Autore: Rosario Gallipoli Data: To: forumlecce Oggetto: [Lecce-sf] Fw: Il diavolo e sua nonna
Il diavolo e sua nonna
Questo Notiziario contiene:
1. FLIP-FLOP
Barack Obama candidato al trono di imperatore
2. L'ECCEZIONE E LA REGOLA
Perché siamo contrari alla secessione del Kosovo
3. IL DIAVOLO E SUA NONNA
La Resistenza irachena tra Surge e Sahwa
4. LA LIBERTA' NON SI COMPRA
Incontrando i «terroristi» di HAMAS
5. NESSUN IMBARAZZO
Casarini, Caruso e l'accusa di rossobrunismo
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1. FLIP-FLOP
Barack Obama candidato al trono di imperatore
La personalità, contrariamente a quanto pensano deterministi e fatalisti di varie parrocchie, ha un ruolo, eccome! nella storia. Ma questo non significa che ognuno possa fare come gli pare, che un leader possa prescindere dalle circostanze sociali, che possa sfuggire ai condizionamenti della struttura sociale, che possa cioè infischiarsene degli interessi delle forze sociali dominanti.
Non avremmo voluto discutere dell'astro nascente del Partito Democratico Barack Obama -i media italiani, in perfetta consonanaza con un paese che si considera provincia dell'Impero ci stanno in questi giorni assillando. Lo facciamo perché serpeggia anche in ambienti «antagonisti» l'illusione che questo astro, ove a novembre fosse eletto For President, darebbe una svolta radicale alla politica estera e interna americana.
Noi non ci crediamo. Come negli USA non ci credono i più arguti analisti politici. Essi chiamano Obama Flip-Flop, che più o meno suona come voltagabbana. Egli si dice contro la guerra in Iraq ma votò mesi addietro per lo stanziamento di nuovi fondi come chiesto da Bush; blatera contro il pacchetto di misure liberticide e sicuritarie noto come Patriot Act ma in Senato votò a favore; si proclama ambientalista ma votò si alla legge sull'energia voluta da Cheney; perora lil diritto per tutti i cittadini di essere curati ma votò per la controriforma sanitaria-censitaria di Bush.
Una volta salito eventualmente al trono è facile immaginare che egli si farà garante e tutore della supremazia imperiale americana. Del resto chi dimentica che il famoso progressista Kennedy fu il presidente dell'attacco a Cuba e della guerra in Vietnam?
La tendenza imperiale americana, esplosa come un bubbone maligno dopo il crollo dell'URSS, viene da molto lontano, è connaturata alla struttura economica, politica e militare degli Stati Uniti. Non sarà un Obama a fermarla ma solo una decisiva sconfitta in quel campo di battaglia che è il Medio Oriente. Chiunque sia scelto come imperatore vorrà evitare un rovescio di portata strategica, poiché sa bene che l'american way of life non si difende a Los Angeles o New York, ma a Baghdad, a Gaza o a Kabul.
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2. L'ECCEZIONE E LA REGOLA
Perché siamo contrari alla secessione del Kosovo
Che vittoria dell'ex narco-terrorista dell'Uck Hashim Thaci in occasione delle elezioni del 17 novembre in Kosovo sarebbe stata foriera di disgrazie si sapeva. Non appena composto il governo, questo ha infatti annuciato che quanto prima dichierà l'indipendenza. Washington e Bruxelles hanno subito fatto capir che erano della stessa opinione, mentre ilsegretario-ponzio-pilato delle Nazioni unite ha fatto eco dicendo che, in effetti, l'attuale status quo e' ormai insostenibile.
Per ironia della storia la Slovenia, appena entrata, si trova a presiedere l'Unione Europea mentre questa dovrà decidere le sorti del Kosovo e, con esso, degli assetti dei Balcani. E' un segreto di pulcinella che l'UE procede a marce forzate per concedere al Kosovo l'indipendenza, portando così a compimento lo squartamento della Jugoslavia, inziato agli inizi degli anni '90 e segnato, prima dall'ingresso della NATO in Bosnia (1995), poi da quello in Kosovo (1999).
Come mai l'Unione ha così tanto a cuore l'autodeterminazione kosovara mentre non vuole sentir parlare di quella basca, irlandese o curda?
Presto detto! Perché non si tratterebbe per niente di autodeterminazione, quanto piuttosto della ufficializzazione giuridica di ciò che c'è già, ovvero del protettorato NATO nel Kosovo medesimo.
Come Campo Antimperialista noi difendiamo in linea di principio il diritto di ogni popolo all'autodeterminazione nazionale. Altrettanto fermi siamo sempre stati tuttavia nel respingere questo diritto quando l'autodeterminazione di un popolo era un pretesto dell'imperialismo per annientare nazioni e forze che esso considera ostili. La secessione del Kosovo è necessaria non solo per dominare i Balcani e quindi contrastare l'influenza russa, ma pure pere tenere sotto tiro popoli riottosi come quello serbo. Il Kosovo è già adesso una gigantesca base militare NATO-USA: una formale indipendenza rappresenterebbe la formalizzazione giuridica di questa presenza imperalistica. La trasformerebbe, venendo meno agli Accordi di Kumanovo e alle decisioni ONU, in un' occupazione permanente. In altre parole la secessione del kosovo è funzionale alla guerra infinita e ai disegni blocco euroatlantico.
Il particolare va subordinato al generale, la particella al tutto. Se le sorti di interi popoli se non quelle dell'umanità dipendono dalla sconfitta del Moloch imperialista, allora occorre opporsi a questo Moloch aiutando chi si batte contro di esso e non invece quei movimenti nazionali all'imperialismo asserviti.
Trasformare il Kosovo in un protettorato militare NATO permanente viene recepito in Serbia per quello che è, una punizione retroattiva per la Resistenza che questo paese oppose negli anni '90 alla balcanizzazione voluta da USA e UE. Gli occidentali sperano che i loro pupilli vinceranno le elezioni serbe del 20 gennaio e 3 febbraio. In questo caso, essi ritengono, non sarà difficile comprare il loro assenso. Non è detto, tuttavia, che vincano i «liberaldemocratici». Potrebbe spuntarla, come noi ci auguriamo, la coalizione patriottica, che dell'indipendenza del Kosovo in cambio dell'ingresso nella UE non vuole sentir parlare. Come reagiranno gli imperialisti? E fino come reagirà la Russia? Si limiterà a rimbrottare come ai tempi di Eltzin?
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3. IL DIAVOLO E SUA NONNA
La Resistenza irachena tra Surge e Sahwa
Annunciata il 10 gennaio di un anno fa da Bush in persona, la cosiddetta «Surge» veniva messa in pratica già il mese successivo. Questo cambio di strategia venne giustificato con lo scopo di riportare la sicurezza a Baghdad e nella indomita provincia di al-Anbar. Alcuni pensarono, visto il contestuale aumento delle truppe USA di circa 20mila unità, che si trattasse di un inasprimento puro e semplice del contrasto della guerriglia «sunnita». Come noi segnalammo per tempo non era così: eravamo difronte ad un approccio radicalmente diverso nelle modalità dell'occupazione. Quale?
Fino ad allora gli americani avevano tentato di schiacciare il frammentato schieramento guerrigliero «sunnita», combattendolo frontalmente, senza fare alcuna distinzione tra i vari raggruppamenti -il tutto nel quadro di una politica complessiva che considerava la maggioranza shiita come un solido alleato strategico. Alla fine del 2006 il fallimento di questa strategia era sotto gli occhi di tutti. Non soltanto la guerriglia «sunnita», infliggendo pesanti perdite agli occupanti e ai loro lacchè iracheni, aveva guadagnato terreno. Gli americani e gli inglesi registravano perdite anche a causa degli attacchi portati dalle milizie shiite a vario titolo collegate al Mahdi di Moqtada al-Sadr.
Un fenomeno di portata colossale venne ad aggiungersi a questi rovesci lo scontro fratricida su linee comunitario-religiose.
Una data fa da spartiacque: il 22 febbraio 2006, quando un devastante e tenebroso attacco dinamitardo colpì la moschea di Samarra, sacra agli shiiti. Dopo il 22 febbraio nulla, in Iraq, sarà più come prima. Lo scontro incipiente tra le due comunità politico-religiose degenererà in vera e propria guerra civile. Alla fine del 2006 il paese è quindi precipitato in un sanguinoso caos: gli occupanti sembrano un pugile suonato. A Baghdad come in altre provincie «miste» prende piede un fenomeno senza precedenti: l'esodo di massa, lo sfollamento, la creazione di zone a composizione religiosa omogena. Fenomeno che la stampa occidentale ha erroneamente liquidato come «pulizia etnica».
Con la «Surge» le cose cambiano. Gli americani, che scemi non sono, dopo aver sobillato la guerra fratricida, si pongono ora come arbitri tra le due comunità, come campioni del ritorno alla convivenza perduta. Non fanno più di tutt'erba un fascio, puntano il dito contro le milizie armate che, in entrambi le comunità, guidano gli attacchi e le rappresaglie religiose. Separano il grano dal loglio: i nemici non sono più i «terroristi sunniti»; essi vengono ora identificati, da una parte nei jihadisti-takfiriti (comunemente e a torto considerati qaedisti), dall'altra nelle milizie del Mahdi di Moqtada al-Sadr (considerati dagli occupanti agenti dell'Iran). Contestualmente, col pretesto di assicurare il diritto all'autodifesa, promuovono, armano e foraggiano milizie confessionali di quartiere e di zona, beninteso sotto il loro comando.
Questa svolta da i suoi risultati. Il già composito fronte guerrigliero sunnita, si divide e si ricompone su nuove linee, raggruppandosi in quattro blocchi principali. Il blocco jihadista-takfirita (ovvero quella corrente sunnita che interpreta la guerra come lotta per uno stato religioso fondato sulla Sharia e solo in subordine come lotta di liberazione nazionale), raggruppato sotto le bandiere dello Stato Islamico in Iraq perde pezzi e viene schiacciato in un angolo. Gli altri tre blocchi condannano la sua politica settaria, quella di colpire indiscriminatamente tutti gli «infedeli», e dunque gli shiiti in quanto tali. Alcuni capi clan sunniti, affiancati da alcune frazioni guerrigliere (pezzi dell'Esercito Islamico e delle Brigate 1920, quadri del vecchio Baath, ma pure altre milizie locali) affiancano gli americani nel dare la caccia ai «qaedisti». Questo movimento di collaborazionisti si è dato anche un nome «Sahwa», risveglio. Si calcola in 50mila il numero dei miliziani sunniti che per la cifra di 300 dollari al mese sono adesso inquadrati in milizie locali che combattono al fianco degli americani.
Come accennato tuttavia, queste milizie non svolgono solo la funzione di truppe ascare di complemento contro le formazioni «.. di terroristi provenienti dall'estero»: esse difendono e sanciscono la definitiva spartizione confessionale-settaria di Baghdad e di altre zone una volta miste. Combattono dunque contro le milizie shiite, anzitutto contro quelle della galassia del Mahdi. Esemplare è quanto sta accadendo a Baghdad, anzitutto nei quartieri Ameriya e Adamiya.
Ma gli americani fanno il doppio gioco. Nelle zone shiite e/o in quelle ripulite dai sunniti, essi collaborano di converso con le milizie shiite locali così da assicurare il loro carattere confessionale omogeneo.
D'altra parte le forze di Moqtada al-Sadr sono diventate da mesi uno dei bersagli principali degli occupanti. Il dato diffuso dai comandi americani è quanto mai significativo: essi dicono che il maggior numero di perdite subite dagli occupanti nel 2007 è stato appunto causato da attacchi della guerriglia shiita. Sintomatico quanto accaduto agli inglesi nel sud e a Bassora, costretti a ritirarsi e incapaci di venire a capo della Resistenza in una zona dove i sunniti sono una piccola minoranza.
La «Surge» ha dato quindi, indiscutibilmente, dei frutti agli occupanti. Quanto potranno essere duraturi?
Questo dipende da numerosi fattori.
Dipende anzitutto dall'esito del confronto USA-IRAN, u confronto di cui l'Iraq è da tempo triste un banco di prova.
E' indiscutibile infatti che la «Surge», il riavvicinamento americano a quelli che fino a ieri erano bollati come «terroristi sunniti», si spiega anche con l'obbiettivo di cercare un «regime change» in Iran, cambio di regime che potrebbe portare ad un attacco su grande scala contro la Persia. Se questo scontro ci sarà la guerra in Iraq divamperebbe in forme cruente e travolgerebbe i precari equilibri incardinati attorno al governo al-Maliki. Gli americani non potranno permettersi di combattere su due fronti. Se il nemico principale diventerà l'Iran, Bush o chi per lui avrà necessità allearsi col diavolo e sua nonna.
Gli stessi rimescolamenti conosciuti nel biennio 2006-2007 dalla Resistenza irachena «sunnita», apparentemente confusi, possono ora essere interpretati come la manifestazione della fine della fase segnata dall'egemonia jihadista-takfirita.
Non tutto il male viene per nuocere. La «Surge», la nuova strategia americana di ficcarsi nella contrapposizione confessionale-settaria al fine di consolidare e dare una legittimità all'occupazione, potrebbe consentire un radicale riassestamento strategico, una nuova ricomposizione, ovvero la rinascita di quell'unità su linee patriottiche e antimperialiste che fece tremare gli americani nella primavera-estate del 2004, ai tempi delle insirrezioni di Falluja. Kerbala e Najaf, quando le guerriglie sunnita e shiita unirono le loro forze.
Se questo accadrà la «Surge» sarà ricordata come una effimera parentesi. Ma affinchè questo accada occorrerà isolare per sempre, non solo il takfirismo, ma pure l'ultranazionalismo arabo, lascito velenoso del baathismo, che vede nella Persia un nemico storico ancor peggiore degli Stati Uniti.
Nell'altro campo, del resto, occorre che le forze guidate da Moqtada al-Sadr non solo cessino per sempre il loro oscillante appoggio ai due partiti shiiti alleati degli USA (il Dawa e l'ex SCIRI di al-Hakim); ma mettano ordine nelle loro fila cacciando via quelle frazioni che perseguitano la minoranza sunnita e danno la caccia ai vecchi baathisti.
Il 2008 sarà, sotto ogni punto di vista, un anno cruciale per le sorti della guerra asimmetrica. Gli americani potranno spuntarla solo se riusciranno a tenere divisi e a far azzuffare le nazioni e i popoli resistenti. Il giorno in cui le masse arabe e quelle persiane, quelle sunnite, shiite e cristiane, lotteranno fianco a fianco seppellendo atavici dissidi: quello sarà un giorno ifunesto per gli Stati Uniti d'America.
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4. LA LIBERTA' NON SI COMPRA
Incontrando i «terroristi» di HAMAS
Il check-point di Erez, a vederlo, è un incrocio tra un aeroporto, una prigione di massima sicurezza e come uno s'immagina l'Area 51, quella con dentro gli exraterrestri.
Niente di strano: intanto è un aeroporto in negativo, un nonluogo dove quasi non si transita.
Poi, al di là della struttura e della fascia di sicurezza che sottrae ulteriore terreno coltivabile ai palestinesi, la Striscia di Gaza è una prigione. In senso figurato, perché in senso letterale è molto peggio: penuria di generi di prima necessità, medicinali e carburante, fabbriche chiuse, disoccupazione, tagli drastici ai servizi essenziali.
E i nostri media non perdono occasione per presentarci il legittimo governo di Hamas e i suoi sostenitori come terroristi, fanatici, incompatibili col resto dell'umanità, alieni. Extraterrestri.
Alla fine, alla delegazione di solidarietà nata dall'appello Gaza Vivrà, tra l'ipocrita melina delle autorità italiane e la strafottente arroganza di quelle israeliane, non è stato concesso di entrare. O meglio, visto che la Striscia non è sotto la giurisdizione degli israeliani, che anzi la considerano 'entità nemica', più corretto sarebbe dire che non ci è stato concesso di uscire da Israele.
Eravamo però in Cisgiordania, mentre negoziavamo l'ingresso. Lì, nella municipalità di el-Bireh, abbiamo incontrato alcuni dirigenti di Hamas. Hamas infatti, lungi dall'essere una bizzarria limitata alla Striscia, ha vinto le elezioni nelle principali città di tutti i Territori.
Di questi dirigenti, due, negli ultimi giorni, sono stati prima fermati dalla polizia di Abu Mazen, poi rilasciati, poi immediatamente riarrestati dai soldati israeliani: si tratta di Hussein Abu Kwaik e Faraj Rummana.
Che, naturalmente, non sono affatto alieni.
Che sono persone positive e cordiali.
Cordiali, nonostante entrambi abbiano passato anni nelle carceri israeliane, e Abu Kwaik abbia perso la moglie e tre figli bambini quando la sua auto è esplosa, in un attentato israeliano di cui lui era il bersaglio.
Positive, nonostante l'assedio aperto e omicida che stringe Gaza col sostegno entusiasta di Israele, USA ed Unione Europea, e nonostante l'assedio strisciante che stringe Hamas in Cisgiordania, sempre col sostegno degli stessi.
Positivi per forza, perché Hamas rappresenta le aspirazioni più che legittime dell'intero popolo palestinese: con temperanza, disposta al dialogo com'è (ha accettato il governo di "unità nazionale" uscito dagli accordi di La Mecca; ha proposto ad Israele, invano, una tregua bilaterale incondizionata; ha cercato, invano, il confronto con Abu Mazen), ma anche con determinazione, senza svendere la propria gente e la propria dignità.
Hussein Abu Kwaik e Faraj Rummana hanno risposto alle nostre domande con pazienza, pertinenza e lucidità.
E ad un certo punto ci hanno detto: non sappiamo se, scesi in strada dopo quest'incontro, torneremo a casa o verremo nuovamente arrestati.
Sono tornati a casa, quella volta. Adesso sono in galera, assieme ad altri diecimila palestinesi, tra cui vecchi, donne e anche bambini.
Della loro sorte e dei loro diritti Bush, appena giunto in Israele, non chiedera' certamente conto ne' ad Olmert, ne' a Peres e nemmeno ad Abu Mazen il quale, in piena sintonia con USA e Israele, respinge ogni dialogo con Hamas sulla base del medesimo pretesto: 'sono dei terroristi'.
Quel che è peggio è che Abu Mazen, che di tutti i palestinesi dovrebbe essere Presidente, non nasconde di essere favorevole, pur di fare a pezzi Hamas, allo strangolamento di Gaza. E' una vergogna che non abbia mai promunciato una parola di indignazione per quel che avviene nella Striscia, per le pene che soffrono un milione e mezzo di suoi concittadini.
Lui, Abu Mazen, ha scommesso tutto che Gaza, senza viveri e assediata, capitolera', prima o poi.
Della montagna di soldi ricevuti dagli occidentali (7,4 miliardi di dollari!, più di quanto lui stesso avesse chiesto), nenche un penny va a Gaza. Lui dice che questa montagna serve a.... 'finanziare la nostra indipendenza'.
Falso! Con questi soldi, come ben si puo' vedere camminando per le strade della Cisgiordania, si finanzia la dipendenza, si vuole corrompere un popolo affinche' volti le spalle alla Resistenza e scelga la via occidentale dello scambio tra la liberta' e sottomissione, tra il bene comune e il meschino benessere individuale.
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5. NESSUN IMBARAZZO
Casarini, Caruso e l'accusa di rossobrunismo
Com'è noto, in certi ambienti dell'estrema sinistra, noi del Campo non siamo visti con simpatia. Dicono che siamo «rossobruni», ovvero mezzi-fascisti. Quest'accusa viene da lontano, sin da quando, durante il conflitto in Jugoslavia, stavamo dalla parte di Belgrado contro la NATO e i suoi alleati locali. L'accusa venne rilanciata dai grandi mezzi di comunicazione nel 2003, quando mettemmo al centro l'appoggio alla Resistenza irachena. Il perno dell'accusa era alquanto semplice: siccome gli americani in Iraq stavano combattendo una tirannia fascista (quella di Saddam Hussein) la Resistenza irachena veniva equiparata ai 'repubblichini' e noi, di converso, a filo-fascisti. In base a questo teorema venimmo anzi accusati di essere gli architetti di una specie di asse del male, comprendente tutti i nemici della democrazia a stelle e striscie: fascisti, comunisti e islamici. Di qui l'epiteto magdiallamiano: nazi-islamo-comunisti.
Il bello è che mentre i pennivendoli sapevano di mentire, pezzi dell'estrema sinistra rilanciarono con toni solenni e scomuniche quest'accusa. Essi scoprirono, pensate un po', che qualche presunto fascista o ex-fascista, firmò l'appello per il sostegno alla Resistenza irachena (sottoscritto da più di tremila cittadini!). Altri cervelloni, tra cui Bertinotti, non potendosi abbassare al livello della calunnia pura e semplice, dissero che eravamo rosso-bruni in quanto antiamericanisti -per questi cervelloni l'antiamericanismo sarebbe infatti il più evidente sintomo di mentalità fascista.
Ritorniamo su quella vicenda perché siamo rimasti colpiti da due interviste.
Una di Luca Casarini (corriere della Sera del 13 novembre) e la seconda di Francesco Caruso (Corriere della Sera del 6 gennaio).
Casarini venne intervistato subito dopo l'omicidio, avvenuto l'11 novembre, del tifoso laziale Gabriele Sandri da parte di un poliziotto. Erano i giorni delle proteste che portarono all'assalto di un paio di Commissariati di PS a Roma. Proteste che Casarini difese e definì legittime. Alla domanda del giornalista che gli chiede se non trovasse contraddittorio «marciare assieme ad ultrà di estrema destra», Casarini rispose «assolutamente no. Difronte a simili episodi di violenza poiziesca non possono farsi discorsi a compartimenti stagni. Qui è un problema di democrzia. Di indignazione generale.» Il giornalista incalza: «A prescindere dalla collocazione politica?» «A prescindere!»
Francesco Caruso viene invece intervistato sulla rivolta popolare a Pianura (Napoli), contro Monnezzopoli. Caruso difende ovviamente la rivolta, e non condanna le 'violenze' contro le cosiddette forze dell'ordine. Il giornalista, rilanciando l'accusa dei media che nella rivolta ci sarebbero i camorristi e sodali ultrà di fede fascsita chiede se non si senta in imbarazzo. Caruso testualmente risponde: «No. Anzi, è la dimostrazione che quella è davvero una protesta della gente che abita nella zona: e lì ci sono quelli che frequentano I centri sociali, quelli che votano AN e pure quelli che vanno allo stadio. Gente diversa ma che lotta per la stessa causa».
A noi non capita spesso di essere daccordo con Casarini e Caruso, questa volta invece si. Apprezziamo sia il buon senso, sia i sentimenti anticapitalisti e libertari.
Che siano rossobruni anche loro?