Szerző: FAI Torino Dátum: Címzett: cerchio Tárgy: [Cerchio] Torino: cronaca del corteo del 19 gennaio
Torino: cronaca del corteo del 19 gennaio
Rompere il silenzio!
Sabato pomeriggio, una bella giornata di metà inverno, di quelle che le montagne le tocchi con lo sguardo ovunque ti giri.
Piazza Castello, davanti al teatro Regio piano piano si riempie. All'appello "Rompere il silenzio!" hanno risposto in tanti: torinesi e anche un buon numero di compagni venuti da ogni dove. Un corteo che è cresciuto lungo la strada, ingrossandosi gradualmente prima di arrivare nel cuore di Barriera di Milano.
Ma facciamo un passo indietro.
Una difficile scommessa
Una scommessa nata poco a poco quella del corteo di Torino del 19 gennaio. Una scommessa scaturita da un lungo confronto su quanto stava avvenendo in città: dal processo e condanna degli antifascisti del 18 giugno 2005 all'incendio doloso del campo rom di via Vistrorio, dall'opposizione alle mille nocività che ci affliggono alla questione del lavoro che uccide. Un corteo per raccontare le tante storie di chi non ha voce, le tante storie dimenticate o distorte da un'informazione che non è che rauco raglio di consenso per i potenti della città.
Non era facile costruire un percorso politico sull'aria che tira, un'aria di merda, un'aria che sa di chiusure identitarie, di voglia di forca sempre più forte nelle periferie strangolate dall'indifferenza e dalla paura. Sul ciglio della strada maestra della politica, quella che gioca l'eterno gioco del potere, delle alleanze che variano e mutano, delle leggi elettorali fatte per questo e non per quello, nelle brevi note a margine della cronaca, emerge una spaventosa quotidianità, fatta di attacchi e aggressioni fasciste, di ordinanze e leggi contro gli immigrati, di ronde padane, di cortei per la "sicurezza", di sudiciume culturale elevato al rango di opinione.
Chi ci governa, chiunque sia, alimenta la guerra tra poveri, facendo del razzismo una dottrina di Stato.
È capitato che in una sola notte, nella nuova Torino tutta luci d'artista e grandi opere, sette operai siano morti tutti insieme, in un'unica fiammata dentro una fabbrica dove si lavora e si crepa come nell'800. Dolore, rabbia, le lacrime calde di chi vede la propria vita specchiata in quella dei sette operai caduti nella guerra del lavoro, una guerra che miete più vittime di quelle guerreggiate, ma resta nascosta tra i non detti del nostro vivere sociale. Se si desse il suo nome a questa guerra, nessuno potrebbe continuare a chiamare "incidenti" gli omicidi dei lavoratori, se si desse il suo nome a questa guerra si saprebbe che non ci sono norme o tutele che tengano di fronte alla frenesia di chi vuol produrre e guadagnare, di chi considera l'operaio una macchina facilmente sostituibile, di ben poco valore.
E poi ci sono le lacrime ipocrite di chi, dai banchi del parlamento, dalle poltrone del governo, dalle stanze delle burocrazie sindacali per anni ha lavorato perché i padroni potessero riprendere il controllo dei posti lavoro, quei posti dove, per una breve stagione, le cose erano andate un po' meglio per chi per vivere è costretto a vendere la vita. A volte anche a perderla.
Non era facile raccontare le tante vicende sommerse di questa città e, insieme, trovare il filo conduttore di una storia che non si può spezzare senza rompere l'ordine sociale e politico che la rende possibile, senza riprendere ad intrecciare i rapporti solidali tra chi ha poco e chi ancor meno.
Non era facile perché si trattava di attraversare uno spazio simbolico e reale devastato dal successo dalla città-luna park voluta dalla giunta Chiamparino, di investire sulla possibilità che vi fosse una città capace di rispondere ad un appello che escludeva una sinistra di governo, quella che si fregia dell'altisonante appellativo di "sinistra radicale", ma ogni giorno avvalla a naso turato le peggiori porcherie: dalla guerra ai cpt, dal pacchetto sicurezza alle grandi opere, per arrivare sino all'invio dell'esercito per fronteggiare la rivolta dei cittadini napoletani.
Il corteo di sabato 19 ha dimostrato che oltre il lunapark, al di là della politica di palazzo, delle lacrime di coccodrillo dei sindacalisti di stato, fuori dalla Torino delle grandi opere, c'è una città capace di rispondere all'appello a rompere il silenzio, disposta a scendere in piazza senza tutele e senza padri e padrini istituzionali. Una città che non si è lasciata intimorire dalla canea mediatica scatenata dai quotidiani torinesi.
La guerra dei media
L'ennesimo episodio di prevaricazione poliziesca è stato utilizzato da La Stampa, da Repubblica e Torinocronaca per creare un clima pesante intorno al corteo. Sono le sei del pomeriggio di martedì 15 in una Torino uggiosa e bagnata. Le strade a Vanchiglietta, quartiere popolare a ridosso del centro, sono piene di gente. Un poliziotto, dicono a caccia di rapinatori, chiede i documenti ad un ragazzo che rifiuta e fugge inseguito dal tutore del disordine statale. Pistola alla mano, la canna puntata ad altezza uomo, il poliziotto corre tra la gente. Alcuni cittadini, tra cui tre anarchici, assistono alla scena e si intromettono chiedendo il perché di quella pistola spianata a rischio dell'incolumità di tutti. Con gli uomini in divisa non si discute: arrivano le volanti che fermano i tre compagni portandoli in questura. Più tardi due verranno rilasciati, mentre alla ragazza è confermato l'arresto.
Nel giro di un paio d'ore un gruppo di persone si riversa in strada, bloccando corso Regina e chiedendo a gran voce il rilascio dei compagni fermati.
Un tentativo di partire in corteo viene impedito dalla polizia che carica, disperdendo i manifestanti, due dei quali verranno fermati e successivamente arrestati con l'accusa di resistenza aggravata. La sera si conclude con un presidio davanti alla questura, in una nottata bagnata e silente.
I compagni usciranno nei due giorni successivi: le udienze di fronte al gip non confermano gli arresti.
Subito parte la campagna di criminalizzazione. I media si scatenano: vecchie foto di scontri vengono piazzate a centro pagina, si parla di guerriglia urbana, violenze, addirittura di "assedio alla questura". Un orgia di balle ben calibrate che si concludono puntualmente con l'allarme per il corteo del 19. L'apoteosi si raggiunge il giorno precedente, quando i tre quotidiani torinesi annunciano scontri e distruzioni, mentre leghisti e fascisti si buttano sull'osso, fanno interrogazioni parlamentari, scrivono ad Amato per chiedere che vieti la manifestazione, organizzano un presidio in centro, cui risponde puntuale un contropresidio dei compagni.
Il giorno dopo il corteo i media concludono il loro sporco lavoro: fanno folclore, si soffermano su abiti e acconciature, sostengono che il corteo è stato disertato, che la città non ha risposto, che gli anarchici sono isolati: un mare di menzogne. Niente o quasi sui contenuti, niente o quasi sulle ragioni della manifestazione, che non ci sono o sono solo pretesti per scatenare violenze. La solita paccottiglia sulle scritte sui muri, sugli squatter eternamente giovani, sui faisti sempre vecchi, sugli insurrezionalisti venuti da lontano coronano gli articoli dei maggiori quotidiani.
Cronaca - dall'interno - di una bella giornata
Quella di sabato 19 è stata una giornata importante, un corteo con tante anime che ha saputo creare comunicazione, rompendo il silenzio e spezzando l'accerchiamento dei media.
Ci si raduna di fronte al Teatro Regio sin dall'una, dopo aver partecipato al presidio di fronte alla RAI in solidarietà alla popolazioni campane in lotta contro discariche ed inceneritori. La piazza si riempie: arrivano i compagni da fuori e soprattutto tanti torinesi. Subito partono gli interventi, che segneranno tutto il corteo, con soste continue. Alessio Lega e il suo compare Rocco abbracciano chitarra e basso e cantano le loro canzoni di rivolta e lotta. Intorno alle tre e mezza il corteo parte. In mezzo alla piazza brucia una tavola di legno con il simbolo di Confindustria. Lo schieramento di polizia è imponente e tende a dilagare intorno al corteo che sosta lungamente finché gli uomini in divisa non si allontanano. Il corteo si muove lentamente: in apertura lo striscione "rompere il silenzio!" poi i vari spezzoni, quello della Federazione Anarchica, poi quelli di Torino Squatter, poi i compagni che si raccolgono intorno allo slogan "senza tregua per il conflitto sociale". Tra i partecipanti ricordiamo l'Assemblea antifascista permanente di Bologna, la CUB, i No Tav, qualche esponente del PCL, il gruppo di Chambery della Federation Anarchiste, Libera, il Circolo Berneri di Bologna, l'Associazione per la decrescita, Saldatura, rete contro le nocività, Ojak, l'USI Liguria, il circolo Zabriskie Point di Novara e tanti tanti compagni e compagne da ogni dove. La partecipazione anarchica è di gran lunga la più significativa.
Durante il corteo si fanno numerose soste; in via Po per ricordare le cariche del 18 giugno 2005 e le condanne degli antifascisti, e poi davanti al Fenix sgomberato che viene bersagliato con la vernice, poi ancora in corso Giulio Cesare dove i tanti immigrati presenti sono invitati a unirsi al corteo, che si ingrossa sempre più grazie alla loro partecipazione. Le numerose telecamere lungo il percorso vengono oscurate. All'angolo con corso Novara, di fronte alla lapide che ricorda il partigiano anarchico Ilio Baroni, un compagno riannoda i fili della lunga resistenza torinese, una resistenza che continua.
In piazza Crispi - per un giorno diventata piazza Francisco Ferrer - si susseguono gli interventi a microfono aperto. Ricordiamo, tra i tanti, quello di un giovane marocchino che parla della vita degli immigrati, con un intervento preciso e determinato.
La folta partecipazione, oltre le duemila persone, la capacità comunicativa sono stati i segni distintivi di una giornata che ha portato in piazza la Torino che resiste, la Torino che non si piega e di fronte alla barbarie che avanza, la Torino che sa che occorre rompere il silenzio, resistere alla ferocia. E serve farlo subito, in tanti, senza deleghe ad alcuno, perché stiamo scivolando in un baratro. Hanno cominciato dagli ultimi, dai poveri, dagli immigrati, dai lavoratori, dagli oppositori politici, ma se non li fermiamo andranno avanti.