdi, Assiriani, Arabi, ecc perchè interrompa immediatamente gli attacchi contro la popolazione Kurda, liberi dalle proprie patrie galere i numerosi detenuti politici d'opposizione e ponga fine alle torture contro i prigionieri politici Comunisti. Lo stato Italiano interrompa immediatamente la vendita di armi e i rapporti commerciali con lo stato fascista turco.

RICEVIAMO E DIFFONDIAMO:

«Votare è una cosa seria. Astieniti!»
ASSEMBLEA NAZIONALE AUTOCONVOCATA DEGLI ASTENSIONISTI
ROMA - DOMENICA 30 MARZO, ORE 10,00 - PRESSO C.S.I.O.A. VILLAGGIO GLOBALE - Lungotevere Testaccio
Informazioni: http://questavoltano.splinder.com/




Questo Notiziario contiene:

1. SE FOSSIMO TIBETANI
Come opporsi al rinascente Impero Han senza diventare servi di quello americano?
2. CINQUE ANNI DI SANGUE
19 marzo 2003-19 marzo 2008: il tragico bilancio dei cinque anni di occupazione anglo-americana dell'Iraq
3. NOI MANICHEI
HAMAS AL-FATAH: ecco signori come stanno davvero le cose
4. DOPPIO COLPO
Solidarietà con le F.A.R.C.
5. BOLZANETO: VERGOGNA MASSIMA SU DI VOI!
Di Piero Bernocchi


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1. SE FOSSIMO TIBETANI
Come opporsi al rinascente Impero Han senza diventare servi di quello americano?

A causa dell'aggressione angloamericana il popolo iracheno, in cinque anni, ha subito più di un milione di vittime. Un'ecatombe, anzi un vero e proprio genocidio. Davanti a questa carneficina in corso d'opera i mezzi di informazione tacciono, tendono anzi ad avvalorare la balla che la sitazione è in via di normalizzazione. Da parte loro i politicanti di tutti gli schieramenti, nessuno escluso, affaccendati ad accalappiare voti di patrizi e plebei in questa squallida campagna elettorale, si guardano bene dal dire qualche parola o dall'esprimere una pur velata indignazione. Si sono alzati invece come un sol uomo davanti alla repressione cinese della rivolta in Tibet. Quanti arresti? Meno di quelli compiuti dal governo Berlusconi a Genova. Quanti morti? Poco più di un milionesimo di quelli iracheni. Ma il Tibet non è l'Iraq e il lamaismo tibetano è ben lontano dall'islamismo.

In quest'olimpiade di ipocrisia centinaia di parlamentari, in un vero e proprio «blocco delle larghe intese», si son ritrovati a Campo de Fiori, in Roma, per esprimere la loro solidarietà, più che ai rivoltosi tibetani, ai monaci buddisti e al Dalai Lama -che in Tibet non ha alcun seguito di massa e ciò è confermato dal fatto che i giovani in rivolta non hanno affatto inneggiato al suo ritorno. Ironia della storia, l'happening romano si è svolto ai piedi della statuta che ricorda il sacrificio di Giordano Bruno, uno che monaci con la tunica di altro colore misero al rogo a causa delle sue idee. Come se non bastasse il Parlamento è stato urgentemente riaperto per esprimere esecrazione. Un successo senza precedenti della lobby anti-cinese, resa possibile da quel parvenu in caschemire che presiede la Camera dei Deputati, all'anagrafe Fausto Bertinotti. Una lobby buddhista per modo di dire e americanista nella sostanza, una lobby che vorrebbe spingere l'Occidente su una posizione di più aggressivo contenimento del Dragone.

La dichiarazione di Bush per cui non avoca l'indipendenza del Tibet e che andrà alle imminenti Olimpiadi di Pechino sono un bel ceffone per il variopinto fronte filo-dalai. La decisione di Washington di non fare troppo casino indica che per un'America alle prese con una fortissima crisi economica gli affari e la montagna di soldi cinesi che affluiscono nelle casse yankee sono per ora molto più importanti dei diritti dei tibetani.
Sarebbe tuttavia un errore scambiare la tattica per la strategia. L'establishment statunitense considera infatti la Cina capitalista un incipiente nemico strategico, un nemico la cui espansione deve essere contenuta, se necessario anche perseguendo una politica di destabilizzazione interna. A questo disegno risponde la decisione di fare del Tibet una seconda Taiwan. Il 28 ottobre 2001 il Congresso degli Stati Uniti, proprio mentre invadeva l'Afghanistan e si preparava a fare altrettanto con l'Iraq, con un bipartizan Foreign Authorization Act, approvava la risoluzione in cui riconosceva «il Tibet, comprese quelle aree incorporate nelle province cinesi di Sichuan, Yunnan, Gansu e Qinghai, [ovvero il «grande Tibet»] un paese occupato secondo i principi stabiliti della legge internazionale». La risoluzione stabliva inoltre che il Dalai Lama e il suo Governo tibetano in esilio, erano gli autentici rappresentanti del Tibet.

Questa decisione non cadde dal cielo, era al contrario il risultato di una geopolitica di lungo periodo, una geopolitica che non tollera concorrenti nel controllo del Pacifico e dell'Asia e di cui la vicenda tibetana è solo un tassello, un pretesto, un casus belli da tirar fuori alla bisogna. Gli Stati Uniti mai digerirono il crollo della teocrazia buddo-lamaista negli anni '50 e l'avanzata della rivoluzione popolare cinese. Che quella rivoluzione abbia portato ad una progressiva annessione non può far dimenticare cosa fosse il Tibet fino agli anni '50: nessun regime al mondo era più crudelmente teocratico e schiavista di quello del Dalai Lama e dei 180 Hutuktu. Sin dai primi anni '50 la CIA si occupò di sostenere direttamente la rivolta lamaista e fino al 1969, sempre la CIA, finanziava la guerriglia e addestrava gli anticomunisti tibetani nel campo di Hale in Colorado. La stessa fuga del Dalai Lama nel 1959 in India fu direttamente organizzata dai servizi segreti americani. Questo appoggio cessò nell'epoca Kissinger, quando gli USA decisero di agganciare la Cina in funzione antisovietica.

L'ostilità strategica imperialistica verso la Cina, che denunciamo come foriera di una nuova guerra mondiale, non può tuttavia spingerci, né a stabilire l'equipollenza tra il Tibet e Taiwan; né a farci dimenticare che la Cina di oggi è figlia di una colossale controrivoluzione sociale. Riguardo alla questione nazionale va poi ricordato che Cina non solo esitono una cinquantina di minoranze nazionali, va detto che c'è un'effettivo predominio degli Han (come a Taiwan, dove i nativi sono stati genocidiati), predominio che si manifesta in tutte le sfere sociali e che è diventato assoluto negli ultimi decenni di restaurazione capitalista, restaurazione che ha incoraggiato a dismisura la spinta colonizzatrice Han in quasi tutte le Provincie autonome (la Costituzione del 1982, quella che legittima la proprietà privata capitalistica, pur assegnando formalmente una vasta autonomia alle provincie autonome, non riconosce in alcuna maniera il diritto all'autodeterminazione).

Non ci passa per la testa di avocare lo smembramento della Cina in piccoli staterelli (come fece il vecchio colonialismo europeo e come forse sperano accada in futuro i tecnici del dominio imperialista occidentale). Ma neanche possiamo tacere le sofferenze che alcuni popoli subiscono a causa dell'oppressione razzista degli Han, primo fra tutti il popolo uyguro del Xinijang. Se ieri gli Han pretendevano di portare il socialismo e di strappare questi popoli al «feudalesimo», oggi essi cercano di strapparli ad un'economia agraria che per quanto arretrata è ancora collettivista, ed esportano un capitalismo selvaggio e sfruttatore.

Se fossimo tibetani avremmo probabilmente partecipato alla rivolta. Saremmo stati al fianco del nostro popolo, a rivendicare il diritto di essere padroni in casa nostra. Ci saremmo scagliati, assieme ai tanti giovani esausti della colonizzazione cinese, contro i simboli dello strapotere Han, ovvero i templi del potere e quelli del denaro. Non avremmo tuttavia inneggiato al Dalai Lama, avremmo anzi denunciato i «democratici » occidentali che tuonano lampi e fulimini contro i regimi teocratici islamisti, ma in Tibet vorrebbero restaurare la dittatura teocratica lamaista. Solo stando a fianco di chi combatte contro l'ingiustizia si può sperare che la lotta non sia strumentalizzata dalle diverse forze politiche reazionarie dell'opposizione tibetana, che usano la bandiera dell'indipendenza per salire al potere e fare gli affari al posto degli Han. Stare alla finestra, fare gli indifferentisti, non è nella nostra indole.
V'è chi ci criticherà, sostenendo che non c'è alcun posto tra l'imperialismo euro-atlantico e il neoimperialismo sino-russo. Esso ha perduto ogni speranza nei movimenti di emancipazione dei popoli. Noi no.

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2. CINQUE ANNI DI SANGUE
19 marzo 2003-19 marzo 2008: il tragico bilancio dei cinque anni di occupazione anglo-americana dell'Iraq

Scrivevamo nel dicembre 2003:

«L'aggressione angloamericana sarà ricordata sui libri di storia come un tornante. In Iraq si decide se la strategia nordamericana di porsi come Impero, ovvero la sola grande potenza mondiale dopo la fine della guerra fredda, sarà coronata da successo o si concluderà in una disfatta. Per simmetria, dentro questa vicenda, ce n'è dunque un'altra, quella della Resistenza, della guerra di guerriglia, ovvero di una modalità dello scontro che alcuni, troppo presto, avevano data per morta».

E' sotto gli occhi di tutti che l'occupazione dell'Iraq si è trasformata in un gravissimo impasse per la strategia imperiale nordamericana. Contrariamente a quanto affermano Bush e la folta schiera di giornalisti embedded, il paese non solo non conosce alcuna pace, esso resta sotto ogni profilo il luogo più pericoloso e infernale del pianeta.

Gli angloamericani, una volta rovesciato Saddam, hanno davvero sperato che gli iracheni si sarebbero comportati come i giapponesi o i tedeschi dopo il 1945. Nessuna previsione fu più sballata. Si trovarono davanti ad una Resistenza accanita e micidiale, una Resistenza che li costrinse sulla difensiva prima e a cambiare radicalmente approccio poi.

Per dare la misura di cosa sia l'Iraq «pacificato» basta leggere i dispacci che oggi, giorno di Pasqua 2008, quinto anniversario dell'invasione, giungono dall'Iraq. Sentiano:

«A Mosul l'esplosione di un camion-bomba guidato da un kamikaze ha ucciso 10 soldati iracheni e ha ferito altre 30 persone tra cui molti civili in un attentato contro una base militare. (...) Due persone sono morte e 10 sono rimaste ferite da Katyusha fuori bersaglio nei quartieri nordorientali di Baghdad e in quello centrale di Bab-al-Sheikh. (...) La zona verde di Baghdad si è svegliata sotto un martellamento di mortai e razzi in una giornata contraddistinta da attacchi sanguinosi in tutto l'Iraq. Secondo il Comando statunitense, dietro gli attacchi contro la Zona Verde potrebbero esserci gruppi un tempo legati a Moqtada al-Sadr e al suo esercito Mehdi e che si sono dissociati dalla tregua rinnovata dal leader sciita un mese fa».

Per sapere come vanno le cose in Iraq non si puo' certo fare affidamento sulla stampa italiana (ammesso che abbia dei veri inviati di guerra e non solo pennivendoli, essa non sborsa i quattrini per assicurarli e proteggerli). Occorre fare ricorso a quella un po' più seria, non sembri un paradosso, nordamericana ed inglese, molto meno servile verso l'imperatore di quella delle satrapie imperiali come l'Italia.

Sentiamo ad esempio quanto afferma Rageh Omaan su The Guardian del 17 marzo scorso:

«Andare in giro per Baghdad, o parlare con la gente per strada, era già incredibilmente pericoloso. Ora è quasi impossibile, a meno di non essere circondati da guardie del corpo armate o di attenersi alla "regola dei 20 minuti" -ovvero di non concedersi più di 20 minuti per uscire da una macchina, parlare con gli iracheni, e poi andarsene. Un po' di più e quelli che stanno a guardare telefoneranno alle milizie locali per dire che hanno visto degli occidentali per strada.... Adesso è fatale venire collegati a qualsiasi cosa di occidentale... Questa paura di venire collegati a qualsiasi cosa di occidentale ha conseguenze terrificanti.... Uno degli aspetti dei pericoli del fare giornalismo in Iraq di cui meno si parla, o che viene ammesso di meno è che adesso sono solo le testate più ricche a poterci rimanere. La ragione è semplice, l'assicurazione. I costi del mandare personale a Baghdad e tenercelo sono astronomici: i "consulenti per la sicurezza" occidentali ("mercenari" è più accurato) ingaggiati dalle testate televisive vengono pagati attorno alle 400-700 sterline al giorno l'uno. Più il giornalista è famoso, più è costoso, e perciò meno probabile che a lui o a lei venga consentito di lasciare le basi militari o la Green Zone, a meno che non sia scortato da guardie armate o dall'esercito.»

Infine, denuciando le patetiche sceneggiate dei giornalisti che si collegano da Baghdad fingendo di passeggiare tranquilli per strada conclude:

«Vivere fuori dalla Green Zone - i quasi 13 kmq del centro di Baghdad colonizzati dall'esercito e dalla forze di sicurezza statunitensi - era un punto d'onore per molti giornalisti. Ma la Green Zone è arrivata da loro. Tutti i principali uffici di corrispondenza - che sia al-Jazira, la BBC, la CNN, o la ITV - in effetti devono essere compound fortificati, con torrette, muri di cemento anti-esplosione, e controlli di sicurezza. Lo stesso vale per l'Hotel Hamra, utilizzato per lo più dai giornalisti della carta stampata».

Ascoltiamo adesso quanto scrive Patrick Cockburn nel suo emblematico e crudo reportage da Baghdad (The Indipendent del 16 marzo):

«Cinque anni dopo l'invasione dell'Iraq, il governo statunitense e quello iracheno sostengono che il Paese sta diventando un posto meno pericoloso, ma le misure prese per proteggere il Primo Ministro al-Maliki ci raccontano una storia del tutto diversa. In un primo momento, soldati che brandivano dei fucili hanno sgombrato tutto il traffico dalle strade. Poi, quattro auto nere blindate, ognuna delle quali aveva sul tetto tre uomini armati di mitragliatrice, sono uscite correndo dalla Green Zone attraverso una uscita super fortificata, seguite da Humvee americani color sabbia e altre macchine blindate. Infine, nel mezzo del convoglio che andava a tutta velocità, abbiamo visto sei veicoli identici a prova di proiettile con i vetri oscurati, in uno dei quali doveva esserci Maliki.... Le precauzioni non erano eccessive, dato che Baghdad rimane la città più pericolosa al mondo. Il Primo Ministro iracheno stava andando solo al quartier generale del partito Da'wa, di cui fa parte, e che si trova solo a poco meno di un chilometro fuori dalla Green Zone, ma le centinaia di addetti alla sua sicurezza si comportavano come se stessero entrando in territorio nemico».

Che la spinta imperiale americana si si impantanata a Baghdad non inficia che la Resistenza irachena sia a sua volta in un impasse. Da un paio di anni lo andiamo dicendo, portando fatti e argomenti. Chi legge assiduamente questo Notiziario sa con quanta precisione abbiamo evidenziato i fattori di debolezza e di crisi della RESISTENZA. Questo impasse non è solo dovuto al diverso e più astuto e flessibile approccio degli occupanti, ma anche a causa di errori strategici compiuti dalle due componenti combattenti più importanti (quella jihadista e quella baathista).

L'errore più grave è stato quello di combattere frontalmente la comunità shiita, di considerarla un nemico al pari degli occupanti. Invece di proseguire sulla strada della primavera estate del 2004 (quando le città shiite insorsero a fianco della città martire sunnita di Falluja) la Resistenza sunnita ha imboccato la via dello scontro frontale, via che ha spezzettato il paese, ulteriormente diviso il popolo iracheno, a tutto vantaggio degli occupanti. Petraeus non ha fatto che infilarsi in questo conflitto, esacerbandolo, per porsi poi come arbitro della guerra fratricida. E' così avvenuto che non solo la Resistenza non ha saputo trasformare la guerriglia in guerra di liberazione nazionale (e quindi costituire un vero e proprio fronte unitario di liberazione), ma si è fatta impigliare nella spirale di uno scontro confessionale e comunitario, e questo non poteva che portare all'esito triste, non solo di ulterori divisioni della Resistenza, ma del passaggio di diversi pezzi di essa dalla pare degli occupanti.

Come questo è stato possibile? E' stato possibile a causa della reazione accanita e spesso crudele delle milizie shiite le quali, davanti agli attacchi indiscriminati anzitutto dei jihadisti, hanno scatenato un'offensiva militare all'insegna dell'occhio per occhio dente per dente. Il luogo cruciale di questa battaglia è stato Baghdad. Essa ha avuto luogo tra il gennaio 2006 (dopo il tremendo attentato antishiita a Sammarra) e la primavera del 2007. Questa battaglia si è conclusa con una cocente sconfitta dei guerrigieri sunniti, che hanno dovuto lasciare il controllo che avevano di vaste aree della città a favore del Mahdi di Moqtada al-Sadr. Ora Baghdad è frantumata in ghetti fortificati, confessionalmente omogenei. Mentre la gran parte dei guerriglieri sunniti, invece di invertire la rotta e tentare una conciliazione in chiave antiamericana con gli shiiti, hanno preferito allearsi con gli americani, in cambio di soldi e armi.

Quanto potrà durare quest'equilibrio di forze non sappiamo. Non a lungo tuttavia. Molto dipende da come gli americani tenteranno di risolvere il dissidio con l'Iran, che sostiene pro domo sua gran parte delle formazioni shiite in Iraq. Un attacco militare all'Iran farebbe precipitare la situazione irachena, trasformerebbe anzi il paese in un decisivo campo di battaglia tra Washington e Tehran. Ciò causerebbe un radicale rimescolamento dei fronti e, forse, un riallineamento delle forze in campo, nel senso, ci auguriamo, di una alleanza di tutte le forze antiamericane e antimperialiste.

Certo è che occorre una grande svolta affinché il popolo iracheno riunisca e raccolga le sue forze per far uscire il paese dal caos totale incui è sprofondato, Iraq che oramai è diventato una mera espressione geografica.

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3. NOI MANICHEI
HAMAS AL-FATAH: ecco signori come stanno davvero le cose

Ci sono tante ragioni per averci in antipatia (intendiamo noi, noi del Campo). Prima fra tutte è che non abbiamo peli sulla lingua. La seconda è che non portiamo rispetto agli opportunisti, a quelli che dicono di sostenere la lotta di liberazione palestinese ma si vergognano di stare dalla parte di chi oggi questa lotta rappresenta e dirige. Siamo indigesti ai cerchiobottisti, quelli che non vogliono dire pane al pane e vino al vino, che si rifiutano di prendere atto che al-Fatah, da movimento di Resistenza, soprattutto dopo la scomparsa di Arafat, si è trasformato in un partito collaborazionista.

Parliamo di quei compagni di strada (che diciamo di stada, di viottolo), che quando a Giugno, dopo mesi di scontri. HAMAS prese il controllo di Gaza, urlarono anche loro al "golpe" e presero le difese di al-Fatah. Noi fummo i soli, o quasi, a difendere come legittima la risposta di HAMAS. Fummo tra i pochi a sostenere la Resistenza islamica, mentre i compagni di viottolo sollevarono (sulla falsa riga della propaganda imperiale) capziosi discorsetti sul rischio di una dittatura teocratica a Gaza, strusciando le solite corde laiciste del sinistrume che non sa più a che santo votarsi.

Sono passati meno di nove mesi ed ora la verità viene a galla (per certa gente un fatto, affinché abbia dignità di verità, deve essere spiattellato su qualche organo di stampa imperialista).

Questo spiattallamento della verità, sulla guerra sporca di al-Fatah contro Hamas, e di come questa fosse stimolata e foraggiata dall'amministrazine Bush e da Israele, c'è stato grazie a Vanity Fair, un periodico di costume e moda nordamericano ma pubblicato anche in lngua italiana.

Leggere per credere.

«Vanity Fair ha ottenuto documenti riservati, avvalorati da fonti negli Stati Uniti e in Palestina, che rivelano un'iniziativa, approvata da Bush e realizzata dal Segretario di Stato Condoleezza Rice e dal vice consigliere per la sicurezza nazionale Elliott Abrams, volta a provocare una guerra civile inter-palestinese. Il piano era basato sulle milizie di Dahlan, armate con nuove armi richieste all'America e da essa fornite, per dare a Fatah la forza necessaria per rimuovere il governo democraticamente eletto di Hamas. (Il Dipartimento di Stato ha rifiutato di commentare.)
Ma il piano segreto si è rivelato controproducente, determinando un'ulteriore sconfitta per la politica estera americana di Bush. Invece di sconfiggere i nemici, i combattenti di Fatah, dietro i quali c'erano gli U.S.A., hanno inavvertitamente provocato la conquista del totale controllo di Gaza da parte di Hamas. (...)

Alcune fonti chiamano la vicenda "Iran-contra 2", ricordando che Abrams è stato condannato (e poi graziato) per informazioni celate al Congresso nel corso del primo scandalo Iran-contra, sotto il Presidente Reagan. Ci sono echi di altre disavventure del passato: quelle della CIA nel 1953 e nel 1979, l'invasione della Baia dei Porci nel 1961, che fornì un pretesto a Fidel Castro per rafforzare la sua presa su Cuba, e l'attuale tragedia in Iraq. (...)

Nell'amministrazione Bush, la politica palestinese ha provocato un furioso dibattito. Uno dei suoi critici è David Wurmser, neocons dichiarato, che nel luglio 2007, un mese dopo il golpe di Gaza, ha rassegnato le dimissioni da Primo Consulente per il Medio Oriente del Vice Presidente Dick Cheney. Wurmser accusa l'amministrazione Bush di "essersi impegnata in una guerra sporca, nel tentativo di far vincere una dittatura corrotta [guidata da Abbas]". Egli ritiene che Hamas non avesse alcuna intenzione di prendere il potere a Gaza fino a quando Fatah non l'ha costretta a farlo. "Mi sembra che quello che è accaduto non sia stato tanto un golpe di Hamas, ma un tentativo di golpe di Fatah, che è stato anticipato prima che potesse avvenire", dice Wurmser».


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4. DOPPIO COLPO
Solidarietà con le F.A.R.C.


La Resistenza colombiana non ha fatto in tempo ad assorbire il gravissimo colpo del 1 marzo scorso, quando un'attacco militare delle forze speciali di Uribe (con l'aiuto determinante dei servizi segreti militari USA), uccise il Comandante Raul Reyes; che ne ha dovuto subire un altro. All'alba del 7 marzo un traditore si presenta alla caserma di San Matteo (al confine tra le provincie di Caldas e Antioquia), con il computer e il passaporto del leggendario comandante in capo delle FARC: Ivan Rios. Il traditore in questione era una delle sue guardie del corpo. Egli si presenta dicendo di averlo ucciso, e come prova tangibile sbatte sul tavolo una mano mozzata, tagliata con una motosega. Era proprio quella di Ivan.
Per questa ostentazione di civiltà, hanno esultato Uribe e Bush. Ma gaudono sadicamente anche gli intellettuali liberali arruolati in servizio permanente effettivo.

Emblematico è quanto ad esempio scrive, sul Corriere della Sera di oggi 23 marzo (Pasqua- giorno di Resurrezione, di Redenzione e di speranza), l'ebreo-sionista, nuovo filosofo dei nostri stivali, Bernard-Henri Lèvy, in morte di Ivan Rios: «Una vera soddisfazione, anche questo bisogna dirlo e con fermezza, all'idea che le FARC, diventate una gang, una mafia, volino da una sconfitta all'altra e si stiano avvicinando alla tanto sospirata resa».

Se l'esultanza è raccapricciante, il sinistro augurio di una resa della Resistenza colombiana appare come il vaticinio di un ciarlatano, il cui spessore filosofico è inversamente proporzionale al suo servilismo. Pasqua, giorno di Resurrezione, di Redenzione e di speranza. Noi non solo speriamo che non sia lontano il giorno in cui il popolo colombiano si libererà della gang degli oligarchi che l'opprimono. Noi di una cosa siamo certi, e la storia colombiana ce lo conferma, che la resa delle FARC, smentendo tutti i profeti di sventura, non ci sarà mai.



FARC-EP: COMUNICATO SULLA MORTE DI IVÁN RÍOS

1. Informiamo l'opinione pubblica nazionale ed internazionale che all'alba del 7 marzo è stato assassinato da infiltrati dall'esercito, insieme alla sua compagna, il Comandante e membro del Segretariato Iván Ríos. Con un gesto che riflette il degrado della guerra, gli assassini hanno tagliato la mano destra del Comandante per presentarla come trofeo e prova della loro azione al colonnello della VIII Brigata dell'esercito, quale macabra esigenza dei comandi militari colombiani imparentati con la motosega. Per coprire questo codardo e vile assassinio, il Procuratore Generale Mario Iguarán, con impudico cinismo, pretende di collegarlo ad un atto di legittima difesa.

2. Rendiamo un sentito tributo al Comandante guerrigliero sventolando la bandiera del socialismo bolivariano. I nostri non muoiono al momento del loro decesso, giacché continuano a vivere nel progetto politico e sociale delle FARC e nell'anelito di pace e dignità del popolo. Iván Ríos era entrato nel V Fronte nella regione dell'Urabá negli anni '80. Ha trascorso la sua vita guerrigliera forgiando coscienze ed organizzando il popolo; nel 2000 aveva fatto parte, con capacità ed all'altezza del compito, della Commissione Tematica dei dialoghi nel Caguán, e dal novembre 2003 era diventato membro del Segretariato delle FARC, rimpiazzando l'indimenticabile Efraín Guzmán. Coerente col suo giuramento, Iván Ríos ha dato la vita per la causa dei poveri.

3. Condanniamo l'accanimento del presidente della Colombia e dei comandi militari sui cadaveri dei loro avversari abbattuti. A Iván Ríos hanno tagliato una mano, e Raúl Reyes è stato insultato da morto, durante il Vertice di Río a Santo Domingo, dal presidente che adesso non vuole consegnare i suoi resti funebri. La viltà dello Stato rende più grande la nobiltà dei nostri. Hanno paura addirittura dei cadaveri dei guerriglieri bolivariani del secolo XXI, i quali sentono come proprie le lotte dei popoli del continente che fanno parte dell'eroica resistenza contro la spoliazione neoliberale della Nostra America, e che non muoiono perché continuano a sognare insieme ai loro compagni ed al popolo la Nuova Colombia, la Patria Grande ed il Socialismo.

4. La guerra che conduciamo è giusta perché è contro l'oppressione, per la vita, la pace, la sovranità popolare e la giustizia sociale. Non importano i milioni e milioni di dollari che il governo degli Stati Uniti elargisce a quello colombiano per finanziare la guerra, se siamo decisi a trionfare.

5. Informiamo il nostro popolo e la comunità internazionale che il Comandante Mauricio Jaramillo è stato designato come nuovo membro del Segretariato delle FARC.

".Cosa sarebbe la vita senza l'esplosione del tuono della Resistenza nelle nostre mani ed il fuoco della Patria Grande nelle cartucciere."

Vinceremo!

Segretariato dello Stato Maggiore Centrale delle FARC-Esercito del Popolo



Montagne della Colombia, 8 marzo 2008

da: www.nuovacolombia.net

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5. BOLZANETO: VERGOGNA MASSIMA SU DI VOI
Di Piero Bernocchi

In effetti a Roberto Mapelli andò, si fa per dire, relativamente bene, come a tutti i primi arrivati, prima dell'ondata successiva all'uccisione di Carlo. Ma anche la sua testimonianza - apparsa oggi su Liberazione e che io non conoscevo o che finora, forse, non aveva mai fatto in pubblico, magari per quel pudore che si ha a dover dire di essere stati torturati/e o seviziati in qualsiasi forma - serve a completare il quadro di quello che accadde a Bolzaneto. Avrei solo da aggiungere che Roberto se la prende con Veltroni (giustamente) ma dimentica Bertinotti e tanti dirigenti del PRC, del PdCI e dei Verdi che io ritengo almeno altrettanto gravemente responsabili della cancellazione, nei due anni di governo del centro sinistra, delle torture a Bolzaneto e addirittura della promozione di De Gennaro, principale responsabile "operativo" delle violenze a Genova. Altro che commissione di inchiesta!! C'era quanto meno da introdurre in una settimana il reato di tortura, con pene di decine di anni, tenendo accesi i riflettori su Bolzaneto; il resto, incredibilmente, lo avrebbero fatto i magistrati e oggi questi e , purtroppo, anche queste (come ad Abu Ghraib anche varie donne hanno goduto a torturare) bastardi/e torturatori/trici avrebbero potuto essere messi/e in galera per decenni come meritano (altro che non punire!! questa è gente che farebbe come in Argentina, paro paro, ci butterebbero in mare dagli aerei); e poi ci sono le migliaia che sapevano, che hanno visto e hanno taciuto. E oggi mi tocca leggere addirittura l'intervista su Repubblica di Amato (non il Berty o il dolce Veltroni o il giulivo Pecoraro o l'ultra-falceemartello Diliberto) che dice che i politici hanno fatto finta di non vedere in questi anni e non hanno denunciato la tortura di Bolzaneto, per ingraziarsi le forze dell'ordine o perchè ne hanno paura; e non l'hanno detto quei leader del PRC, del PdCi o Verdi che su Genova e su quel disgraziato e sfortunato e massacrato movimento hanno costruito le proprie (effimere, oggi sono alla frutta non a caso, visto che neanche le ferite più profonde di quell'esperienza hanno voluto/saputo provare a cicatrizzare) fortune elettorali e politiche. Da quell'altissimo scranno che tanto ha voluto, Bertinotti avrebbe dovuto tuonare ogni giorno fino a quando gli apparati statali non avessero ammesso l'orrenda realtà: per la prima volta nel dopoguerra in Italia, un migliaio di delinquenti in divisa ha effettuato torture (o ha lasciato torturare) di massa, su centinaia di poveri/e disgraziati/e colpevoli di niente, e rilasciati poi, umiliati e distrutti nel fisico e nell'animo. E non c'era la guerra civile, non c'era Al Qaeda, non c'era niente, solo manifestazioni che a petto di quelle degli anni '70 erano passaggiate innocue. E invece silenzio tombale: e oggi devono essere i D'Avanzo a richiamare all'ordine i nostri sinistri di governo, ricordando loro che i torturatori non faranno manco un giorno di galera e resteranno in divisa, mentre i nostri compagni fiorentini si sono beccati 7 anni di galera per "resistenza" in una manifestazione contro la guerra e a Genova c'è chi si è preso 11 anni per aver rotto un po' di vetrine. Vergogna massima su di voi!!. Ne avete combinate tante questi due anni, una peggio dell'altra. Ma questa vi accompagnerà fino alla tomba come una nera impronta indelebile, l'ignominia di aver finto di dimenticare le torture, lasciando che torme di nazisti (avete presente il boia medico torturatore, il Menghele dei nostri giorni?) continuassero a impestare le "forze del disordine", le caserme, i commissariati, le carceri, le strade.



Piero Bernocchi