[Lecce-sf] cosa sta succedendo a GAZA

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Szerző: siempre@virgilio.it
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Tárgy: [Lecce-sf] cosa sta succedendo a GAZA
BOTTEGA del MONDO
Commercio EQUO E SOLIDALE - CONSUMO CRITICO
via
PALMIERI n. 6 (a 50 mt dal DUOMO) Tel. 0832/303335




Cari/e
tutti/e,
La situazione nella striscia di Gaza sta raggiungendo un
livello di drammaticita' che rasenta l'inimmaginabile. Nessuno puo'
uscire; non fanno entrare gas, corrente, gasolio, medicinali, cibo.
Tutto e' centellinato. Gli ospedali non possono curare i malati, ne
operare. Puo' la mente umana concepire davvero la crudelta'
dell'olocausto nazista? Puo' la mente umana concepire davvero l'assedio
e lo sterminio lento che si sta oggi perpetrando nella striscia di
Gaza? Come sapete da qualche anno siamo in PAlestina con un nostro
progetto. Vi mando questo racconto, di una ricercatrice, Franca, che
e' stata a Gaza in Dicembre. Dopo un mese la situazione e' addirittura
peggiorata. Vi chiedo, per favore di prendervi una mezz'orina per
leggerlo. Lo so che ci sono mille cose da fare. Ma stampatelo e
leggetelo.... e passatelo a familiari ed amici..... non possiamo
chiudere gli occhi. Non possiamo non sapere e non possiamo tacere. ...
per la dignita' della vita umana. Sabato 26 gennaio e' stata indetta
una giornata di sensibilizzazione internazionale per porre fine
all'assedio di Gaza. (http://www.end-gaza-siege.ps/IndexEn.htm). Noi
ne organizzeremo una apposita in febbaraio e poi in marzo avremo la
presenza di due rappresentanti delle cooperative palestinesi con cui
collaboriamo. Nel frattempo sono anche arrivati in Bottega i primi
prodotti. In questo momento più che mai il Commercio Equo rappresenta
un sostegno diretto e solidale immediato alle popolazioni locali.
Sostenete e partecipate se potete. Accendete anche solo una candela
sulla vostra finestra. ... ma non mettete la testa sotto la
sabbia....
_____________


Immagina un popolo.    Lo immagini un 
muro?
Immagina un muro ciclopico, otto metri di cemento tirati su 
contro il cielo, che si perdono alla vista in linea orizzontale, che 
stanno davanti a te, circondano la città o il paese in cui vivi, in cui 
vivete, il vostro ultimo e unico orizzonte. Immagina una ciclopica 
porta di ferro, alta quanto il muro, spessa qualche metro di non so 
quante tonnellate. Pensi di essere in un racconto di Kafka o di Edgard 
A. Poe?  Pensi di essere in un fumetto di Oesterheld, nell'Eternauta, 
nel campo di calcio della Buenos Aires dei desaparecidos?  
Benvenuto 
nella striscia di Gaza, sei davanti ad una delle porte che ogni tanto 
(negli ultimi tempi a giorni alterni) si aprono - immagina il rumore - 
per lasciar entrare i carri armati guidati da qualche giovane soldato 
israeliano che va a distruggere qualche casa e uccidere qualche ragazzo 
sospettato di essere quello che tirava razzi Qassam o che se non lo 
aveva ancora fatto avrebbe potuto farlo.  
Non eri tu a sparare? Non 
hai sparato Qassam verso Sderot? E tuo fratello? Il tuo vicino di casa? 
Non c'entra niente con te? Ma non appartiene comunque a "quelli"? Anche 
ieri ne sono morti sei di "quelli"? Troppo pochi? 
Allora, ti piace 
questa porta? La vuoi comprare?
Ti piace questo muro? Lo vuoi intorno a 
casa tua?
Immagina intorno a te, sotto il muro, dalla tua parte, una 
landa desolata sconvolta, case sventrate, muri divelti, spezzoni di 
ferro, tronchi di cemento spezzati, macerie: quel che è stata una casa, 
molte case, tutte troppo vicine al muro. Frantumi. Era la tua casa? 
Peccato, ma non era troppo vicina al muro? E la "sicurezza"?
Vuoi 
ricostruirla? Me li dai tu mattoni, calce, malta, cemento? 
Lo sai 
quanti prodotti possono passare dalla "porta" (quando è aperta)? 13? 
18? Non sono consentiti i mattoni? Non sono beni di prima necessità? 
Nemmeno la calce? Un solo mattone? 
Benvenuta/o a Gaza sotto assedio. 


"Ma non possono darsi da fare?"
Domanda che mi rivolge una compagna del
corso di ebraico all'Università popolare di Torino. Mi do da fare?
Aggiusto le strade piene di buche? Aggiusto le case sforacchiate dalle
battaglie tra la nuova polizia di Hamas e l'ex-polizia di Fatah e
quelle razionalmente e meticolosamente distrutte dai carri armati
israeliani?
Faccio il muratore? Faccio l'imprenditore? Me lo dai tu il
materiale? Faccio lo stradino? Me lo dai il bitume? Faccio il medico?
Le lastre per le radiografie sono state fermate alla frontiera? Sono
pericolose? Anche le apparecchiature per le dialisi?
Dici che allora
posso riposare? Vado a giocare a calcio? Vado in giro, vado alla
Moschea, vado a cercare se qualcuno mi dà qualcosa da fare, vado a
vedere se qualcuno mi dà qualcosa, vado alla Moschea. Qual è il mio
"livello di stress"? Il mio "livello di autostima"? Picchio mia moglie?
(La violenza sulle donne è aumentata negli ultimi tempi per l'aumento
della povertà, della umiliazione, della diminuzione di "autostima",
come si dice qui da noi)

Immagina una donna
Riesci a immaginare una
ragazza di 30 anni? Vive nel campo profughi di Beach Camp, Gaza City.
È divorziata? forse è ripudiata, perché non può avere figli, forse è
stata picchiata perché non poteva avere figli, certo i suoi non se la
sono voluta riprendere in casa (altra bocca da sfamare. Ma potrebbe
anche trattarsi della giovane vedova di uno dei tanti shahid uccisi da
un missile in un "omicidio mirato" oppure o dall'artiglieria in un
rastrellamento). È stata fortunata perché ha trovato un vecchio di 65
anni (vecchio dove la speranza di vita è di 70,5, in calo di 2 anni
rispetto al 2005) che l'ha presa con sé per farne la sua serva in
cambio della sopravvivenza. Immagina la sua casa: un corridoio in un
cantiere (blocchi di cemento a vista, cemento per terra impregnato di
pioggia e liquami, buchi nei muri come finestre senza vetri) diviso a
metà da una tramezza, da un lato un letto matrimoniale, alle pareti un
ventilatore arrugginito, fili di ferro e fili della luce arrotolati, su
una mensolina, qualche misera suppellettile, una spazzola, un
frammento spezzato di specchio.
Immagina dall'altra parte della
tramezza: una cordicella stesa lungo la parete con abiti e biancheria
appesi, un po' armadio un po' stendino per asciugare i panni, la tazza
del water accanto all'unico lavello per lavare le verdure, per
attingere l'acqua da bere e quella per lo scarico, accanto un
fornelletto a due fuochi incrostato. Immagina dappertutto sulle pareti
un color nero fumo alla luce di una lampadina appesa al soffitto che
ogni giorno per qualche ora si spegne (perché la corrente a Gaza è
erogata da Israele che ne controlla l'afflusso a singhiozzo).

Ti
piace questa casa? Ti piace questa vita? Vuoi comperarla? Benvenuta/o a
Beach Camp - Città di Gaza.
Ti piacciono le strade così deserte della
città? Non c'è benzina? Viene fatta entrare col contagocce? Ma ci sono
sempre i carretti di legno trainati dagli asini. Non sono
caratteristici? Non fanno colore locale?
Ancora campo Profughi. Adesso
immagina una casa in un vicolo buio, una casa anche questa già rudere e
insieme cantiere interrotto, le scale, le pareti di cubi di cemento a
vista, niente intonaco niente colore se non il grigio del cemento
usurato. Gradini rivestiti di ceramica? di marmo? di travertino? No
cemento nudo e crudo e già in frantumi. Niente infissi, niente vetri,
al massimo plastica o cartone.
Ti piace? Vuoi comprare anche questa?
Immagini un appartamento di cui tu tua moglie e i tuoi otto figli
occupate una stanza (e in ciascuna altra delle quattro stanze intorno
all'ingresso oscuro, c'è la famiglia dei tuoi fratelli), la cui
superficie è quasi tutta occupata dal solo letto matrimoniale? La
cucina non c'è? La cucina c'è: sta al posto del comodino da notte. I
bambini? Vi arrangiate, un po' nel letto matrimoniale, un po' per terra
attorno al letto sui tappeti.
Vuoi compralo questo appartamento? Ti
vuoi nascondere sotto le coperte e non alzarti più e non vedere più
nessuno? Sei depressa? È depresso? Hai paura del suo ritorno?
Ci
dobbiamo dare da fare. Li hai i soldi per dare la tinta? Ti piace
l'azzurro? Me la porti tu la calce? Il colore? Me li presti tu i soldi?
Come me la porti la tinta? A volo d'uccello sul muro? Sei superman? Sei
wonder-woman? Attraversi i muri?

A volo d'uccello
Sei il direttore
del Settore Relazioni Internazionali del Comune di Gaza City. Bene.Ti
è andata bene perché nello spoil system dopo la vittoria elettorale di
Hamas e il "colpo" nella Striscia (per ottenere quel potere di
governare che già gli era stato conferito dagli elettori e dalle
elettrici), sei stato risparmiato per la tua competenza? Bene.
"Relazioni internazionali" vuol dire che puoi viaggiare. Non puoi? Non
puoi uscire da Gaza? Chi te lo impedisce? Già, sei un profugo nato in
Egitto da profughi. Il tuo errore è stato d'aver scelto un tempo di
tornare nella tua terra. Non conta essere un dirigente della
Municipialità? Dalla porta di Eretz gli israeliani non ti lasciano
entrare? Dal mare? Solo 6/7 km sul mare? Poi se vai oltre ti sparano?
Perlomeno hai uno stipendio. Con gli anticipi, l'ultimo stipendio
completo è quello di marzo 2007? Vorresti bere per affogare nell'alcool
la tua frustrazione di "recluso"? Fortuna che c'è Hamas e non circola
un goccio.

Immagina i bambini.
Quelli che il giorno delle elezioni
correvano per le strade gridando, ridendo, con le dita aperte in segno
di vittoria. Entità nemica? Riconoscono subito il motore di un
elicottero Apache o degli F16, di giorno e di notte. Ma anche dei carri
armati quando entrano nell'abitato e sparano sulle case. Possono
giocare nelle strade? Tu li lasceresti i tuoi figli? Le madri chiedono
aiuto: che fare? Rinunciare a lasciarli crescere in autonomia?
Trasmettergli la loro stessa paura? Tenerli chiusi in casa? E la casa
stessa non è a rischio? Bambini i cui unici riferimenti "visibili"
nella città sono rimasti, incollati sui muri delle strade, i ritratti
dei "martiri/'shahid", fucili imbracciati, oppure macerie.

La
cooperazione
I cooperanti portano il loro sapere: ce ne sono tanti,
tanti, arrivano da tutta Europa. Anche dall'Italia. La striscia di Gaza
è un nuovo terreno di alfabetizzazione: si investono soldi per
insegnare alle maestre il metodo del "triangolo", di derivazione si
dice "montessoriana". Il triangolo significa che i bambini di ogni
classe di scuola materna vengono divisi in tre gruppi, che fanno
contemporaneamente attività diverse, uno è impegnato in giochi
educativi e creativi, uno impara a leggere e scrivere e il terzo fa
qualcos'altro. Il metodo si dice funzioni benissimo e i/le cooperanti
esperti pedagogisti ne sono molto contenti, ne vanno fieri. Non si sa
perché le maestre debbano imparare un metodo europeo sia pure molto
"avanzato" e non seguire i propri metodi. Ma intanto qualcosa si fa, o
sembra di fare. Lo sanno i cooperanti di fare una attività di
animazione dentro una scuola che si trova dentro una prigione? Parlano
tra loro di politica? Non ne parlano? Il loro silenzio è assenso? È
dissenso? Se Gaza fosse un paese libero con proprie istituzioni avrebbe
bisogno di queste buone azioni? Non è colonialismo? È cooperazione? Lo
sai che tutta la popolazione di Gaza è dipendente dagli aiuti
internazionali dell'Europa? È dipendente dai governi europei e dalla
"cooperazione"? Dai donors? Se sei un'assistente sociale lo sai qual è
l'esito della dipendenza. L'esito sulle menti. Perché in Italia ti
batti per un welfare che generi indipendenza e autonomia e altrove
collabori a riprodurre sistemi di dipendenza?
Una prigione a cielo
aperto, incursioni preventive quasi quotidiane contro i potenziali
"terroristi" dell'"entità nemica", il silenzio dell'Europa, il buon
cuore delle o.n.g. internazionali impegnate in soccorso umanitario,
nessuno Stato di mezzo, i fantasmi di qualche apparente governo (magari
due), un territorio sempre più esile e frammentato: ecco un sistema di
equilibrio che potrebbe perpetrarsi all'infinito. Se cade il silenzio
sui diritti fondamentali degli esseri umani.

Di ritorno da Gaza.
Di
ritorno dalla striscia di Gaza - otto Donne in Nero e una giornalista,
- è difficile riprendere a vivere la vita quotidiana come se niente
fosse. È piuttosto difficile persino provare a scriverne: il foglio
bianco, la biro, il pc, c'è un rifiuto collettivo delle cose. È più
facile scivolare in questo lento rifiuto e attaccare la montagna di
panni da stirare (stirarli bene, togliere tutte le pieghe, ripulire,
cancellare) e le pile di fogli e giornali che si riproducono in casa
con la forza di un processo quasi biologico.
Di ritorno da Gaza le
amiche mi accolgono con largo sorriso: "poi ci devi raccontare del tuo
viaggio in Palestina!" Poi passano subito a parlare di qualche
questione locale che le avvince, il delitto di Meredith, le melliflue
riverenze del servo Saccà al padrone, la nuova ricetta di uno sformato
alla turca e il modello di una sciarpa a tubo made in China. Quel "poi"
oggi va bene anche a me: poi, poi.
Sarà stato un viaggio bellissimo,
azzarda qualcuna. Bellissimo non è la parola più adatta, non è
questione qui di bellezza o bruttezza, è stato un viaggio all'inferno,
dico, sapendo di esagerare oppure più onestamente "molto faticoso".
Questo bisogno di fuga, questa difficoltà a parlarne. l'associazione è
con la difficoltà a "parlarne" di tutte le situazioni e i vissuti di
umiliazione, di violenza subita o di cui ci sente complici: condivido
il bisogno di silenzio, o meglio l'impossibilità di parlare da parte
delle donne maltrattate dagli uomini che amano, che non parleranno per
la fatica di lasciar riemergere in superficie questo senso insieme di
impotenza, di umiliazione , di ferita profonda, e il senso di essere
in qualche modo responsabili di quel che avviene e di non sapere che
cosa fare. Lo stesso silenzio di chi torna da quell'Africa dove
l'olocausto dell'infanzia è quotidiano.
Eppure questo silenzio è un
muro più alto di tutti i muri che recingono le nostre famiglie, che
recingono i villaggi della Palestina. E noi continuiamo a costruirlo,
mattoncino dopo mattoncino, lo costruiamo intorno a noi, a difesa,
crediamo, del nostro io, in pericolo, del nostro "benessere". Il
silenzio, lo so, è un vero terreno fertile per il riprodursi della
violenza, il silenzio può diventare la causa prima della violenza, il
segno della sua tolleranza.

Di ritorno da Gaza, in prossimità di
Natale, alle mail di auguri che ricevo rispondo con qualche riga del
tipo "Gaza è una prigione sotto assedio" .
Dopo un po' mi rendo conto
che le persone non vogliono che si parli di queste cose. Sanno che
esiste questo bubbone nel cuore del mondo, questa ferita aperta, con
una ricetta/terapia internazionale già data dagli organismi
internazionali, che però nessuno vuol fare eseguire . Come è difficile
accettare che sia il proprio intimo a massacrarci di botte, è difficile
dire denunciare che sono i governanti dei discendenti delle impotenti
vittime dell'olocausto, ad essere diventati, in nome della
"sicurezza", i costruttori di nuovi ghetti, e di un nuovo discorso
razzista verso gli abitanti della Palestina. Lo si sa ma si preferisce
ignorarlo, pensare ad altro.
Di ritorno da Gaza piccolo brindisi al mio
Dipartimento di Sociologia per le festività di fine anno e per
rafforzare il senso di "appartenenza". Qualcuno mi chiede che cosa sto
facendo. Racconto in poche parole della mia ricerca in "territori
difficili" sulla violenza contro le donne in una comparazione tra le
città di Torino, Haifa, Gaza. "Uh, molto interessante", ma appena
incomincio ad accennare a quel che ho visto durante il viaggio, il
professore, calice in una mano e salatino nell'altra, dà segni di
fretta, si guarda intorno verso altri colleghi e trova subito una via
di fuga in qualcuno cui deve comunicare qualcosa di molto, molto
importante.
Un altro amico cade nella rete, questo è stato
sensibilizzato per il fatto che suo figlio negli States si è fidanzato
con una ragazza palestinese "molto bella e molto intelligente" - per
essere palestinese bisogna essere, però, almeno belli e intelligenti.
Il professore sottolinea la "rilevanza sociologica" del tema di cui mi
sto occupando e poi, abbassando la voce, quasi bisbigliando perché
altri non possano sentire: "Io adesso qui lo dico. (sospende il qui lo
nego), forse non dovrei dirlo, ma Gaza non è una prigione, è un Lager".
Rispondo: proprio un Lager no. "Sì, sì, un Lager".
Mi sorprendono le
sue parole perché l'amico professore in pubblico non ha mai preso
parola su questo argomento, non ha partecipato a manifestazioni di
protesta contro l'occupazione israeliana e per l'applicazione del
diritto internazionale, non mi risulta che abbia firmato appelli e
dubito che questa sua opinione sarà espressa in questi termini coi suoi
studenti. Sarebbe rimasta lì. Nel segreto della nostra conversazione
privata al riparo da occhi e orecchi indiscreti.

Di ritorno da Gaza,
il mio senso di impotenza, di frustrazione, di umiliazione trova un
solo rimedio. Quasi per istinto vado allo scaffale dei libri e tiro giù
Primo Levi, La Tregua. Ho pensato a lui spesso durante il viaggio. Mi
sono chiesta più volte: ma Primo Levi che cosa avrebbe provato di
fronte a tutto questo? Cosa avrebbe pensato e provato nel vedere che
figli e nipoti delle vittime della Shoah stanno trovando come unica
soluzione alla paura "per la loro sopravvivenza" quella di costruire
enormi ghetti, separati da ciclopici muri in cui rinchiudono non solo i
pochi "kamikaze" ma tutti i loro familiari, tutti coloro che
appartengono alla loro. "razza"? Ma non l'avevamo cancellata questa
parola? Rinchiudendo insieme anche se stessi in un altro "ghetto
mentale".
Cosa avrebbe detto quell'uomo mite, sensibile, di
un'intelligenza acuta e profonda, colma di pietas? Nella sua casa
teneva appesi in salotto accanto alla finestra degli uccelli da lui
costruiti con una sottile struttura di fili di rame, qua e là
all'incrocio tra tre o quattro fili era tesa una pellicola di un
materiale plastico colorato leggero e sottile come ala di farfalla.
C'era in quelle strutture una ambiguità che commuoveva. Strutture
elementari, scheletri e nello stesso tempo prigioni eteree, gabbie,
dove il tocco del velo di pellicola colorato costruito dall'uomo, dal
chimico, era il tocco di grazia, di libertà che solo l'uomo può
infondere ad uno scheletro-gabbia tanto da farlo volare. Solo oggi le
so leggere. Questo maestro di vita che era riuscito a non tacere e a
trasformare il dolore, l'orrore vissuto in opera d'arte oltre che in
memoria, potrebbe oggi ancora insegnare altre vie: quelle del
riconoscimento e della ragione dell'altro, quelle della creatività ma
anche quelle del giusto sdegno.
Rimpiango la sua scomparsa perché oggi
sarebbe così necessaria la sua voce viva, sottile, ma ferma e
veritiera. Alla libreria dell'aeroporto Ben Gurion vedo "Se questo è un
uomo" in ebraico. Le sue parole sono citate al museo della memoria Yad
Vashem di Gerusalemme. Lette anche da chi pensa che la soluzione alla
sopravvivenza sia quella di costruire un muro di recinzione che riduce
il territorio dell'altro a una serie di "riserve" per un popolo in
estinzione forzata?
Leggo La Tregua. Il suo ritorno. È un sentimento di
pietà e di comprensione verso tutti in cui cerco di trovare un aiuto.

Di ritorno da Gaza, mi trovo in un'altra festicciola prenatalizia con
M. e altre amiche. Sono andata alla cena con un vago senso di disagio:
come potrò raccontare del viaggio a chi non vuol sapere? Racconto
qualcosa prima dell'arrivo di M. Ho portato da Gerusalemme un paio di
orecchini per tutte. M. ne ha scelto uno con pietre blu che le
piacciono molto, dondola la testa. Un'altra amica le ha portato
dall'India una collana con un ciondolo, un astuccio per contenere
parole apotropaiche: forse del Corano? Dice M.: Il ciondolo porta-
corano, gli orecchini palestinesi. Ma forse vi siete dimenticate che
sono ebrea? E, dopo una breve pausa, aggiunge: A me sarebbero anche
simpatici, se non fosse che mi ammazzano. Silenzio.
Nessuna osa
commentare. Nessuna osa toccare il punto nevralgico. È Natale e anch'io
rimando a un altro momento la discussione. Ma questo nostro silenzio
pesa: per qualche giorno successivo non posso fare a meno di chiedermi
il senso delle sue parole. "Mi ammazzano": l'identificazione totale di
tutti i palestinesi (o forse arabi? Sono gli innominati, sono
"quelli"), come assassini potenziali. La totale identificazione di sé e
degli ebrei come vittime o potenziali vittime. Nulla di ciò che M. dice
ha a che fare con la realtà: ne è uno stravolgimento. Nessun
palestinese l'ammazza e il suo rischio di essere ammazzata qui da un
palestinese (o arabo?) ha una probabilità prossima allo zero assoluto.
Quindi una espressione paradossale che però rovescia totalmente la
realtà. La realtà è che quasi ogni giorno giovani militari israeliani
entrano coi carri armati nella "prigione" attraverso le grandi porte
nella muraglia, abbattono case, ammazzano qualche giovane in quanto
appartenente alla "entità nemica". M. non lo sa? O lo sa? E le mie
amiche lo sanno o non lo sanno? Fingono di non sapere? Ma non è un déjà
vu?
Quando ho sentito per la prima volta tre anni fa - era prima del
disengagement - da parte di studenti palestinesi dell'Università di
Birzeit in giro per l'Europa e l'America, definire Gaza come una
"Prigione a cielo aperto", l'espressione mi era sembrata una metafora
un po' forte. Non mi piaceva usarla.
Poi nel gennaio 2006 vidi una
Gaza in festa, era il giorno delle elezioni. Tutte le città, i paesi, i
quartieri della piccola striscia erano pavesate di bandiere rosse (del
Fronte popolare), verdi (di Hamas) e gialle (Fatah) che sventolavano
sui tetti delle case, sui pali della luce, sulle antenne della
televisione sulle macchine, sui monumenti, sulle facciate dei palazzi,
dovunque c'era un appiglio. Gaza City era tappezzata di manifesti
colorati dei rispettivi leader in competizione e naturalmente degli
eroi, Arafat e Yassin, bambini e ragazze, avvolti in fasce e bandiere
distribuivano santini elettorali dei diversi partiti, correvano per le
vie , ridevano, alzavano le dita a V, c'era un fermento mai visto
altrove per le elezioni: le prime elezioni: una gran festa, le famiglie
e gli anziani prendevano e offrivano il tè sul ciglio della strada di
fronte a casa e di fronte ai seggi elettorali, scorrevano macchine con
altoparlanti e musica a tutto volume. Era il giorno della speranza.
L'ultimo. Giovani propagandiste di Hamas e del fronte popolare o di
Fatah, con cappellini all'americana gialli verdi e rossi calati in
testa sopra l'hijab, stavano fianco a fianco nelle strade davanti ai
seggi o aspettavano per ore in lunghe file per andare a votare, con un
attivismo inaspettato (da noi europee): le donne avevano partecipato in
massa alle elezioni: finalmente avevano potuto esprimersi liberamente.
Per le donne di una società senza stato dove prevale il potere
patriarcale delle famiglie questo era un momento importante di
partecipazione e di emancipazione.
Peccato che gli "esportatori della
democrazia" oltre al metodo vogliono esportare anche i risultati
dell'espressione del voto. Potete votare. Bene. Ma avete sbagliato,
potete votare sì, ma avete scelto il partito sbagliato, avete scelto i
"terroristi", e ora punizione collettiva. Ora tutti dentro.
Uomini e
soprattutto donne di Palestina il 25 gennaio del 2006 che hanno dato il
loro voto, espressione della loro speranza, dei loro sogni (della
voglia di cambiare una politica intrisa di corruzione). E subito dopo
sono stati rinchiusi in una prigione, non solo, con restrizioni che non
sono concepibili in nessuna prigione.
Perché una prigione a cielo
aperto?
Gaza è una piccola striscia di terra di circa 50 km per 7, un
pezzetto di terra minuscolo con una densità della popolazione
altissima, 3.227 per km2. È circondata dal lato della terra da
ciclopici muri o da filo spinato per tutta la sua estensione. Dal lato
del mare i suoi pescatori possono arrivare a 6/7 km dalla riva, oltre
quella distanza la guardia israeliana li respingerebbe a mitragliate.
Nessuno può uscire dalla striscia se non con permessi molto speciali. I
malati per farsi curare, in teoria. Ma le decisioni sono così
arbitrarie che negli ultimi due mesi sono morte 30 persone o perché non
hanno avuto il permesso, o perché non l'hanno avuto in tempo. È normale
che i malati aspettino per molte ore, sotto il sole, senza un riparo
perché qualcuno ha deciso che quel giorno la "frontiera" è chiusa.
Nessuno studente che voglia continuare o avviare gli studi all'estero
può farlo.
La frontiera non è una frontiera perché l'ingresso e
l'uscita dipendono esclusivamente dall'esercito/polizia/"autorità"
israeliana. I confini della striscia sono stati imposti, costruiti e
ora sorvegliati da un'unica autorità, il governo israeliano.
Nessun
cittadino israeliano ha il permesso di visitare Gaza, non perché glielo
impediscano i palestinesi. È il governo israeliano che te lo impedisce
"per proteggerti", anche contro la tua volontà. Nessuno dei medici
ebrei israeliani di "Physicians for Human Rights" che desideravano
visitare Gaza, ha avuto il permesso di entrare. Nessun israeliano potrà
avere dunque l'opportunità, qualora lo volesse, di vedere, di vivere
l'esperienza dell'altro, di vedere la situazione in cui si vive ogni
giorno a Gaza assediata.
Certo lo Stato glielo impedisce. Ma a tutte/i
oggi internet, quotidiani come Haaretz, a volte anche documentari
trasmessi dalla TV israelita in ore notturne, permettono di conoscere i
resoconti dei pochi che riescono a entrare e vedere e anche delle
associazioni che stanno dentro (come il Gaza Community Mental Health
Programme).

"Sapevano "loro" [.] della strage silenziosa e quotidiana,
a un passo dalle loro porte? Se sì. Come potevano andare per via,
tornare a casa e guardare i loro figli, varcare le soglie di una
chiesa?" [o di una sinagoga o di una moschea, aggiungo] (da P. Levi,
"La Tregua").

Prigione di massima sicurezza: entrando dalla
"frontiera" di Eretz dopo due anni dalle elezioni, il luogo è
irriconoscibile. Una enorme costruzione moderna, come la stazione di un
aeroporto è la nuova porta nella frontiera. Architettonicamente
grandiosa, tutta vetrate. Ti immagini che ci sia una sala d'aspetto? La
costruzione è dentro a un recinto e la gente che aspetta fuori dalla
recinzione il momento dell'apertura (che in teoria ha un orario, ma in
pratica è soggetta all'arbitrio quotidiano più assoluto), deve
aspettare sotto il sole o al vento, una misera tettoia copre a malapena
quattro panchine di cemento. Qui sotto il sole a volte aspettano anche
i convalescenti di ritorno: una signora anziana con la testa fasciata
da bende che spuntano sotto l'hijab, in sedia a rotelle, ha aspettato
come noi per quattro ore l'apertura del cancello.
Nessuna informazione
sull'apertura, nessun cartello neanche in ebraico. Un uomo
apparentemente un inserviente (dalla scopa in mano) ci mette in
contatto tramite il suo cellulare con l'interno. Qui si comunica quasi
esclusivamente attraverso il distacco delle macchine (il contatto tra
esseri umani è quasi totalmente evitato).

Ma è all'uscita da Gaza che
si sperimenta l'alta tecnologia della frontiera.
Dopo aver attraversato
a piedi la landa desolata terra di nessuno a fianco degli scheletri di
case divelte, dopo aver percorso una passerella a zig-zag coperta da
una tettoia, si arriva al muro intonacato d'azzurro e a una piccola
porta: l'ingresso. Da qui in avanti è tutto un sistema meccanico ed
elettronico che si prende carico di te e delle tue cose, ti passa per
un "check-up" (da cui, quando uscirai, ti sentirai o dovresti sentirti
come "purificato"). Mentre i bagagli vanno per la loro strada per
essere vagliati, radiografati, scannerizzati ("E aperti"! tuona
l'inserviente dalla giacca arancione - antiproiettile), tu aspetti
davanti a una porta a vetri finché da una specie di citofono una voce
ti dice, se lo capisci, di entrare. In questa seconda camera a vetri
(di de-contaminazione dal tuo potenziale terrorismo) aspetti il tuo
turno per entrare dentro al "tubo". Un cilindro di vetro (certo
antiproiettile): si apre una sezione del tubo, entri, prima hai letto o
ti è stato detto da chi ti ha preceduto cosa devi fare: gambe
divaricate, piedi esattamente sopra alle tracce disegnate sul
pavimento, braccia sù tese e ben aperte, mani e dita distese. Ti sembra
di essere finita in un video-game di fantascienza. Ma non è così: è la
sperimentazione dei migliori sistemi di sicurezza del mondo. Poi la
porticina si chiude alle tue spalle e in un ronzio elettronico ti gira
tutto intorno una barra alta quanto il tubo (metaldetector o
radiografatore?). Ti trovi lì in una posizione non proprio comoda, come
l'uomo vitruviano di Leonardo, mentre qualcuno non si sa dove e come ti
sta misurando. Fuori però c'è un cartello che dice che non ci sono
pericoli per la tua salute. Si apre di fronte a te un altro pezzo del
tubo e finalmente esci. O meglio credevi. Perché una voce metallica
ordina qualcosa attraverso il citofono. Non capisci, ma intuisci che
qualcosa è andato storto, dietro di te la porta curva del tubo si è
riaperta e pensi che devi rientrare nel tubo, forse non hai tenuto le
mani sollevate abbastanza a lungo. Rientri, tieni le braccia alzate al
massimo con un senso di umiliazione (che si sente persino dal medico e
dovunque si ricevono ordini senza spiegazioni del senso delle cose che
ti vengono ordinate) ma una voce urla ancora qualcosa dal citofono (le
tue 5 parole di ebraico non servono a niente), la porticina resta
aperta, segno che devi uscire? Bene. Si è accesa una lucina verde e la
voce metallica incomprensibile al citofono fa pensare che tu debba
entrare nel prossimo stadio. Qui sei chiusa in una stretta porzione di
spazio tra vetro e vetro, davanti a una porta chiusa (tu non vedi ma
sei molto visibile a qualcuno che non sai dov'è, di cui senti solo la
voce metallica nel citofono). Aspetti. Infine dalla voce al citofono
(ora parla inglese) capisci che devi tirar fuori qualcosa che hai nelle
tasche, che devi tirarlo fuori e mostralo. Metti le mano in tasca:
"Monete!" gridi verso il citofono e all'esterno verso il vuoto. La voce
metallica dice di mostrarle con le mani in alto e allora mentre sollevi
le braccia, allora ti accorgi che alla voce metallica corrispondono
delle persone, dei giovani vestiti chi in divisa chi no, si trovano in
alto molto in alto sopra la tua testa, a un centinaio di metri dietro a
una parete di vetro. Un ragazzo parla in un microfono e accanto ci sono
altre/i tutti giovani. Monete! Agito le monetine in alto per mostrarle
agli addetti della security nella torre lontana. Ce l'ho fatta. Ci
saranno ancora altre barriere, domande sul passaporto, se sei stata in
Libano, se hai goduto del viaggio a Gaza!!!

Ma il più è fatto, molto
rapidamente: quattro ore in tutto. Le otto Donne in Nero (grazie a un
permesso ottenuto dall'OMS e a un progetto di ricerca di carattere
umanitario - la violenza contro le donne - condotta sotto la sua egida)
ce l'hanno fatta. Sono fuori. Mi è capitato più volte nella mia vita di
andare nelle prigioni di Torino per fare colloqui con detenuti
studenti o per commissioni di esame e di laurea. Si, posavo la borsa in
un cassetto, mi passavano attorno a volte, non sempre, un metaldetector
e poi finiva lì. I sistemi di sicurezza inventati dagli israeliani
certamente fanno scuola: sono fantascientifici e a volte viene da
chiedere se non siano soprattutto un'arma psicologica, deterrente.
Perché questo è il risultato che ottengono sulle persone: paura.


dove si è isolato un territorio con la sua popolazione come dentro a
una prigione è normale che anche la vita quotidiana "al di fuori" sia
impregnata di militarismo. In nome della sicurezza Israele è diventata
una società militarizzata. Non è necessario pensare alla bomba atomica
o alla ricerca sulle armi più sofisticate. Lo si vede nelle strade
delle città, persino ad Haifa, la città che è sempre stata considerata
la più palestinese delle città di Israele: soldati e soldatesse
riempiono la città, tornano a casa nei giorni di festa sempre con a
tracolla gli enormi M16 che arrivano quasi a toccar terra, portati ora
con noncuranza come fossero chitarre, ora con protervia. Ragazzi
ventenni armati riempiono la vista della vita quotidiana, quella in cui
crescono i bambini, le nuove generazioni di israeliani. Non c'è da
stupirsi se i giovani mostrano un individualismo nei comportamenti e
una indifferenza gli uni verso gli altri, che noto oggi per la prima
volta. Sui treni sbattono i loro zaini in mezzo al passaggio incuranti
che gli altri debbano passare. Vivere fianco a fianco con una parte
della popolazione chiusa in una prigione, per di più assediata per
punizione collettiva, vivere nella paura costante della reazione
violenta a questo ingiusto assedio, vivere nella paura legittima nei
confronti di chi è stato sempre più costretto in ristrette riserve di
terra circondate da poderosi recinti invalicabili. crea una società di
"indifferenti". Ed è con questo Governo che noi italiani abbiamo un
trattato di collaborazione militare: andiamo a insegnare? (come il
metodo montessoriano del triangolo) o andiamo ad imparare? Perché si
parla tanto di sicurezza anche da noi? Sono gli immigrati i nostri
"palestinesi", potenziali assassini? Costruiremo anche noi i nostri
muri? Non lo stiamo già facendo?
Ci piacciono queste frontiere? Queste
prigioni? Questo dolore? Vuoi uno stato? Starai meglio con un tuo
Stato? Tutto tuo? Della terra, della casa, non preoccuparti. Quale
Stato? Un nuovo modello per i politologi? "il primo caso nella storia
di due governi per nessuno Stato, su nessun territorio" (M.A.).
Uno?
due stati? Tre? quattro? non ti importa più niente? Desideri solo
uscire dall'inferno? Desideri solo più sopravvivere?

"Noi che viviamo
nelle nostre tiepide case" (P. Levi) potremo dire un giorno che "non
sapevamo" ?
Lo sapevi? Non lo sapevi? Ora lo sai?

Di ritorno da
Auschwitz, in vista di Vienna "sfatta" e dei tedeschi piegati, Primo
Levi prova non "compassione" ma "una pena più ampia, che si confondeva
con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di
un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una
cancrena nei viscere dell'Europa e del mondo, seme di danno futuro"
("La Tregua").
E oggi è di fronte al danno futuro di quel seme
diventato presente proviamo una pena molto simile.

Che cosa direbbe
oggi Primo Levi? Ricordo che nell'agosto-settembre del 1982 quando
Israele invade il Libano, di fronte ai massacri dei campi palestinesi
di Sabra e Chatila, prende posizione e in una intervista di Giampaolo
Pansa su "La Repubblica" del 24 settembre si rivolge agli ebrei della
diaspora: "Dobbiamo soffocare gli impulsi di solidarietà emotiva con
Israele per ragionare a mente fredda sugli errori dell'attuale classe
dirigente israeliana".

E nel novembre del 1976: "In tutte le parti del
mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali
dell'Uomo, e l'uguaglianza tra gli uomini, si va verso il sistema
concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile
fermarsi". (Appendice a Se questo è un uomo nella ristampa Einaudi del
1989)
Franca Balsamo

Grazie alle amiche e agli amici sensibili ch mi
hanno spinta e aiutata a scrivere: Diana, Alfredo, Michele; alle
compagne di viaggio, in particolare: Corinna, Milena, Simona,
Eisabetta, Giulia; grazie alle/ai testimoni della vita a Gaza, in
particolare: Majeda, Safwat, Manal, Chiara, Fabio, Osama.

31 dicembre
2007




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