著者: Rosario Gallipoli 日付: To: forumlecce 題目: [Lecce-sf] Fw: [antiamericanisti] Acqua, luce, confini. Così Tel Aviv controlla la Striscia
il manifesto del 20 Settembre 2007
Acqua, luce, confini. Così Tel Aviv controlla la Striscia
Occupante occulto Anche dopo il ritiro, Tel Aviv mantiene il controllo
dei valichi di frontiera e delle forniture elettrice e idriche di Gaza
Michele Giorgio
Gerusalemme
Con una decisione senza fondamento legale, Israele si prepara ad
avviare azioni punitive, ad ogni livello, militari e civili, contro la
popolazione di Gaza. L'intento evidente è quello di punire, e nel modo
più severo, che non ha precedenti, i palestinesi di Gaza allo scopo di
«persuaderli» a rinunciare al loro sostegno al movimento islamico
Hamas che dallo scorso giugno controlla interamente la Striscia. Gaza
è una «entità nemica», ha deciso ieri il gabinetto di sicurezza
presieduto da Ehud Olmert a poche ore dall'arrivo a Gerusalemme del
Segretario di stato Condoleezza Rice incaricata di preparare il
terreno all'incontro sul Medio Oriente che gli Usa stanno organizzando
a Washington tra lo scetticismo crescente di arabi e palestinesi.
La dichiarazione di «entità nemica» è formula che si adotta verso gli
stati - e Gaza certo non lo è - ma che Israele vuole utilizzare
ugualmente per liberarsi le mani delle condizioni imposte dal diritto
umanitario e, forse, per lanciare una ampia operazione militare volta
rioccupare in modo permanente porzioni di territorio palestinese. Ad
un «nemico» non si forniscono servizi e così Olmert ora crede di poter
tagliare liberamente elettricità e rifornimenti di carburante, senza
per questo subire critiche. Si tratta però di una illusione, perché
Gaza, dove vivono circa 1,5 milioni di palestinesi in meno di 400
chilometri quadrati di territorio, era e resta un territorio occupato
dal punto di vista delle leggi internazionali.
Il ritiro unilaterale di due anni fa di coloni e soldati israeliani,
non ha rappresentato la fine dell'occupazione perché lo stato ebraico
continua a controllare tutti i valichi da e per la Striscia, lo spazio
aereo, le acque territoriali di Gaza e persino il registro della
popolazione palestinese (come in Cisgiordania). L'Anp, ad esempio, non
può consegnare alcun documento di identità ai residenti a Gaza senza
il via libera di Israele. I movimenti al valico di Rafah, tra Gaza e
l'Egitto, sino quando è rimasto operativo, erano scrupolosamente
seguiti da Israele (e dagli osservatori dell'Unione europea) che aveva
diritto di intervenire per chiedere il fermo di determinate persone.
Israele in ogni caso ha deciso di andare avanti, incurante del fatto
che l'interruzione dell'energia elettrica e dei rifornimenti di
carburante, più volte applicata in modo intermittente in passato, se
attuata in modo permanente avrebbe conseguenze immediate e devastanti.
Le riserve di benzina a Gaza da tempo sono ridotte al minimo e,
quindi, nel giro di qualche giorno potrebbero fermarsi gli automezzi
di soccorso. La mancanza di carburante non permetterebbe inoltre il
funzionamento dei generatori autonomi di elettricità necessari per gli
ospedali, le scuole e le altre strutture pubbliche. Insomma sarebbe un
disastro. «Siamo molto preoccupati per i civili palestinesi e ci
auguriamo che il governo israeliano non applichi le decisioni che ha
annunciato», ha detto il portavoce dell'Unrwa Chris Gunnes. «Le
condizioni di vita della popolazione sono molto difficili e i civili
stanno affrontando problemi gravi. Il taglio dell'energia avrebbe
perciò un forte impatto su 1,5 milioni di persone già molto provate.
Gaza è isolata da mesi, il 35% della popolazione vive sotto la soglia
di povertà e il 45% dei lavoratori non ha una occupazione», ha aggiunto.
«A chi gioverebbe questa punizione collettiva?», si chiede Yoav Stern,
un analista del quotidiano Haaretz «In una situazione del genere per
Hamas sarà facile accusare Abu Mazen di negoziare con Israele mentre
tutta Gaza soffre». «La strategia israeliana è evidente ma non è detto
che sia destinata a dare i risultati che Olmert sogna - aggiunge Stern
- se a pagare il prezzo più alto sarà la popolazione, è difficile che
Abu Mazen possa avvantaggiarsi in qualche modo rispetto ad Hamas, al
contrario verrà certamente accusato di aver retto il gioco del nemico».
Secondo Stern, Israele lancerà attacchi militari «ma non rioccuperà
Gaza, perché nessuno nel paese vuole un ritorno alla situazione di due
anni fa, prima del ritiro unilaterale dalla Striscia». Lo stato
ebraico, sostiene l'analista, «punterà gran parte della sua azione
proprio sulle privazioni, sulla penuria di energia e di generi di
prima necessità, nella speranza che la popolazione cambi idea e non
appoggi più il movimento islamico». Mi. Gio.
Un unico Stato per israeliani e palestinesi in una confederazione di
stati mediorientali: questa, secondo l'antropologo e urbanista Jeff
Halper, 61 anni, coordinatore del Comitato israeliano contro la
demolizione delle case (Icahd), è l'unica strada affinché Israele
diventi una vera democrazia. Abbiamo incontrato Halper prima di una
conferenza a Palazzo Ducale organizzata dal Genoa Social Forum. Qui ha
spiegato in che cosa consiste quella che lui chiama «disobbedienza
civile pacifica»: ostacolare i bulldozer che demoliscono le case
palestinesi in Israele e nei territori occupati e rimetterle in piedi
il più presto possibile.
Quali saranno le prossime mosse del suo Ichad?
Dal '67 a oggi sono state demolite 18mila case palestinesi. Da qui a
giugno vogliamo ricostruirne 300 a Gerusalemme est e in Cisgiordania.
Purtroppo non possiamo operare a Gaza perché non abbiamo possibilità
d'accedere alla Striscia.
Pochi giorni fa alle Nazioni Unite a New York ha parlato di apartheid,
così ha fatto l'editorialista del quotidiano Ha'aretz Danny Rubinstein
a Bruxelles. Queste affermazioni possono influenzare l'opinione
pubblica israeliana?
No. La gente è stata convinta dai suoi leader che non c'è soluzione
politica al conflitto e in questo modo è stata delegittimata. Al
momento Israele ha l'illusione di vincere: ha l'appoggio degli Usa,
l'Europa è passiva, la Palestina isolata e ci sono accordi di pace con
gli stati arabi confinanti. A questo punto solo una pressione
internazionale può costringere Israele ad abbandonare l'occupazione.
Apartheid non è uno slogan. Prima di tutto c'è una separazione reale,
infatti Israele chiama la sua politica hafradah (separazione in
ebraico) e il muro viene definito barriera di separazione. In secondo
luogo una popolazione domina l'altra. Terzo, Israele punta ad avere
oltre l'80% del paese e a lasciare ai palestinesi piccoli cantoni
frammentati da colonie, strade e presidi militari. Questo che cosa è
se non apartheid?
Quindi è pessimista anche sulla prossima conferenza di pace a
Washington a novembre...
Certo, passerà il progetto di uno stato palestinesi transitorio che di
fatto sarà uno stato virtuale senza confini, senz'acqua, senza
un'economia, né un accesso vero a Gerusalemme. Però tutti saranno
contenti e diranno che i palestinesi finalmente hanno uno stato. Di
fatto ci stanno prendendo in giro come è successo con l'accordo di Oslo.
Durante la recente espulsione di alcune famiglie ad Hebron, a
proposito dei soldati che si rifiutavano di eseguire gli ordini
dell'Idf (l'esercito israeliano), si è parlato di «sionismo
religioso». Che cosa ne pensa?
Il 40% dei soldati oggi si professa credente. Una volta la matrice
laica era più marcata, tanta gente arrivava dai kibbutz. Negli ultimi
tempi il paese va sempre più a destra, i religiosi si rafforzano e
molti laici stanno lasciando il paese. Così i coloni diventano il
mainstream e i soldati non li vogliono sgomberare.
Lo sgombero dell'avamposto di colonia di Migron (43 famiglie)
costruito su terreni di proprietà araba sta per arrivare davanti alla
Corte Suprema. Ma il Governo è riuscito a rimandare l'udienza. Come
procede il cosiddetto piano di sgombero delle colonie?
Non penso che il Governo interverrà sulle colonie, farà piuttosto
qualche gesto simbolico. Si parla di sgomberare 26 piccoli
accampamenti, ma in Cisgiordania ce ne sono più di 100, quindi stiamo
parlando di niente.
Negli ultimi tempi Lei promuove la soluzione di un unico Stato per
palestinesi e israeliani. Perché?
L'unico percorso per arrivare a una vera democrazia è un unico stato
per i due popoli inserito in una confederazione di stati mediorientali
(Israele, Libano, Siria, Giordania) qualcosa di simile all'Unione
europea di 30 anni fa, con accordi per lo più economici che permettano
l'esistenza degli stati e nello stesso tempo diano un'identità ai
palestinesi, liberi di muoversi all'interno della confederazione. Ma
non sarà più uno stato ebraico e per questo Israele e anche la
comunità internazionale avversano fortemente questa ipotesi. D'altra
parte è l'unica percorribile. La soluzione di due popoli in due stati
ormai non è più praticabile.