[NuovoLab] NOI, QUELLI DI VIA TOLEMAIDE!

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Szerző: megu
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Tárgy: [NuovoLab] NOI, QUELLI DI VIA TOLEMAIDE!

L'appello che segue e' stato reso pubblico sabato 20 ottobre a Genova,
presso il Teatro degli Zingari
della Comunita' San Benedetto al Porto, durante l'incontro pubblico con
Porota e Cela delle Madri di Plaza de Majo e a loro consegnato direttamente
in attesa dell'adesione di Hebe de Bonafini.



NOI, QUELLI DI VIA TOLEMAIDE

E’ vero, vi è una storia delle lotte, dei movimenti, delle persone e una
storia del potere.
Su questo non vi è dubbio e Genova lo conferma.
La storia del potere è spesso scritta per via giudiziaria.
I pubblici ministeri che hanno accusato di devastazione e saccheggio 25
manifestanti e che mantengono, per ora, nei loro cassetti centinaia di
procedimenti aperti contro altrettanti partecipanti alle manifestazioni
contro il g8, sintetizzano bene nelle loro requisitorie questa pratica.
Riscrivere, modificare, stravolgere ciò che è accaduto per tentare non
solo di cambiarne il senso, ma anche per rimuovere quelle anomalie che
rappresentano il segno tangibile della crisi di un sistema. Riscrivere la
storia a proprio uso e consumo, infatti, non è solo un vecchio vizio di
chi comanda, è anche la misura di quanto questa democrazia, in crisi
profonda e irreversibile, abbia la necessità di creare artificiosamente
attorno a sé quella legittimazione che non c’è più.
Le roboanti parole, scelte con sapienza da questo o quel servitore dello
Stato, pronunciate nelle aule di un Tribunale, dovrebbero coprire quello
che centinaia di migliaia di persone hanno vissuto, e che in milioni già
conoscono.
Quelle parole, diventeranno storia ufficiale quando saranno scritte nero
su bianco, in calce a condanne ad anni di carcere per chi ha avuto la
sfortuna di essere stato scelto come capro espiatorio e la colpa di essere
stato a Genova il 19, 20 e 21 luglio del 2001 a contestare il G8.
L’archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, è stato il primo
capitolo
della storia di Genova, scritta per il potere dai tribunali.

Tuttavia commetteremmo un grave errore a pensare che la questione si
esaurisca così, in maniera semplificata.
Nella requisitoria dei pubblici ministeri, e nella gestione del processo
di Genova, traspare ben di più che la sola conferma di un vecchio assunto,
con cui tutti i movimenti di lotta hanno avuto a che fare. Innanzitutto
per un fatto molto semplice: la storia del potere e quella “sociale”, non
viaggiano parallele, ma si scontrano, confliggono.
Ed è la forza con cui avviene questo impatto, che determina il risultato.
Se si lascia spazio a ciò che il “sistema democratico”, dal parlamento
ai
tribunali, vuole produrre su Genova, ecco che il risultato sarà sempre a
favore del mantenimento del potere e di chiusura per i movimenti, quelli
di allora, e soprattutto quelli che verranno.
Il secondo grave errore sarebbe pensare che anche la storia di movimento
sia scritta nero su bianco. Sia statica, depositata, perenne.
Non è così.
Questa storia è viva, a differenza di quella scritta dai tribunali, e
cresce, oppure diventa invisibile, carsica, frantumata, insieme a chi l’ha
vissuta.
Dopo le giornate di Genova, nessuno di noi, di quelli che in maniere
diverse hanno contribuito a costruire quella straordinaria insorgenza, che
come tutte le cose vere ha fatto i conti anche con le tragedie, ha saputo
riprendere parola con forza.
Alcuni perché, dopo quell’esperienza di rivolta, molto semplicemente
hanno
preferito tornare, o saltare, nel solco della “politica ufficiale”, nei
parlamenti e nei partiti.
Altri perché, a volte, la pratica dei movimenti, ti porta in strade nuove,
difficili da sperimentare, piene di dubbi ed incertezze.
In generale non siamo stati capaci di assumere i processi contro alcuni di
noi, come fatto politico fondamentale, e abbiamo troppo spesso permesso
quindi, che la nostra storia fosse scritta da altri.

Ma cosa significa riprendere la parola con forza?
Crediamo che abbia poco a che fare con il semplice parlare, denunciare,
testimoniare.
Questo, certo, è il minimo, ma come abbiamo visto, se non vi è qualcosa
in
più, qualcosa che diventi motore di tutto il resto, anche quello che si da
per scontato, viene inghiottito in una routine che diventa in fretta
incapacità.
E’ un’idea forza che ha prodotto Genova, non la sommatoria di chi vi
partecipava.
Ed è dalla nostra idea forza, quella di Via Tolemaide, che noi vogliamo
contribuire a rimettere al centro ciò che Genova ci ha consegnato.

In questi giorni i pubblici ministeri hanno chiarito bene qual è la chiave
che lo stato vuole usare per la criminalizzazione del movimento di genova.
Il nodo di via Tolemaide, che è stato anche il corteo più partecipato di
quei giorni, è l’anomalia che chi riscrive la storia dal punto di vista
del potere, deve attaccare.
Attorno alla moltitudine degli oltre ventimila di via Tolemaide e del
Carlini, a ciò che ha generato l’attacco dei carabinieri, ruotano tutti i
fatti del 20 di luglio, compreso l’omicidio di Carlo.
Quella moltitudine aveva fatto una scelta precisa: disobbedire
all’imposizione della zona rossa, che era il simbolo concreto di tutto il
potere esercitato dal G8 in quei giorni.
Questa scelta era stata resa pubblica.
La disobbedienza, la violazione della legge, era divenuta spazio pubblico
e direttamente costituente per una enorme comunità di soggetti, singoli e
collettivi.
Vedendo oggi ciò che stanno facendo i compagni di Copenhagen, o quello che
è successo a Rostock, si ha la dimensione, spaziale e temporale, di quanto
quella scelta, rinnovata ed arricchita, sia divenuta pratica di movimento.
E non si tratta della “forma di lotta”, anche se le tecniche, ad esempio
quella degli scudi, le abbiamo viste ormai ovunque utilizzate, ma del
paradigma della disobbedienza.
La scelta di violare la zona rossa, di dichiararlo pubblicamente e quindi
di non “clandestinizzare” né le pratiche né il processo di costruzione
di
questo percorso, è parte di questa anomalia attaccata dai tribunali e
dallo stato.
I ventimila di via Tolemaide sono stati possibili grazie a questo.
E questa scelta, l’essere in tanti e costituirsi a partire da una pratica
condivisa e non da altro, oggi la ritroviamo in molte esperienze di
resistenza che accompagnano movimenti veri che si battono contro le basi o
contro il tav.
Ma aver trasformato il proprio obiettivo in uno spazio pubblico
costituente, porta ad un’altra incompatibilità per lo stato, che poi i
giudici nei tribunali tentano di criminalizzare: il consenso.
Il corteo di via Tolemaide, e l’esperienza del Carlini, potevano contare
di un appoggio, anche solo in termini di opinione, che andava molto oltre
il numero dei partecipanti.
E’ possibile per il potere ammettere questa stranezza?
Si può essere cattivissimi, ferocissimi, ma bisogna essere pochi, isolati
da tutti, costituenti solo della propria sconfitta: questo è compatibile.
Anzi, al di là della volontà dei protagonisti, alcune volte generosi e
riempiti di anni di carcere, lo stato assegna un ruolo a tutto ciò, come
lo assegna alla testimonianza e alla denuncia.
L’importante è che il risultato finale rafforzi le istituzioni, e il loro
precario legame con legittimità e consenso.
Ma se il consenso si incardina per un attimo a qualcosa che prelude a una
non accettazione delle leggi, dell’ordine costituito, e lo pratica
collettivamente?
Via Tolemaide era anche questo.

Un altro nodo, fondamentale, è ciò che è accaduto dopo l’attacco dei
carabinieri.
L’esercizio di un diritto di resistenza, spontaneo, diretto, diffuso.
La disobbedienza non si è trasformata in un gioco di ruolo, appunto.
Nelle distorsioni spesso operate da chi, anche all’interno di quel
percorso, parlava di disobbedienza ma pensava al governo, la disobbedienza
ha rischiato di morire rinsecchita varie volte.
Prima perdendo la sua originalità legata al contesto che l’aveva
prodotta,
e richiamandosi a modelli “storici”: come dire che la nonviolenza dei
movimenti birmani è la stessa cosa di quella propagandata da certi
parlamentari italiani, che votano le guerre tralaltro.
Poi rischiando di diventare un feticcio, un’identità chiusa e pesante,
fondata sulle tecniche di lotta più che su un sentire comune.
Via Tolemaide, con l’esercizio da parte della disobbedienza, del diritto
di resistenza, ha spazzato via tutti i tentativi di questo tipo.
La disobbedienza non poteva più essere considerata né un modello, né una
forma.
Oggi in Italia ed in Europa ci sembra dimostrato che si tratta
dell’assunzione di un percorso, che può avere forme e modi diversi ed
articolati, e trova il suo fondamento in alcune linee di tendenza. Dal
Carlini si è partiti con un obiettivo: agire con la disobbedienza.
Ci si è ritrovati a resistere, con ogni mezzo possibile, alla furia cieca
e di annientamento, che nessuno aveva potuto prevedere in quei termini,
che carabinieri e polizia hanno scaricato contro quel corteo.
Questo è stato un passaggio naturale, ed è per questo che la resistenza
di
quel corteo, rivendicata collettivamente fino in fondo, è per lo stato, i
tribunali e le istituzioni, difficile da digerire.
Ed è in quel contesto che va letto l’omicidio di Carlo.
In assenza quindi di facili strumentalizzazioni possibili, in quel caso lo
stato ha scelto l’archiviazione.
E’ questo il nodo che si tenta di annullare con il processo di Genova.
Perché parla agli altri movimenti, quelli di oggi e quelli di domani, e lo
fa con speranza e determinazione, con rabbia e lucidità.
Via Tolemaide ha messo in difficoltà il potere, e per questo bisogna
tentare di riscriverne la storia, facendola rientrare in un contesto
compatibile.
A Genova con l’assunto: “In Via Tolemaide erano tutti violenti”, a
Cosenza
con l’imputazione di “associazione sovversiva composta da oltre ventimila
aderenti”.
Con questa idea forza dobbiamo riprendere la nostra corsa che è stata
interrotta lì, in quella via di Genova, in quella piazza poco distante
bagnata del sangue di uno di noi.
Altri hanno ripreso a correre, in Germania, in Danimarca, in Val di Susa,
a Vicenza. Sappiamo da dove partire per raggiungerli.
Dalla difesa di tutti i compagni sotto processo, dal riconoscere ciò che
ci ha consegnato Genova, da Via Tolemaide.

Sottoscriviamo quanto sopra per prendere un impegno, quello di
organizzare, durante il ritiro in camera di consiglio dei giudici del
processo di Genova, una mobilitazione.
La sentenza, cioè il tentativo di riscrivere la storia dal punto di vista
del potere, deve trovare un contrasto diretto da parte di tutti coloro che
in quei giorni del 2001 scesero in strada nonostante le minacce,
l’arroganza, la violenza scatenata contro chi voleva cambiare.
Iniziamo noi, con i nostri nomi e cognomi, perché innanzitutto qui vi è
la
scelta, personale e politica, di continuare a batterci per una verità che
non sia addomesticata, che non sia occasione per chiudere ulteriormente
gli spazi dei movimenti e del dissenso in questo paese.
Ma facciamo da subito appello a tutti, singoli e realtà collettive,
perché
aderiscano alle iniziative che si proporranno.
Perché tutti i compagni processati a Genova siano liberi, perché la
storia
del potere non sia un ostacolo alla corsa di tutti, quelli che c’erano e
quelli che verranno, verso la libertà.
Con Carlo nel cuore.

Don Andrea Gallo (Fondatore Comunita' San Benedetto al Porto-Genova)
Valeria Cavagnetto (Genova) Vladia Ghillino (Genova) Milena Zappon
(Genova) Domenico Chionetti (Genova) Simone Savona (Genova) Luciano
Bregoli (Genova) Luca Oddone (Genova) Paolo Languasco (Genova) Matteo Jade
(Genova) Luca Daminelli (Genova)
Luca Casarini ( Marghera - imputato a Cosenza) Tommaso Cacciari (Venezia)
Michele Valentini (Marghera) Max Gallob (Padova) Vilma Mazza (Padova)
Duccio Bonechi (Padova-imputato a Genova) Federico Da Re ( Padova-imputato
a Genova) Cristian Massimo (Monfalcone) Donatello Baldo (Trento) Domenico
Mucignat ( Bologna) Gianmarco De Pieri (Bologna) Manila Rizzi (Rimini)
Daniele Codelupi (Reggio Emilia) Claudio Sanita (Alessandria) Luca
Corradini (Milano) Silvia Liscia (Milano) Francesco Raparelli (Roma)
Francesco Brancaccio (Roma) Emiliano Viccaro (Roma) Luca Blasi (Roma)
Antonio Musella (Napoli)


PER ADESIONI:

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