[NuovoLab] in memoria di Giovanni Rebora

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lavoro repubblica

Addio a Rebora "il professore della tavola"
PAOLO LINGUA
Il professor Giovanni Rebora, docente di storia economica alla facoltà di Lettere e studioso della civiltà della tavola, è mancato ieri sera nella sua abitazione di Sampierdarena, il quartiere dove era nato ed era sempre vissuto. Aveva 75 anni. Da alcuni mesi era gravemente ammalato. Lascia la moglie, due figli e tre nipoti. I funerali si svolgeranno domani alle 11,45 nella chiesa dell´Adorazione Perpetua di via GB Monti. Giovanni Rebora ha posato, alla fine, con mano stanca la forchetta perpendicolare sul suo piatto vuoto. L´appetito è stato placato: ora è il momento della conversazione scintillante, del gusto del bon mot, è l´ora in cui i ricordi fanno ressa nella memoria. Come ricordare, quali parole trovare per commemorare (il verbo gli sarebbe sembrato orribile: da professori universitari, avrebbe detto) uno degli ultimi zingari della cultura, genovese al mille per mille, creativo nell´uso del dialetto da impiegarlo persino in certi momenti delle sue lezioni o magari, per scandalizzare i colleghi formalisti, durante la dissertazione d´una tesi di laurea. Per molti Gianni Rebora era un "personaggio" che impiegava l´umorismo paradossale persino nei ragionamenti scientifici o solo per spiazzare la cultura ingessata e togata: ma non era solo quello.
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secolo xix

Un amico, ironico sino alla fine
ANTONIO GIBELLI
TUTTI NOI che abbiamo vissuto tanti anni con lui nei locali del Dipartimento (ma lui c'era già quando si chiamava Istituto) di storia moderna e contemporanea, in via Balbi 6, tutti noi ricordiamo bene il suo profilo dinoccolato e sornione, il suo fare bonario e insieme sarcastico, la sua ironia contro le retoriche professorali che aveva trasformato in un'antiretorica basata sull'ostentazione del dialetto, o quantomeno della cadenza, genovese non solo nelle conversazioni personali ma persino nelle discussioni sulle tesi di laurea.
In genovese parlava dei suoi incontri con Le Goff, degli insegnamenti di Braudel. In genovese esponeva le sue convinzioni in materia di storia economica, la sua disciplina, e in particolare di storia dell'alimentazione, la sua preferenza. Vantava e ostentava, con orgoglio, le sue origini popolari, le sue radici sampierdarenesi, i suoi pomeriggi di bambino in casa della nonna in riva al mare, quando il mare montava e alzava i suoi spruzzi, la sua conoscenza della pesca e dei pesci, le sue competenze in arti marziali. A una cultura della concretezza riconduceva anche il suo modo di intendere il mestiere dello storico, molto legato alla pratica d'archivio, allo spoglio dei documenti, alla materialità delle cose come il lavorare, il produrre, il fare conti, il nutrirsi, il conservare e trattare gli alimenti.
Ultimamente, dopo la sua andata in pensione, tutto questo si era come un poco incattivito e tinto di qualche tristezza.
Ma tutti noi che siamo andati a salutarlo quest'estate, dopo l'annuncio della fatale malattia, abbiamo riconosciuto la sua tempra di lottatore, la sua capacità di usare ancora l'ironia per continuare a vivere, senza nascondersi la serietà del male ma senza rinunciare a una speranza. Più allampanato del solito, più scavato, ma col suo sguardo sempre vivo, il suo dialetto sempre sferzante, il suo gusto per le battute salaci. Ci ha fatto sorridere ancora, Giovanni Rebora, premendosi il fegato per il dolore.

Antonio Gibelli è direttore del Dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell'università
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Il cantoredei piattidei poveri
ritratto
n «PESCE povero? Non ho mai visto la dichiarazione dei redditi di una sardina», amava sorridere il professore, ed era una battuta che raccontava tutto di lui. Di quanto fosse estraneo ai luoghi comuni e alle frasi fatte, all'infatuazione per le mode alimentari, al rapporto di schiavitù con il cibo che la gola o la linea, non aveva importanza, potevano imporre all'umanità sazia.
Per il professore il cibo era molto di più. Era «qualcosa con cui si ha a che fare tre volte al giorno», almeno nei casi più fortunati, e dunque degno di essere studiato come fenomeno economico, sociale, storico e solo alla fine, in quanto completamento di un sapere, gastronomico. «Non sono un ricettatore», ripeteva. E detestava cordialmente chi perdeva tempo a magnificare la virtù di un condimento o di una cottura. Sapeva far da mangiare e amava mangiare, ma non apparteneva al fanatismo purista di Slow Food. Le quotazioni assurde del lardo o del polpo lo lasciavano esterrefatto. La banalità della frittura di riviera, totani e gamberi, lo avviliva sinceramente. E riusciva invece ad entusiasmarsi per i sugarelli bolliti, le sarde alla piastra, la trippa al verde, i piatti «dei poveri» che non erano affatto poveri e richiedevano pazienza, sapienza, amore.
Allo stesso tempo non alzava il sopracciglio di fronte alle orate e ai branzini di allevamento, «che hanno finalmente portato il pesce sulla tavola dei meno abbienti». E non disdegnava il fast-food. L'uomo, ancorché disincantato, era di sinistra.
Era bello accompagnare il professore nelle botteghe dove un chilo di carne di bue, o uno stoccafisso, non erano soltanto merce o alimenti ma racconti: di pascoli e di pescherecci, di artigianato e di commerci, di usi e di costumi.
Ci piace ricordarlo così, sacerdote laico della sacralità del cibo, appassionato cultore della vita: e adesso assiso alla mensa del Padre.

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