liberazione 21 marzo 2008
Al Pd, a Veltroni: che i colpevoli non vestano più la divisa Dove eravate quando ci torturavano a Bolzaneto?
Roberto Mapelli
Sono stato il primo a entrare a Bolzaneto. E mi è andata meglio di chi mi ha seguito. Genova, venerdì 20 luglio 2001, attorno alle 14 vengo fermato in via Alessi mentre la polizia carica lo spezzone inglese di Globalise Resistance. Ero sceso da Piazza Dante dove per Attac coordinavo le attività sulla piazza (palloncini per un'invasione aerea della zona rossa e protesta davanti alle reti). Ho visto due ragazze trascinate in malo modo da un gruppo di celerini. Mi sono messo in mezzo. Le ho prese anche io. Mi hanno sbattuto su una camionetta con un giovane inglese con il naso fratturato, la testa aperta e un dente rotto. Era una maschera di sangue, non riusciva a respirare. Ci portano in Questura, in una stanza vuota a piano terra, siamo una decina, c'è uno svizzero, un paio d'italiani, degli inglesi e le due ragazze, una neozelandese e una tedesca. I quattro poliziotti che ci prendono in consegna - nessun graduato - le lasciano stare, ma vogliono che guardino mentre ci riempiono di botte. Calci, schiaffi, una testa pestata più volte contro il muro, in ginocchio e poi in piedi, ogni parole erano botte.
Ci fanno uscire, saliamo su una volante, ammanettati. Fa un caldo pazzesco. Harrison (l'inglese) sta sempre peggio, rantola. I finestrini sono chiusi, busso al plexiglass per chiedere di aprire o accendere l'aria condizionata. Mi risponde una poliziotta che non avrà avuto 25 anni: «Non voglio mica sentire la vostra puzza di merda». Resta tutto chiuso. Dopo 10 minuti di tangenziale ed autostrade deserte siamo a Bolzaneto. La macchina entra nel cortile ed è già aria di lager. Uno con la divisa verde, che in seguito saprò volesse dire polizia penitenziaria, insegue la volante a piedi gridando: «Quando scendi ti cambio la faccia, frocio di merda, comunista bastardo...». Scendiamo e veniamo accolti dal corridoio da galera: le divise, da una parte e dall'altra, con bastoni di legno (non manganelli, bastoni) alzati sopra di noi, sputi e calci. Ho fatto i tre gradini con la paura fino al midollo. E sono finito dritto in cella.
Era grande e man mano arrivavano gli altri. Una dozzina. Le ragazze altrove, le sentivamo. Una veniva trascinata per il corridoio e urlava in francese. Dalle sbarre un poliziotto ci diceva: «Avete ammazzato uno di noi, ma noi ve ne abbiamo ammazzati tre». E giù insulti. Eravamo terrorizzati. Il clima stava palesemente degenerando. Chiunque entrava era portato a calci e sberle, trascinato per terra. Urla di chi le prendeva e più forti di chi le dava. Mi sono foderato le orecchie.
Mi portano in una stanza per l'identificazione, trovo un paio di poliziotti che mi sembrano Digos, in borghese. Dico che tutto questo è illegale, è una pazzia. Uno mi dice di stare zitto. L'altro scuote la testa. Entra un Gom in divisa e mi riporta via, l'identificazione si fa in un'altra palazzina. Impronte digitali e della mano, foto. Vicino c'è la ragazza tedesca presa con me. Scioccata, non riusciva a rispondere alle domande in italiano - ovviamente. Sembrava paralizzata. Le dico di non preoccuparsi che saremo usciti vivi. Mi arriva un pugnone sulla testa, mi sono accasciato. L'unica donna poliziotto presente all'identificazione, in camice bianco, forse una tecnica, mi dice sottovoce che non lontano dalla caserma c'è un centro sociale a cui chiedere aiuto, una volta uscito.
Mi riportano in cella. Stava arrivando un sacco di gente. Nei corridoi menavano. Gente sempre messa peggio. Ci fanno stare in piedi, faccia al muro. Per ore. Ogni tanto ci sediamo, perché non ce la facciamo. Orecchio all'erta per rialzarsi in piedi. Altrimenti son altre botte. Mi chiamano per il rilascio, mi sottopongono una dichiarazione da sottoscrivere: ero senza documenti e venivo fermato per essere identificato... non ho subito alcuna violenza fisica durante il fermo. Era prestampata. Mi sono opposto. Mi rispondono che era mio diritto contestare la dichiarazione ma non sarei stato rilasciato. Ho firmato.
Sul portone chiedo come tornare in città, mi rispondono: «Prendi il primo treno e vai il più lontano possibile, ti conviene». Sono uscito per primo. Poco prima delle 20. Aspetto fuori la neozelandese e la tedesca. Erano senza parole. Stralunate. Piangevano. Volevano prendere il treno che le avevano consigliato. Davano un po' di matto. Le ho convinte e seguirmi. Ci siamo incamminati. Abbiamo trovato il centro sociale Immensa che prima non conoscevamo. Abbiamo saputo di Carlo. E poi ora dopo ora e nelle settimane successive abbiamo saputo che a quelli dopo di noi è andata molto peggio. Dentro e fuori. Nel corpo e nell'idelebile ferita della tortura.
Oggi. Dopo sette anni. Dopo il libro bianco, la controinformazione, i processi, posso dire che a me non frega niente che il bastardo che menava me, che spezzava altre dita, che strappava piercing, che minacciava stupri e così via, finisca in galera. Non è quello che voglio. Almeno io. Ma vorrei sapere, invece, perché fa ancora il suo mestiere. Perché è "forza dell'ordine".
Quegli uomini dello Stato italiano non devono più operare in nome della Costituzione. E' il minimo che si possa chiedere a quel che si chiama Stato di diritto (se c'è). Le condanne ci saranno, forse. I reati saranno prescritti, l'unica certezza. E la tortura non è un reato specifico nel nostro paese. Per carità, ratifichiamo al più presto la convenzione internazionale e facciomo una legge. Visto che ce n'è bisogno. Come ben venga la Commissione d'inchiesta abortita in questi anni grazie a chi oggi si scandalizza.
Ma dopo sette anni, a chi non c'era. A chi si è tirato indietro lasciandoci più soli. A chi non ha alzato voce ed ha aspettato mesi se non anni per scoprire quello che abbiamo vissuto e ora vuole anche parlare per tutti, a loro, al Pd, a Walter Veltroni dico di fare l'unico passo possibile: impegnatevi perché non possano più nuocere i nazisti che abbiamo incontrato a Bolzaneto, in Questura e per le strade di Genova. Noi li abbiamo incontrati. Abbiamo respirato il loro fiato. Godevano a umiliare e picchiare donne e uomini. Non lo pensavamo possibile. Ma l'abbiamo vissuto. Voi che non ci avete creduto per tutti questi anni. Adesso chiedete almeno che questi "uomini di Stato" non possano più commettere soprusi in suo nome, che vengano giudicati politicamente indegni della Costituzione. E con loro, i loro superiori. Perché ci fu chi picchiò. E chi ordinò. E pure chi si girò dall'altra parte. E' così difficile dirlo?
21/03/2008
___________________________________
NOCC,
http://nocc.sourceforge.net