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Autor: Edoardo Magnone
Data:  
A: forumgenova
Assumpte: [NuovoLab] Democrazia ma non solo: è partita la corsa alle ricchezze di Myanmar


http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Settembre-2007/art18.html


Democrazia ma non solo: è partita la corsa alle ricchezze di Myanmar

Le manovre interne alla giunta militare e alla comunità buddista birmana e
thailandese. La posta in palio è grossa: Cina, India, occidente se la
contendono

PIERGIORGIO PESCALI

«Una rivoluzione gandhiana». Così, un esponente della Lega Nazionale per la
Democrazia (Nld con la sua sigla in inglese) contattato per telefono a Bangkok,
ha voluto definire la lunga serie di manifestazioni che stanno sconvolgendo la
vita sociale e politica del Myanmar.
La rivoluzione delle toghe porpora, bisognerebbe aggiungere. Perché a differenza
delle rivolte avvenute nel 1988 in quella che allora si chiamava ancora Rangoon,
in cui studenti e membri politici della Nld presero parte attiva, quelle odierne
sono organizzate da monaci buddisti.
E' anche per questo che il massacro di civili non ha ancora toccato i livelli di
massa paventato da molti mass media, lo stesso che aveva posto fine alle rivolte
di vent'anni fa, quando con la complice indifferenza dell'occidente, migliaia di
dimostranti vennero uccisi e altrettanti infossati nelle carceri birmane.
Ma come è possibile che in pochi giorni, si possa organizzare e radunare una
così grande massa di persone e, in particolare di monaci? Viaggiare nel Myanmar
non è né facile né economico per la gente comune, specialmente nella stagione
delle piogge. E' inoltre impossibile che militari e amministratori locali non
si siano accorti di trasferimenti così massicci in un Paese dove tutto è
controllato minuziosamente e dove le spie del regime sono infiltrate in ogni
antro della vita sociale e religiosa.
Ciò che sta accadendo oggi sembra invece essere il risultato di una lunga e
minuziosa opera di preparazione durata diversi mesi con la partecipazione
attiva di diverse organizzazioni internazionali. Paradossalmente aveva ragione
The New Light of Myanmar, il giornale dei generali, quando, ancora alla metà di
agosto, affermava che le manifestazioni erano opera di «elementi esterni che
vogliono destabilizzare il Paese».
Perché biasimare una delle pochissime cose sensate e veritiere che si sono mai
lette su questo giornale? Non è un mistero per nessuno che tra i vertici del
sangha (la comunità buddista) thailandese e birmana non scorra buon sangue. I
leaders del clero birmano sono stati accuratamente scelti dai militari e sin
dall'inizio si sono sempre schierati contro le dimostrazioni chiedendo più
volte ai monaci di rientrare nelle pagode. Viceversa, nei monasteri thailandesi
si sono svolte giornate di preghiera per i fratelli birmani.
Inoltre chi si fosse recato in Birmania nei mesi immediatamente precedenti le
rivolte, non avrebbe potuto fare a meno di notare il vertiginoso aumento delle
delegazioni di monaci delle due nazioni che andavano e venivano tra i due
Paesi.
E' chiaro, anche, che la rivolta delle toghe porpora, non è fine a se stessa.
Ci sono molti governi, in particolare occidentali, che aspettano con ansia che
venga aperta una porta per poter entrare nel paese senza destare un turbinio di
polemiche e fare manbassa delle sue enormi ricchezze naturali. I monaci, dopo il
fallimento delle rivolte politiche del 1988, rappresentavano la componente
sociale più sicura affinché non si ripetesse quella stessa carneficina.
In questo campo Cina e occidente si sono trovati dalla stessa parte. Pechino non
vede di buon occhio il generale Than Shwe, il leader della giunta militare
birmana, considerato filo-indiano, preferendo un generale moderato e
filo-cinese, che garantisse l'avvio del processo democratico e il dialogo con
la leader riconosciuta del dissenso, Aung San Suu Kyi, per rendere il regime
accettabile anche all'occidente e dare prova, alla vigilia delle olimpiadi di
Pechino del prossimo anno, della buona volontà dei cinesi di proseguire nella
via della liberalizzazione.
La democratizzazione del Myanmar porrebbe anche fine all'imbarazzante situazione
di numerosi Paesi europei che, pur invocando il boicotaggio, continuano ad avere
enormi interessi nella nazione asiatica. Sono oramai decine le multinazionali
che hanno sfidato l'embargo investendo nel Paese: la francese Total, insieme
alla malese Petronas, garantisce un miliardo di dollari l'anno, mentre
Singapore ha insufflato un miliardo e seicento milioni di dollari in
settantadue progetti turistici d'élite in cui l'Italia partecipa massicciamente
con diversi tour operator.
E' grazie a tutti questi progetti che le riserve monetarie birmane sono state
rimpinguate: secondo il Fondo mometario internazionale ammonterebbero ora a un
milione di dollari (nel 1988 erano solo ottantanove milioni).
L'avvio della «road to democracy» potrebbe eliminare tutte queste incongruenze,
consegnando all'economia di mercato un altro Paese da sfruttare.