Auteur: ANDREA AGOSTINI Date: À: forumgenova Sujet: [NuovoLab] destra e sinistra e i professionisti della rassicurazione
il manifesto
27 Ottobre 2007
I professionisti della rassicurazione
Marco Revelli
Lo spazio della politica Il pensiero dominante afferma che la distinzione tra destra e sinistra appartiene al passato. Eppure sul piano planetario e nazionale le diseguaglianze si accentuano e la divisioni sulle soluzioni attorno al vivere in comune sono ancora tutte sul tappeto. Mancano però i soggetti politici disposti a farsene carico
La coppia «Destra/Sinistra» è la valuta corrente essenziale dello scambio politico nelle democrazie occidentali, scrivevano, alla metà degli anni Novanta, John Huber e Ronald Inglehart1, due dei principali scienziati politici contemporanei. Esattamente come il prezzo e la quantità nelle transazioni economiche, la collocazione «a destra» o «a sinistra» compare infatti, con irriducibile costanza, in ogni analisi della pratica politica e delle sue logiche. Ne costituisce, in buona misura, la principale condizione di razionalità: la base di un sia pur precario «ordine del discorso» dotato di una propria sintassi condivisa. E così come nel caso del mercato la crisi di fiducia nella moneta prelude a un qualche, imminente, crollo economico, allo stesso modo la perdita di operatività e di consenso delle tradizionali culture politiche strutturate sull'antitesi «Destra/Sinistra» può essere letta come il sintomo, inquietante, di un'equivalente e incombente crisi sistemica in ambito politico.
Le mappe del disincanto
È questo, in fondo, lo scenario in cui ci stiamo muovendo in questo passaggio di secolo. Negli stessi anni in cui Huber e Inglehart ne affermavano la centralità, il cleavage «Destra/Sinistra» giungeva infatti al fondo di un travolgente ciclo negativo come principio di organizzazione del campo politico, facendo registrare il proprio minimo storico di consenso. Né le cose sono mutate significativamente nel decennio successivo: il Novecento sembrerebbe essersi chiuso con una fuga disordinata dalle appartenenze politiche che ne avevano strutturato, nel bene o nel male, l'esperienza storica.
Se prendiamo in considerazione il paese in cui la distinzione tra destra e sinistra è nata, e in cui la politica ha assunto tradizionalmente carattere paradigmatico - la Francia, dove una rilevazione Tns Sofres per conto della Fondazione Jean Jaurés e del «Nouvel Observateur» copre ormai sistematicamente da un trentennio gli umori dell'elettorato su questo tema -, il fenomeno è particolarmente evidente. Qui, ancora all'inizio degli anni Ottanta, di fronte alla domanda sull'attualità delle nozioni di destra e sinistra, solo il 33 per cento degli intervistati affermava di ritenerle «superate», ma già nel 1984 essi erano saliti al 49 per cento. Alla fine del decennio (nel pieno del lungo ciclo mitterrandiano) la percentuale saliva al 56 per cento, per raggiungere il picco del 60 per cento nel 1992. Livello mantenutosi, con piccole variazioni, in tutto il successivo decennio, fino al 2002. Il che significa che, all'inizio del XXI secolo, solo poco più di un terzo dell'elettorato francese continuava a credere nel valore identificante di quell'antitesi. Il grosso ne aveva preso silenziosamente congedo, e non certo la parte più sprovveduta. Può essere interessante, a questo proposito, considerare il fatto che le percentuali più alte di giudizi negativi sulla validità della coppia «Destra/Sinistra» si registrarono tra la parte di popolazione più colta (il 71 per cento dei laureati e diplomati si pronunciarono in tal senso) e tra i «quadri» e le «professioni intellettuali» (73 per cento): in quello che Paul Ginsborg definirebbe il «ceto medio riflessivo», il nucleo più sensibile, anche se meno organizzato, dell'opinione pubblica.
Ciò non significa tuttavia - come ognuno può quotidianamente constatare - che i termini «destra» e «sinistra» siano scomparsi dal nostro linguaggio pubblico. Che, caduti in discredito, siano anche caduti in disuso. Anzi. Nonostante le infinite dichiarazioni di morte presunta, continuiamo a ritrovarceli davanti, con insospettata vitalità, non appena si incominci a parlare di politica. A farne la «cronaca». Sui giornali, in primo luogo, dove ripudiati un'infinità di volte dagli opinion leaders nelle pagine culturali, o comunque là dove si fanno riflessioni «alte», quegli «screditati residui dell'epoca delle ideologie e delle appartenenze» vengono poi frequentati sfacciatamente sulle prime pagine dai loro colleghi che debbono occuparsi, più prosaicamente, della «cucina politica» di tutti i giorni (...). Ma anche negli atteggiamenti dell'elettore medio, quando si tratti di autorappresentarsi politicamente, la contraddizione si ripropone. Quegli stessi che nel sondaggio sulla validità del cleavage ne decretavano plebiscitariamente il superamento, poi, se richiesti, nello stesso questionario, di collocarsi su una scala orientata da sinistra a destra continuavano a farlo diligentemente. Con una certa difficoltà, certo (sono sempre più esigue le identità «pure», posizionate agli estremi, cresce il «centro» non politicizzato, espressione di una qualche difficoltà a identificare una propria collocazione netta), ma tutto sommato maggioritariamente (solo un terzo si sottrae rifiutando di autocollocarsi o ponendosi in quella che gli autori della ricerca definiscono «la palude»). Sintomo, verrebbe da dire, di un qualche disagio psichico della coscienza politica, di una sconnessione tra pensiero e azione, tra rappresentazione mentale e realtà (...). Comunque un paradosso, da cui prende origine, a sua volta, un'intera serie di paradossi.
Affollamenti autoritari
Un primo paradosso è costituito dall'immagine implacabilmente uniforme, monocroma e omogenea dello spazio pubblico che si otterrebbe se si applicasse rigorosamente agli schieramenti politici attuali nelle principali democrazie occidentali lo schema intrinsecamente dicotomico e polarizzato «Destra/Sinistra», concepito all'opposto per panorami differenziati, policromi e disomogenei, e ad essi destinato. Si guardino, per averne un'impressionistica rappresentazione, le «mappe» più recenti disegnate seguendo lo schema del political compass, il quale struttura cartesianamente lo spazio politico in quattro quadranti delimitati da un asse orizzontale orientato da sinistra a destra a seconda degli atteggiamenti più o meno «interventisti» in campo economico e sociale e da uno verticale orientato dall'alto al basso a seconda degli atteggiamenti più o meno autoritari o libertari nel campo del costume. Si consideri, ad esempio, la cartografia politica dei candidati alle primarie americane di entrambi i partiti così ottenuta, la quale ce li mostra affollati, pressoché tutti, nel quadrante degli «autoritari di destra», dove ritroviamo, in bizzarra convivenza, Hillary Clinton e Newt Gingrich (parecchio più in alto sull'asse dell'autoritarismo e un poco più a destra), John McCain e Barak Obama (leggermente più verso il centro rispetto alla Clinton, ma anche più «autoritario»), John Edwards e Rudy Giuliani. Solo due figure minori - Dennis Kucinick e Mike Gravel - sfuggono a questo destino, rientrando, sia pur di poche lunghezze, nel quadrante dei «libertari di sinistra». Allo stesso modo per la collocazione dei governi europei, nel 2006: tutti concentrati nel quadrante in alto a destra, con la sola eccezione di Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda, pur sempre «a destra» ma, contrariamente agli altri, di pochissimo al di sotto dell'asse che separa gli autoritari dai libertari. E fa, bisogna dirlo, un certo effetto - anche se una sua razionalità ce l'ha - vedere il Regno Unito del new labour Tony Blair quasi con le stesse coordinate spaziali della Grecia dell'ultraconservatore Costas Karamanlis e significativamente più a destra della Francia neogollista di Jacques Chirac.
Diseguaglianze globali
Un secondo paradosso - per molti aspetti un paradosso nel paradosso - consiste nel fatto che questo appannamento (per usare un eufemismo) ed estenuazione della dicotomia «Destra/Sinistra», questa sua perdita di «corso legale» (per riprendere la metafora monetaria), si manifestino proprio nel momento in cui, su scala globale, lo scandalo della diseguaglianza esplode in tutta la sua evidenza. Nella fase storica in cui, cioè, la questione dell'«eguaglianza» - che come ha ben dimostrato Norberto Bobbio costituisce il principale, se non l'unico, tema discriminante tra sinistra e destra - assume (o dovrebbe assumere) tutta la sua indilazionabile crucialità ai fini del confronto, politico per eccellenza, sull'elaborazione di un «ordine condiviso». Ora, il dover constatare che le distanze politiche tra destra e sinistra si vanno riducendo nell'immaginario collettivo, fin quasi a perdere di senso, mentre le distanze sociali tra i primi e gli ultimi sul piano planetario vanno crescendo o comunque rivelandosi in una dimensione fino a ieri ritenuta intollerabile, la dice lunga sul male oscuro che sembra minare oggi, nel profondo, la razionalità politica e, in generale, la sfera stessa del «politico», così come la nostra modernità l'ha concepito.
Certo, i professionisti della rassicurazione vanno da tempo ripetendo che va bene così. Che questo attenuarsi del contrasto tra opposte identità collettive è normale. Di più: che è il segno della compiuta normalizzazione, di un auspicato e auspicabile passaggio della politica, finalmente, dallo stato adolescenziale a quello della maturità, dall'infatuazione ideologica a una conquistata dimensione pragmatica, in cui la ricerca comune delle soluzioni possibili prevale sull'enfatizzazione dei problemi insolubili. Dilagano, ma non convincono. Pur con la pervasiva forza mediatica del luogo comune, non riescono a dissipare del tutto la sensazione di un «disordine nuovo» al di sotto di questa inedita commistione degli opposti. L'impressione che questa politica finalmente liberata dai propri consolidati «riferimenti ideologici», più che pragmatica, sia caotica. Come un mercato dopo la «morte della moneta» o un linguaggio privo di grammatica e sintassi. E che lungi dall'essersi arricchita di una maggior concretezza, la sfera politica sia al contrario minata da una accentuata vuotezza (...).
Le fragili alternative
In fondo, le ragioni della «famigerata» contrapposizione tra destra e sinistra - la materialità dei problemi e dei (potenziali) contrasti, la durezza e perentorietà delle alternative -, sono ancora tutte lì, sul tappeto «globale», per certi versi potenziate e ingigantite dall'unificazione dello spazio planetario. Quello che manca, drammaticamente, sembrano essere, invece, le soluzioni e i soggetti politici disposti a farsene carico. Cosicché è difficile sottrarsi alla sensazione che questo indifferenziato convergere di programmi e proposte su un repertorio ristretto di atteggiamenti condivisi (...) non derivi, in realtà, dall'approdo a uno stile di risposta razionale alle sfide del tempo, ma da una non dichiarata né dichiarabile impotenza, da un'obiettiva assenza di risposte possibili, all'interno dell'orizzonte politico contemporaneo, alle questioni vitali del nostro vivere in comune. Il che equivarrebbe - bisogna ammetterlo - al fallimento della politica in quello che costituisce, in senso proprio, il suo compito qualificante.