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Aihe: [NuovoLab] G. Casarino: articolo di Marco Revelli sulla manifestazione del 20 u.s.
Per chi non l’avesse letto: mi sembra una riflessione politica, almeno
analiticamente, importante e che offre

spunti di discussione.

                                                           Giacomo Casarino


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il manifesto del 26 Ottobre 2007

Non è stata una semplice manifestazione, né una resistenza identitaria.
Cerchiamo di capire cosa potrà essere

Sinistra, ricominciamo dal venti ottobre

Il meccanismo della rappresentanza politica - spina dorsale delle moderne
democrazie di partito - si è inceppato. Serve una nuova «polifonia» che non
si esaurisce nelle istituzioni

Marco Revelli



Indubbiamente la scommessa era alta. Riguardava la possibilità o meno della
sopravvivenza di una sinistra nel nostro paese, nel quadro di una vera e
propria mutazione genetica del sistema politico. Questo era il rischio
annunciato dal doppio evento della «consultazione» sindacale sul protocollo
sul welfare, da una parte, e delle cosiddette «primarie» del non ancor nato
Partito democratico, dall'altra, col loro comune carattere di «mobilitazione
dall'alto» e l'intreccio di decisionismo burocratico e di plebiscitarismo
subalterno che li ha caratterizzati entrambi. E questo era il neppur molto
celato desiderio dell'establishment economico e finanziario, dalla
Confindustria alla proprietà dei grandi quotidiani nazionali, tutti a tifare
per la sopravvivenza della legge 30 e per la nascita del partito di «tutti
gli italiani». Per la trasformazione del sindacato in apparato di
organizzazione del consenso e per la costruzione di un grande centro
egemonico capace di monopolizzare l'intero spazio politico non ancora
occupato dai populismi di destra.
Questo, d'altra parte - la comprensione del carattere eccezionale della
posta in gioco - è all'origine della straordinaria «mobilitazione dal basso»
del 20 ottobre, che a quella prospettiva ha imposto una sostanziosa e
massiccia ipoteca. Non si spiega altrimenti la dimensione imprevista e
imprevedibile della partecipazione - quella galassia di donne e di uomini
che si è condensata tra piazza della Repubblica e piazza San Giovanni
intorno al corpo militante dei due partiti che ci avevano creduto,
Rifondazione comunista e il Pdci, ma moltiplicandone per tre, quattro volte
il numero, circondandoci e sommergendoci - se non con una lucida
consapevolezza del carattere non contingente, né «tattico», del momento
politico e di ciò che si stava decidendo. Solo un'incurabile ottusità
politica, unita all'incultura del nostro giornalismo di regime e a una
vocazione all'occultamento e alla menzogna, hanno potuto far precipitare la
portata in qualche misura «epocale» dell'alternativa che si era chiamati a
sciogliere nell'asfittico fondo d'imbuto della questione del governo,
strutturando il grottesco gioco di specchi di una «manifestazione contro
Prodi» e una «manifestazione a sostegno di Prodi». Bastava guardare le facce
serie, intente, sotto il palco multiculturale e multietnico, a ascoltare le
voci di tutte le età lì raccolte, interpretare gli applausi convinti e anche
i silenzi non distratti, per capire che quella piazza guardava ben al di là
della cronaca di breve periodo di un governo dalla morte più o meno
annunciata. E più in alto.
E tuttavia la questione del governo, con la sua ossessiva centralità
mediatica, può essere utile per aiutarci a meglio mettere a fuoco alcuni
aspetti «di sistema» della mutazione in atto. Intanto perché quella che si
era configurata dopo la risicata vittoria del 2006, e che si è lentamente
logorata nel corso di quest'anno e mezzo, era l'ultima, estrema opportunità
- offerta a quella parte d'Italia che non voleva arrendersi alla deriva
affaristico-populistica sintetizzata nel berlusconismo - di salvare il
salvabile. Di opporre una qualche diga alla degradazione dello spazio
pubblico. Ne ero convinto allora, a urne appena chiuse. Ne resto convinto
ora, che quell'opportunità è stata malauguratamente sprecata. E poi perché i
meccanismi che stanno all'origine di quel logoramento e di questa crisi - le
sue cause reali, non gli espedienti di copertura tirati fuori nel gioco del
cerino in corso - la dicono lunga sulla sua natura. Li sintetizzerei in due
formule: crisi di legittimazione e ristrutturazione del sistema politico.
Detto in modo più volgare: abbandono del proprio elettorato e nascita del
Partito democratico.
Il primo aspetto è evidente. Prodi annaspa perché il suo governo ha deluso
tutti. Non solo l'elettorato di sinistra. Non solo gli «incontentabili»
della «sinistra radicale» (che, poveracci, non hanno avuto proprio nulla di
ciò che era stato loro promesso). O quei «piantagrane» dei loro
rappresentanti (che, se vogliamo dirla tutta, si sono letteralmente svenati
per sostenere un governo spesso insostenibile). Ma anche i cosiddetti
«moderati». «Quelli che il liberismo non gli basta mai», e pensano che senza
una sinistra troppo implicata con lavoratori dipendenti e precari e
popolazioni dei territori, potrebbero portare a casa molta più deregolazione
e detassazione, meno spesa e più sviluppo, più cemento, più tutto, giocando
sui vincoli dell'Unione europea e sulle logiche di mercato. E non è solo
perché le coalizioni larghe sono strutturalmente instabili, finiscono per
allungarsi troppo e per strapparsi spesso, o per paralizzarsi nei veti
incrociati. Ma soprattutto perché si è inceppato il vecchio meccanismo della
rappresentanza politica, spina dorsale delle moderne democrazie di partito,
il quale garantiva un sia pur debole rapporto tra insediamenti sociali e
presenze istituzionali. Tra soggetti collettivi e rappresentanti politici,
stretti da un sia pur debole mandato, in un quadro socio-economico in cui la
negoziazione e la redistribuzione erano la regola. Oggi, i vincoli sono
sempre meno «verticali» (tra rappresentanti e rappresentati) e sempre più
orizzontali (tra i rappresentanti dei diversi partiti coalizzati e dei
diversi stati-nazione, connessi tra loro da vincoli comuni e tutto sommato
da un comune sentire di stampo oligarchico). E d'altra parte le possibilità
di negoziazione e di redistribuzione si assottigliano, in contesti di
ipercompetitività globale e di semi-monopolio di entità trans-nazionali, che
inceppano se non addirittura mettono fuori gioco anche i residui delle
tradizionali politiche keynesiane.
Il secondo aspetto - la nascita del Partito democratico - è meno evidente
nella sua carica destabilizzante. Si presenta anzi come una grande
operazione di normalizzazione e stabilizzazione, ma il suo potenziale
distruttivo dell'attuale quadro politico e del governo è persino più
dirompente della delusione dell'elettorato. Quella che si tenta, infatti,
non è una semplice operazione algebrica. Né un mero cambio di «contenitore»
per elementi se non omogenei, comunque compatibili. E', al contrario, il
tentativo di fusione di due culture politiche e di due storie la cui
polarizzazione e la cui competizione hanno costituito il tratto qualificante
di quasi quarant'anni di storia repubblicana. Un'operazione altamente a
rischio (fusioni di tal genere sono improbe persino in campo economico e
industriale), destinata a mutare natura - a cambiare il Dna - di due partiti
che, per giunta, sono i pilastri centrali che sostengono il governo in
carica. E a segnare un tratto forte di discontinuità e di «rottura»
nell'assetto complessivo del nostro sistema politico.
Ora, operazioni di questo tipo vengono di solito tentate in un quadro di
precauzione rispetto ai possibili contraccolpi sulla sfera del governo e
dello Stato: o quando si è all'opposizione. Oppure quando si gode di
amplissime maggioranze. Azzardarlo nella condizione del governo attuale, con
una maggioranza risicatissima, e con equilibri di per sé a rischio,
significa davvero sfidare, con goliardica irresponsabilità, la sorte.
Tentare un doppio salto mortale al buio. Comunque terremotare la base su cui
poggia il «proprio» governo, senza sapere quale esito avrà la scossa. Né
sembra bastare, a attenuarne le conseguenze, l'escamotage che è stato
inventato: la neutralizzazione di storia e cultura. La rimozione di
entrambe, nell'incapacità di rielaborarle, e la riconversione del vizio in
virtù nella retorica della politica non «ideologica», e del rifiuto del
passato in quanto luogo di divisioni e contrapposizioni «pericolose». Anzi,
il rimedio sembra peggiore del male: ci consegna, tutti, a un panorama
politico incerto e imprevedibile, dove l'unica cosa sicura è la
discontinuità con ogni presente e ogni passato.
Per questo il lascito della piazza del 20 ottobre è così impegnativo. Essa
lancia due messaggi, che sono quelli che abbiamo ascoltato dal palco, e che
sembravano davvero il comun denominatore di una folla unita e plurale. Dice,
da una parte che «noi ci siamo». Che nell'Italia di domani c'è una sinistra
che ha corpo e volontà. Che vuole esistere e prendere la parola. Ma
aggiunge, dall'altra parte, che quella sinistra o sarà diversa da tutte
quelle esistite fin'ora, o non sarà. O saprà reinventarsi nel nuovo habitat,
radicalmente mutato, che la frattura storica apertasi sotto i nostri piedi
ha prodotto e ci impone, o quel varco tenuto aperto in extremis, con
un'impennata di intelligenza e di orgoglio, si chiuderà. E reinventare una
sinistra per il XXI secolo, in un contesto in sé ostile (strutturalmente
incompatibile con lo stesso concetto di sinistra così come l'ha conosciuto
la modernità), con uno spazio pubblico esploso, un meccanismo della
rappresentanza lesionato al limite dell'inagibilità, un universo del lavoro
frantumato e eroso dal cancro della precarizzazione e delle
delocalizzazioni, appare impresa davvero improba. Tanto più se i vecchi miti
e i valori fondanti della modernità industriale in cui ci siamo formati, si
rovesciano nel proprio contrario: progresso e sviluppo trasformati da
simboli dell'emancipazione in minacce mortali e potenze distruttive; i
grandi organismi organizzativi, le strutture capaci di trasformare l'Io in
Noi, rovesciati da strumenti di liberazione in apparati di disciplinamento;
la stessa democrazia, sussunta dal sistema dei media, svuotata dei soggetti
reali e piegata sempre più alla logica della rappresentazione virtuale,
trasformata da forma della partecipazione in dispositivo di
assoggettamento...
Non basterà, temo, srotolare le vecchie bandiere e inalberare il proprio
orgoglio di comunisti. Non basterà neppure - lo dico con disperazione -
ritornare con la mente alle buone, ragionevoli, politiche keynesiane,
riaffermando testardamente la centralità del conflitto capitale-lavoro, in
un mondo in cui il capitale entra direttamente dentro le forme della vita:
trasforma noi, le nostre conoscenze, i nostri linguaggi e relazioni, in
mezzi di produzione (in capitale fisso), e i nostri Tfr, il nostro salario
differito, le nostre vecchiaie, in prodotti derivati (in capitale
finanziario), usando nel contempo i nostri desideri e i nostri bisogni come
componenti del comando. Occorrerà uno sforzo congiunto e complesso,
diversificato per livelli, capaci, ognuno, di ascolto e di autonomia, che
nessun contenitore unico, nessuna forma «organica» e univoca (quale era fino
a ieri la forma-partito) potrà esaurire. Livelli con tempi e linguaggi
diversi: impellente e istantaneo, per così dire, quello della presenza
elettorale, il più facile da immaginare (un'unica lista, un unico simbolo,
un'immagine credibile di un'entità non frammentata e litigiosa, capace di
attrarre tutto ciò che non subisce la seduzione veltroniana), e il più
difficile da realizzare in tempi utili (avrebbe dovuto compiersi sei mesi
fa, non domani). Più lento, necessariamente lento, quello culturale,
bisognoso di paziente riflessione, di pacata e insieme radicale analisi di
un patrimonio culturale da non ripudiare ma da rivisitare criticamente.
Pervasivo e polifonico, infine, quello sociale, aderente alle «coscienze di
luogo», alle specificità soggettive, capaci di racconto e di ascolto. E
tutti e tre, in qualche modo, in reciproco rispetto e ascolto.