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John Holmes: «Gaza muore, Israele tolga il blocco»
Umberto De Giovannangeli
Un appello accorato. Una descrizione inquietante di una condizione di vita che si fa di giorno in giorno più difficile. La vita di 1milione e 400 palestinesi rinchiusi in una «grande gabbia»: la Striscia di Gaza. A denunciarlo è John Holmes, segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari.
Signor Segretario, qual è oggi la situazione nella Striscia?
«La situazione a Gaza si sta sempre più deteriorando. Le restrizioni alle attività sono sempre più severe. Il blocco dei movimenti delle merci ha provocato la crisi di interi settori produttivi, come la floricoltura e l’agricoltura..».
È solo una questione umanitaria?
«Nell’emergenza, è innanzitutto una questione umanitaria perché investe le condizioni di vita di centinaia di migliaia di civili, moltissimi dei quali sono donne e bambini. Ma non è solo una questione umanitaria, perché la situazione sul campo crea indubbiamente uno stato sfavorevole al processo di pace. E di ciò è pienamente consapevole il presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.). Ed è obiettivamente difficile conciliare il deterioramento della situazione sul terreno con le aspettative rivolte alla Conferenza di Annapolis (la Conferenza di pace israelo-palestinese convocata dagli Stati Uniti per la fine di novembre, ndr.). Alleggerire le restrizioni sugli aiuti umanitari e togliere il blocco economico a Gaza è a mio avviso il modo migliore di promuovere la pace, perché migliori condizioni di vita e il recupero della propria dignità da parte della popolazione palestinese favorirebbe il sostegno a qualunque processo di pace».
In questa situazione che rischia di inasprirsi ulteriormente, cosa si sente da numero due dell’Onu di chiedere al governo israeliano?
«A Israele torno a chiedere di autorizzare l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza in maniera più estesa e a levare il blocco economico. A Gaza non c’è ancora la fame, ma c’è una crisi umanitaria seria che si trascina da oltre un anno e che le nuove restrizioni non potranno che aggravare ulteriormente.
Israele deve riflettere sugli effetti che potranno produrre queste restrizioni, non solo in termini di crisi umanitaria ma anche sul piano politico, prestando ascolto agli appelli che in queste ore vengono rivolti da più parti al primo ministro Olmert. Migliorare le condizioni di vita della popolazione civile di Gaza è anche nell’interesse di Israele. E perché ciò possa accadere è indispensabile quanto meno ampliare i corridoi umanitari».
Vorrei che si soffermasse su quest’ultimo aspetto, visto che è sempre più difficile avere notizie da Gaza.
«La gente, come le dicevo,non muore di fame, ma in termini di accesso medico c’è gente che può morire per mancanza di farmaci e accesso medico. Quella in atto nella Striscia, lo ripeto, è una grave crisi umanitaria. La gente si sente sempre più isolata e abbandonata se stessa. Il blocco imposto da Israele sta contribuendo a radicalizzare gli animi e non porta sicuramente alla pace».
Cosa può comportare, ad esempio, determinare ulteriori limitazioni all’accesso medico e la restrizione dell’erogazione della corrente elettrica nel campo sanitario?
«Per risponderle posso citare un fatto che è già avvenuto quando Israele ha deciso di attuare questa misura nel corso di un’operazione militare: l’ospedale Shifa (il più grande di Gaza City, ndr.) ha denunciato l’impossibilità di compiere operazioni chirurgiche per mancanza di anestetico. La privazione della corrente elettrica non potrà che peggiorare la situazione. Mi lasci aggiungere che, come ha recentemente riferito il quotidiano israeliano Haaretz, tra i beni che vengono bloccati ai valichi di frontiera ci sono prodotti di prima necessità come il latte in polvere per i bambini, i formaggi, lo zucchero. Dall’estate scorsa, il numero dei convogli umanitari che ha potuto oltrepassare i valichi di frontiera non ha cessato di diminuire, dai 3000 di luglio ai 1500 di settembre. La scorsa settimana, sono passati 663 camion a fronte dei 793 che avevano avuto il permesso dalle autorità israeliane di entrare a Gaza la settimana precedente. Dal giugno scorso il principale punto di passaggio delle merci, il valico di Karni, è chiuso. Quello di Sufa lo sarà a partire dai prossimi giorni. Il principale valico di passaggio per le persone, quello di Rafah, è chiuso da giugno, e i permessi di passaggio sono manifestamente insufficienti. Sempre meno malati gravi vengono autorizzati a lasciare Gaza per farsi curare in Israele. Erano cinque al giorno a settembre contro i 40 di luglio. Il blocco della libertà di movimento per ragioni mediche rappresenta una grave violazione del diritto internazionale umanitario».
È possibile sintetizzare in alcuni dati la condizione della gente di Gaza?
«Secondo gli ultimi dati dell’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza ai rifugiati palestinesi, ndr.) il 35% della popolazione di Gaza vive sotto la soglia di povertà; il 44% della forza lavoro è disoccupata; il 90% degli stabilimenti produttivi è fermo; da mesi non si può né importare né esportare; oltre un milione di persone vive esclusivamente grazie alla distribuzione di viveri organizzata dall’Onu e da organizzazioni non governativi. Più di 70mila lavoratori sono stati licenziati negli ultimi mesi dai settori dell’industria, dei servizi e dell’agricoltura. Questi dati raccontano di una condizione drammatica. E i primi a farne le spese sono i soggetti più deboli: i bambini. Non va mai dimenticato che bambini e adolescenti costituiscono oltre la metà della popolazione palestinese, come peraltro non andrebbe mai dimenticato che la protezione dei civili è un obbligo imposto dal diritto internazionale umanitario».
Israele ribatte che il giro di vite a Gaza è conseguenza degli attacchi - il lancio dei missili Qassam - che dalla Striscia vengono lanciati contro Sderot e altre città o villaggi israeliani.
«Questi attacchi vanno condannati decisamente, ma resto dell’idea che la punizione collettiva non sia la risposta adeguata agli attacchi terroristici. La situazione è già incandescente e rischia di diventare ingestibile se saranno effettuati, come purtroppo sta iniziando ad avvenire, nuovi tagli».
In una recente intervista a l’Unità John Dugard, l’inviato delle Nazioni Unite nei Territori palestinesi, ha denunciato l’impossibilità della circolazione delle persone, la difficoltà del reperimento di generi di prima necessità e ha messo in guardia che l’inasprimento delle punizioni collettive potrebbe portare ad una terza Intifada. Condivide questa preoccupazione?
«Questo rischio è reale. Se la gente perde ogni speranza nel futuro e se il suo presente è segnato dal degrado sociale ed economico, è facile che la rabbia e la disperazione alimentino risposte disperate».
Pubblicato il: 29.10.07
Modificato il: 29.10.07 alle ore 14.17
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Carlo
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