[NuovoLab] il manifesto del 17.11.07

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Auteur: brunoa01
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À: veritagiustiziagenova, fori-sociali
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Sujet: [NuovoLab] il manifesto del 17.11.07
Genova, il gran ritorno
Sei anni dopo la morte di Carlo Giuliani e a poche settimane dalla sentenza sui fatti del G8 il movimento torna nella città ligure. Nonostante gli allarmismi della vigilia i negozi resteranno aperti
Alessandra Fava
Genova


«Se non vengono a dieci metri e cominciano a spaccare le vetrine, io tengo aperto»: col solito aplomb di questa città che maniman ai problemi bisogna pensarci prima ma se te li sventolano tanto davanti poi ti arrabbi anche, un pasticcere in una traversa di via XX settembre dice la sua sugli allarmi agitati dalla stampa locale in vista del corteo di oggi. «Per noi negozianti le manifestazioni non vanno mai bene, al di là di chi le convoca - ragiona Giacomo Tagliafico - soprattutto perché la gente se ne sta a casa e finisce che invece di venire in centro va alla Fiumara». Il suo sentire è quello di tanti negozianti del centro. La grande serrata sembra che non ci sarà, anche se qualche bar, ad esempio quello all'interno di palazzo Ducale ha pensato di assoldare due vigilantes, «ma d'altra parte lo facciamo tutti sabati sera», aggiunge il capobarman.
Al mercato Orientale, un grande spazio coperto, subito dietro via XX settembre, gli umori sono diversi. Una sessantenne dice che è troppo vecchia per andare in giro e poi lei di politica non s'interessa. A sorpresa, tra i venditori, c'è qualcuno che ci terrebbe eccome: «Io ci sarei, però devo lavorare. È il mio turno». Si tratta di Lorenzo Monai, 39 anni, fratello di uno degli imputati. «Si è creato il solito allarmismo - dice Lorenzo - oggi è già passato qui quello dei polli, poi il fruttivendolo. Vengono tutti da me. Tranquilli non succede niente, gli dico. C'è un convegno, un concerto, una manifestazione, come fate a dire che fanno casino di sicuro? Son sicuro io che non ci scappa niente». E poi butta lì: «Peccato, non esserci, verrà anche mia mamma».
Tra i banchi della frutta, due signore fanno la spesa: «Sono assolutamente d'accordo con la manifestazione anche se non andrò per impegni familiari - dice Maria Grazia Lorini, 52 anni - Spero che non succeda niente perché se degenera non va bene. Alla fin fine sul G8 sapere qualche verità non sarebbe male visto che in Italia abbiamo tanti misteri». Un'altra poco dopo bofonchia che «sarebbe meglio se ne stessero tutti a casa».
Risalendo via XX Settembre ecco il corteo dei metalmeccanici per lo sciopero nazionale. Un gruppo di lavoratori sotto la statua a Guido Rossa in largo XII Ottobre dice che alla manifestazione non ci va. «Non mi convince. Al G8 sono venuti a fare casino da Milano o Torino e noi dobbiamo far finta di niente? - si chiede un operaio - al corteo andranno a gridare contro la polizia, non mi sembra un buon pretesto». D'altra opinione Bruno Manganaro della Fiom Genova: «La Fiom verrà. Certo ci sono stati giorni di tensione sul tifoso ucciso, ma cercheremo di contrastare atteggiamenti negativi del corteo. Però alla giunta comunale che ha detto che facciamo servizio d'ordine, rispondiamo primo che il servizio non lo facciamo; secondo se si ricordano solo della Fiom quando viene comodo». Dopo la storia del servizio d'ordine targato Fiom gli organizzatori hanno dovuto ripetere decine di volte che tutti si gestirà la situazione in modo che sia una manifestazione pacifica.
A dare manforte ai metalmeccanici ci sono anche gli studenti superiori. Tre quindicenni, dell'istituto Nautico e dell'Odero ci tengono a far sapere che «al corteo ci andiamo per quel poveraccio che è morto e contro quello che ha sparato». Carlo Giuliani? «No il tifoso laziale», risponde uno. Altra generazione. «E se beccava un bambino?», dice saltellando un terzo con al collo la sciarpa della Samp. Tutti e tre si dichiarano ultras e alla domanda se hanno intenzione di far casino, uno sorride e abbassa i toni «se non ci attaccano i poliziotti noi stiamo buoni».
Generazione teen a parte, più avanti un lavoratore della Marconi-Ericsson, Alessandro, 37 anni, dice che «ci si va con le stesse motivazioni di sei anni fa. Come allora non sono d'accordo col modello di globalizzazione e non voglio più le passerelle mediatiche dei grandi vertici come il G8. A Genova poi vogliamo capire ancora che cosa è accaduto e perché. Non mi interessa mettere alla gogna il colpevole ma sapere le responsabilità sì».
Scendendo a Caricamento e poi in via Gramsci, a un passo dalla Stazione Marittima, Germana Guglielmone, 74 anni, nel suo negozio di cristalli e souvenir fa sapere che «mia figlia vuole che chiuda al pomeriggio, ma io terrò aperto almeno sino alle due. Ho fatto la guerra, al G8 abitavo in via Rimassa, tra venerdì e sabato ne ho visto di tutti i colori, figuriamoci se chiudo ora». Germana racconta che tra i negozianti dei vicoli c'è un po' di bulesumme, che è il ribollire dell'acqua sul fuoco, come a indicare che del corteo se ne discute eccome: «Ma a tutti dico che stare aperta è una questione di principio. Non mi sono fatta intimorire dal fascismo e ora perché devo stare chiusa?». Sul G8 racconta che ha l'impressione «che ce ne sia per gli uni e per gli altri» e che comunque un vertice così si doveva fare in una città di pianura mica in «un budello come Genova».
A riassumere le sensazioni tra il rilassato e il chi va là, Don Andrea Gallo che con la Comunità di San Benedetto sarà in testa al corteo, spiega che «Genova è tranquilla. In fondo alla notizia della manifestazione qualcuno poteva anche organizzare delle ronde e invece non ci sono state». Così oggi è un po' il riscatto per una città ancora irritata dal filospinato e dalle griglie della zona rossa come dalla violenza del G8. Oggi è un po' una scommessa. Lo ha detto anche il prefetto.

--Memoria
Processate il mio personaggio di carta
2001-2007 Dovremmo esserci tutti in quell'aula dove 25 di noi rischiano più di due secoli di galera
Roberto Ferrucci


Sono uno di quelli di via Tolemaide, io. Ero lì quel giorno, il 20 luglio 2001, e ci sono idealmente rimasto per sei anni, su e giù, quotidianamente, per quella striscia di asfalto incandescente, imbrattata di sangue, l'aria impestata di gas velenosi. Sei anni, lì, attraverso i pensieri, i gesti, la voce di un personaggio che, dentro una stanza d'albergo da cui si vede la Lanterna e con una mappa della città stesa sul letto, ritorna a Genova anni dopo, ripercorre la memoria, rivive i momenti, osserva immagini, segna sulla mappa le piccole tappe determinanti di quell'esperienza. Racconta e, di quei giorni, ne fa romanzo. Non è lì alla ricerca della verità, non è compito dei romanzieri, quello, né, tantomeno, di un personaggio di finzione. Ciò che, attraverso di me, l'io narrante cerca di trovare è un sentimento. Cercato - e chissà se trovato - attraverso il percorso della memoria, di ciò che di quei giorni, negli anni, ci è rimasto dentro. Quando ho incominciato a scriverlo, sapevo sarebbe stato necessario tanto tempo. I giorni di Genova, l'esperienza atroce avrebbe dovuto sedimentarsi dentro, trovare uno spazio accettabile, plausibile, in un animo che mai avrebbe immaginato di vivere - di sentire - una tale esperienza. Un percorso inevitabile, che ha riguardato tutti quelli che ci sono stati. E per alcuni di loro, è scattato pure un comprensibile effetto rimozione, tanto fu disgustoso ciò che vissero, videro, subirono. Animi sconvolti e ferite da cicatrizzare a parte, tutti speravamo che, sei anni dopo, il percorso della chiarezza, quello ufficiale, istituzionale, fosse giunto ben al di là di dove si trova ora. Che una commissione parlamentare fosse già insediata, con la consapevolezza che, in questo paese, le commissioni raramente sono giunte a dei risultati, e con il rischio, a commissione in corso, che di Genova 2001 si parlasse ancor meno di quanto fatto finora. Per non dire poi della certa prescrizione di cui usufruiranno i responsabili della «macelleria messicana» della Diaz e i torturatori di Bolzaneto. Per tutto questo è necessario e doveroso tornare a Genova, sabato 17 novembre. Tornare a Genova per ripartire da Genova. Fare della memoria il nostro presente. A guardare l'intero procedimento, sembra che la magistratura genovese si sia mossa come fecero le forze dell'ordine sei anni fa, lungo le strade della città. A caso. Chi capitava, capitava, e giù botte. Adesso, a chi è capitato, giù anni di galera. Per equiparare, hanno detto. Per mettere sullo stesso piano, in un equilibrio sghembo, il processo ai venticinque manifestanti con quello degli incursori della Diaz e quello degli aguzzini di Bolzaneto, ostinata ricerca di una delle più improbabili verità condivise che sempre più pochi, per fortuna, attraverso arzigogolate elucubrazioni, inaccettabili accostamenti, insistono a invocare per Genova. Non solo. La richiesta di pene severissime istituzionalizza - perché si sa, è il paese delle semplificazioni, questo, degli appiattimenti - il luogo comune del «se la sono cercata». La falsa lettura che fa di Genova 2001 un semplice episodio di ordine pubblico, dove dei manifestanti anziché manifestare, devastavano e saccheggiavano e le forze dell'ordine non facevano che ristabilire, appunto, l'ordine. Eppure, girando l'Italia a presentare il romanzo, mi rendo conto di come la percezione di Genova da parte di gente che non c'era, che ne sapeva poco, sia cambiata. Forse per via delle ammissioni di dirigenti delle forze dell'ordine, forse per le telefonate agghiaccianti fra i poliziotti rese pubbliche qualche mese fa, e forse anche grazie alla trasmissione di Carlo Lucarelli, Genova 2001 diventa qualcosa, per loro, da approfondire, perché - dicono - l'avevamo liquidata troppo in fretta, con superficialità. Ora, invece, e non sono pochi, vengono per saperne di più. Non sono pochi, hanno voglia di capire, ma non basta, perché poi dall'alto tentano di ricacciarla in un angolo della memoria, Genova, in quello più polveroso e inaccessibile.
La memoria di Genova è - dovrebbe essere - memoria collettiva, dolore condiviso, paura condivisa, rabbia condivisa. E, ormai, dopo tutto questo tempo, dovrebbe essere storia condivisa. Dovremmo esserci tutti, tutti trecentomila, dentro a quell'aula di tribunale dove venticinque di noi rischiano più di due secoli di galera. Alla lettura della notizia, quella cifra sembrava la leggessimo ancora sotto l'effetto stordente e asfissiante dei gas di Genova, vietati in guerra ma consentiti, solo in Italia, in casi di ordine pubblico. Era il rimbambinento provocato da quei cosi a farci leggere male. E invece no. Realtà pura. E allora, noi, quelli di via Tolemaide, quelli di Genova 2001, dobbiamo tornare tutti lì. Processateci tutti. Andate a prendere anche il protagonista del mio romanzo nella sua casa di carta. Accusatelo, perché a pagina 52 disegna sulla mappa la propria videocamera come fosse una pistola, to shoot images verso chi, anni prima, gli puntò addosso veri fucili che sparavano gas ad altezza uomo. Processatelo, perché a pagina 115 si accorge di non avere più il berretto in testa e spera di averlo lanciato contro i plotoni schierati contro di lui, contro il corteo. Chiedetene il massimo della pena perché a pagina 114, mentre scappa dentro a un tunnel, dice: «Sarei stato capace di tutto in quel momento. Avrei fatto qualunque cosa a quelli che mi stavano inseguendo e sparando. Qualunque cosa a quelli che mi stavano squarciando i polmoni, occludendo i bronchi, cartavetrando la gola, arroventando la pelle, infiammando gli occhi». Condannatelo, il protagonista del mio libro, reo di aver provato a far arrivare a chi di Genova sapeva poco o nulla, la storia di Genova.
*autore del romanzo «Cosa cambia», Marsilio, www.robertoferrucci.com
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