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Autor: Edoardo Magnone
Data:  
Para: forumgenova
Asunto: [NuovoLab] Otto anni fa, la strage di migranti nel centro di detenzione Serraino Vulpitta a Trapani
Otto anni fa, la strage di migranti nel centro di detenzione Serraino
Vulpitta a Trapani

di Fulvio Vassallo Paleologo

Nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre del 1999, al centro di
permanenza temporanea Srrraino Vulpitta di Trapani, dopo un tentativo
di fuga sedato duramente dalle forze dell'ordine, oltre dieci
immigrati vennero rinchiusi in una sola camerata ed uno di loro diede
fuoco ai materassi in gommapiuma ed ai lenzuoli di carta che
costituivano l'arredo della cella. A seguito del rogo, durato alcune
decine di minuti, morirono tre immigrati tunisini mentre altri tre,
gravemente ustionati, morirono in ospedale a Palermo nei mesi
successivi. Nel mese di gennaio del 2000 venne presentato un esposto
alla magistratura in cui si denunciarono le condizioni di sicurezza e
la mancanza di scale ed uscite di sicurezza.

L'immigrato che aveva materialmente dato fuoco ai materassi della
cella fu rapidamente condannato e in pochi mesi venne espulso dal
nostro paese. Nel frattempo l'indagine avviata dalla magistratura
comportò la chiusura del centro, in diverse occasioni, per le
persistenti carenze strutturali, con la richiesta (e nel gennaio del
2001 il rinvio a giudizio) del prefetto di Trapani del tempo, imputato
di omissione di atti d'ufficio, di incendio colposo e di concorso in
omicidio colposo plurimo. Nel corso del processo, il centro di
detenzione Serraino Vulpitta veniva riaperto e chiuso a più riprese,
per disposizione dei magistrati, e poi del Ministero dell'interno, per
lavori di ristrutturazione, ma il numero massimo degli immigrati
trattenuti non superò più il numero di 57, mentre in precedenza si era
arrivati a rinchiudervi oltre 180 persone, e più di cento erano quelli
presenti nella tragica notte del rogo.

Nel luglio del 2001 il Tribunale di Trapani su richiesta dell'ASGI
(Associazione studi giuridici sull'immigrazione) ne ammetteva la
costituzione come parte civile, preso atto che " sussiste l'interesse
concreto e diretto in capo all'associazione richiesto,
nell'applicazione giurisprudenziale, ai fini della legittimazione di
parte civile". Il processo si è snodato per anni con una lunga serie
di udienze, nelle quali sono stati sentiti oltre all'imputato, i
testimoni, in gran parte agenti di polizia, quelli presenti nella
struttura al momento del rogo, e quelli sopravvenuti, ed i consulenti.
Al di fuori del dibattimento erano state raccolte le testimonianze di
Dino Frisullo, e di altri esponenti della Rete Antirazzista, che
avevano effettuato visite al centro di detenzione Vulpitta a partire
dalla sua apertura nel luglio del 1998, dopo un viaggio dell'allora
Ministro dell'interno Napolitano a Tunisi, all'indomani dell'ingresso
dell'Italia nell'area Schengen.

Nel corso delle udienze, anche per opera della difesa, si è assistito
ad un continuo palleggiamento delle responsabilità tra le forze di
polizia, mentre sono apparse evidenti sia le contraddizioni presenti
nelle deposizioni di alcuni agenti e funzionari della Questura di
Trapani, sia l'improvvisazione e le modalità dell'intervento di
soccorso. Al di là dei ritardi dei primi interventi e della mancata
apertura delle uscite di sicurezza, l'intera struttura appariva
inadeguata alla detenzione di un numero così elevato di migranti in
attesa di espulsione e risultavano chiare le responsabilità di chi ne
aveva disposto l'apertura, stabilendo le modalità del trattenimento.
Ma nessun componente della Commissione ministeriale che autorizzava in
quel periodo l'apertura dei CPT in Italia è stato mai chiamato in
causa nel corso del processo.
I Consulenti tecnici hanno messo in evidenza sia la durata del rogo a
causa del quale persero la vita gli immigrati, i primi tre per
asfissia all'interno della cella che li "ospitava", che le
caratteristiche strutturali del centro e la mancanza delle minime
condizioni di sicurezza richieste dalla legge e dai regolamenti per
queste strutture.

Dagli atti citati nell'ordinanza di rinvio a giudizio emergeva
peraltro come, già un anno prima del rogo il Ministero dell'interno
-con una nota- aveva chiesto al Prefetto " la segnalazione di tutte le
opere che si dovessero rendere necessarie per il rispetto delle
indicazioni elaborate" da un gruppo di lavoro ministeriale che
indicava " la necessità che i fabbricati fossero dotati di appositi
impianti antincendio nel rispetto della vigente normativa in materia e
che fossero installati rilevatori sensibili ai fumi, collegati ad una
centralina di allarme acustico ed ottico in caso di incendio." Dalle
deposizioni degli agenti di polizia presenti la sera del rogo emergeva
soprattutto l'assoluta carenza di estintori (sembrerebbe soltanto due
in funzione al momento del rogo) al punto che numerosi agenti hanno
affermato di avere contribuito a spegnere il rogo con gli estintori in
dotazione sulle proprie autovetture.
Spettava comunque al Prefetto l' organizzazione della struttura e
delle sue dotazioni, oltre che il rispetto delle normative in misura
di sicurezza, mentre rientrava nella competenza del Questore e degli
agenti di servizio, la gestione del centro, ed il mantenimento
dell'ordine all'interno della struttura. Al tempo del rogo non
esistevano ancora soggetti privati convenzionati.

Il processo si è poi concluso con l'assoluzione di tutti gli imputati,
confermata successivamente da una sentenza della Corte di Appello di
Palermo, quindi alla fine, malgrado l'ingente mole di documentazione
consentisse di individuare ritardi ed omissioni gravi che avevano
contribuito a determinare il tragico bilancio di morti, nessun
colpevole per una strage che è rimasta impunita (gli atti del processo
sono consultabili nel sito di Sergio Briguglio). Non restava altro
–intanto- che dare voce alle vittime che avevano vissuto la terribile
condizione di detenzione all'interno del centro. Nel 2003 veniva
presentato, e quindi successivamente aggiornato, un Libro Bianco sul
Serraino Vulpitta, nel quale si raccoglievano numerose testimonianze
di immigrati che erano stati rinchiusi in quella struttura e
lamentavano ogni genere di abusi e di disfunzioni (rinvenibile nel
sito www.cestim.it).

Nel corso degli anni il Vulpitta è stato quindi chiuso e riaperto a
più riprese, con la costruzione di quelle scale di sicurezza che
mancavano nel 1999 quando si verificò il rogo, e si sono ancora
verificati ribellioni, atti di autolesionismo e tentativi di fuga,
duramente repressi dalle forze dell'ordine che sono intervenute anche
con squadre speciali. Non sono neppure mancati episodi di pestaggi,
come nel dicembre del 2005 (1), e in segno di protesta un immigrato è
giunto persino a cucirsi la bocca Si sono verificati anche altri
incendi, e dal 2006, dopo l'ultimo rogo, per fortuna senza vittime, il
centro di detenzione ha funzionato soltanto per metà. Non è neppure
cambiato l'ente gestore. Tutto all'insegna della continuità, dunque.

La Commissione De Mistura aveva svolto il suo lavoro tra la fine del
2006 e l'inizio del 2007 per verificare quali centri di detenzione
andassero immediatamente chiusi in attesa di una nuova legge che
abrogasse la Bossi-Fini, senza ritornare alla legge Turco-Napolitano
che aveva istituito nel 1998 i centri di permanenza temporanea. In
Sicilia si è chiuso il centro di detenzione amministrativa per donne
ubicato a Ragusa, ma il Serraino Vulpitta, malgrado i rilievi
contenuti nella relazione della Commissione De Mistura, ha continuato
a funzionare nella lugubre struttura ancora annerita, in alcune parti,
dai precedenti roghi. Adesso probabilmente avranno imbiancato per
l'ennesima volta le pareti, e il Vulpitta continuerà ad "ospitare" per
chissà quanto tempo ancora immigrati in attesa di espulsione, o
semplicemente in attesa che passino i rituali sessanta giorni, prima
di essere rimessi in libertà con l'ordine –ineseguibile, per carenza
di mezzi e di documenti -di lasciare entro 5 giorni il territorio
nazionale. Un passaporto per la clandestinità.

Certo in questi anni le funzioni dei centri di permanenza temporanea
sono molto mutate, queste strutture servono più come contenitori di
immigrati irregolari presenti da tempo nel nostro paese, una ulteriore
occasione di esclusione e di clandestinizzazione, piuttosto che come
strutture destinate a contenere l'immigrazione clandestina. Per questo
ormai ci sono le pattuglie armate di FRONTEX e i centri di detenzione
nei paesi di transito, dal Marocco, all'Algeria, alla Tunisia, alla
Libia, all'Egitto. Le procedure di espulsione e di trattenimento sono
state esternalizzate, con il contributo finanziario dell'Unione
Europea e con i nuovi accordi economici e politici conclusi dai
governanti europei con i dittatori nord-africani.

L'umanità che si trova ancora oggi nei centri di detenzione
ammnistrativa, malgrado le tante promesse non mantenute del governo
Prodi (la funzione dei centri avrebbe dovuto diventare "marginale"
dopo l'approvazione della nuova legge Amato-Ferrero, ancora arenata in
Parlamento) non è molto diversa dagli uomini e i minori che abbiamo
conosciuto tutte le volte che abbiamo potuto visitare i CPT, e poco
cambia se la fantasia ministeriale appare inesauribile nel coniare
sempre nuove denominazioni (fino al concetto terribile di centro
"polifunzionale" (CPT-CID-CPA), coniato dal ministro Pisanu nel 2003
ed ancora oggi in auge, come Pian del lago, a Caltanissetta) per
confondere l'opinione pubblica e nascondere quella che è la vera
sostanza di queste strutture. Vi sono pure strutture che funzionano di
fatto come centri di detenzione senza neppure esserlo, come il centro
di accoglienza (tra le sbarre) di Cassibile, vicino Siracusa, anche
questo "censito" con rilievi assai critici dalla Commissione De
Mistura, ma ancora oggi inspiegabilmente in funzione, malgrado le
documentate denunce che si sono accumulate negli anni.

I centri di detenzione amministrativa (comunque li si chiami) sono
luoghi che ancora oggi rimangono al di fuori dei principi basilari
dello stato di diritto, governati dalla discrezionalità amministrativa
con il contorno formale dei giudizi di convalida ancora affidati ai
giudici di pace, in aperto contrasto con il carattere eccezionale
della detenzione amministrativa stabilito dall'art. 13 della
Costituzione. Spesso mancano gli interpreti, gli avvocati faticano
persino per la sottoscrizione delle procure, gli agenti consolari vi
hanno libero accesso e possono anche intimidire chi vorrebbe proporre
una istanza di asilo, le possibilità effettive di una difesa legale
indipendente sono ridotte al minimo. E tutto questo, malgrado
l'(apparente) apertura ai mezzi di informazione ed il crescente
coinvolgimento di organizzazioni non governative che in queste
strutture vedono principalmente la possibilità di istituire nuovi
posti di lavoro per i propri dipendenti. Altri, che una volta si
trovavano dalla parte di chi si batteva contro i centri di detenzione,
oggi accettano di convenzionarsi con le Prefetture per offrire quei
servizi che poi vengono spacciati come tentativi di "umanizzazione".

La triste storia dei CPT non è affatto finita, anzi, con i nuovi
decreti sulla sicurezza, la loro funzione viene rilanciata, serviranno
anche per i neocomunitari che non ottempereranno a quei requisiti di
stabilità di soggiorno e di reddito richiesti dal legislatore
italiano, in aperto contrasto con le direttive comunitarie che
affermano la libertà di circolazione per tutti i cittadini comunitari.
I mezzi di informazione, dopo avere aperto qualche squarcio su questa
realtà, come fece l'Espresso con il reportage di Fabrizio Gatti da
Lampedusa, si sono rapidamente allineati alla consegna del silenzio.
Per quanto tempo ancora continueranno a chiamarli centri di
accoglienza?

27 dicembre 2007
Fulvio Vassallo Paleologo
Università degli studi di Palermo