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LA VERA STORIA DI DON PIERINO "QUATTRO ANNI PASSATI IN CARCERE"

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reporter - Inviata il 7/8/2007 - Ore: 11:02      


Don Gelmini: la vera
storia

Questo è l’articolo di Francesco Grignetti apparso su La Stampa
che ricostruisce il passato del prete in lotta contro la droga che in
giardino aveva una Jaguar: per due volte finì dietro le sbarre con
accuse di truffa e bancarotta fraudolenta

LA VERA STORIA DI DON
PIERINO "QUATTRO ANNI PASSATI IN CARCERE"

Milano, 5 agosto 2007- C’è
stato un altro don Pierino prima di don Pierino. Un prete che ha sempre
sfidato le convenzioni, ma che di guai con la giustizia ne ha avuti
tanti, ed è pure finito in carcere un paio di volte. A un certo punto è
stato anche sospeso «a divinis», salvo poi essere perdonato da Santa
Romana Chiesa.

E’ il don Gelmini che non figura nelle biografie
ufficiali. I fatti accadono tra il 1969 e il 1977, quando don Pierino
era ancora considerato un «fratello di». Una figura minore che viveva
di luce riflessa rispetto al più esuberante padre Eligio, confessore di
calciatori, amico di Gianni Rivera, frequentatore di feste, fondatore
delle comunità antidroga «Mondo X» e del Telefono Amico.

Anni che
furono in salita per don Pierino e che non vengono mai citati nelle
pubblicazioni di Comunità Incontro. Per forza. Era il 13 novembre 1969
quando i carabinieri lo arrestarono per la prima volta, nella sua villa
all’Infernetto, zona Casal Palocco, alla periferia di Roma. E già all’
epoca fece scalpore che questo sacerdote avesse una Jaguar in giardino.

Lui, don Pierino, nella sua autobiografia scrive che lì, nella villa
dell’Infernetto, dopo un primissimo incontro-choc con un drogato, tale
Alfredo, nel 1963, cominciò a interessarsi agli eroinomani. In tanti
bussavano alla sua porta. «Ed è là che, ospitando, ancora senza tempi o
criteri precisi, ragazzi che si rivolgono a lui, curando la loro
assistenza legale e visitandoli in carcere, mette progressivamente a
punto uno stile di vita e delle regole che costituiranno l’ossatura
della Comunità Incontro».

All’epoca, Gelmini aveva un certo ruolo
nella Curia. Segretario di un cardinale, Luis Copello, arcivescovo di
Buenos Aires. Ma aveva scoperto la nuova vocazione. «Rinunciai alla
carriera per salire su una corriera di balordi», la sua battuta
preferita.

I freddi resoconti di giustizia dicono in verità che fu
inquisito per bancarotta fraudolenta, emissione di assegni a vuoto, e
truffa. Lo accusarono di avere sfruttato l’incarico di segretario del
cardinale per organizzare un’ambigua ditta di import-export con l’
America Latina. E restò impigliato in una storia poco chiara legata a
una cooperativa edilizia collegata con le Acli che dovrebbe costruire
palazzine all’Eur. La cooperativa fallì mentre lui rispondeva della
cassa. Il giudice fallimentare fu quasi costretto a spiccare un mandato
di cattura.

Don Pierino, che amava farsi chiamare «monsignore», e per
questo motivo si era beccato anche una diffida della Curia, sparì dalla
circolazione. Si saprà poi che era finito nel cattolicissimo Vietnam
del Sud dove era entrato in contatto con l’arcivescovo della cittadina
di Hué. Ma la storia finì di nuovo male: sua eminenza Dihn-Thuc, e
anche la signora Nhu, vedova del Presidente Diem, lo denunciarono per
appropriazione indebita. Ci fecero i titoloni sui giornali: «Chi è il
monsignore che raggirò la vedova di Presidente vietnamita».

Dovette
rientrare in Italia. Però l’aspettavano al varco. Si legge su un
ingiallito ritaglio del Messaggero: «Gli danno quattro anni di carcere,
nel luglio del ‘71. Li sconta tutti. Come detenuto, non è esattamente
un modello e spesso costringe il direttore a isolarlo per evitare
“promiscuità” con gli altri reclusi». Cattiverie.

Fatto sta che le
biografie ufficiali sorvolano su questi episodi. Non così i giornali
dell’epoca. Anche perché nel 1976, quando queste vicende sembravano
ormai morte e sepolte, e don Pierino aveva scontato la sua condanna,
nonché trascorso un periodo di purgatorio ecclesiale in Maremma, lo
arrestarono di nuovo.

Questa volta finì in carcere assieme al
fratello, ad Alessandria, per un giro di presunte bustarelle legate all’
importazione clandestina di latte e di burro destinati all’Africa. Si
vide poi che era un’accusa infondata. Ma nel frattempo, nessuna testata
aveva rinunciato a raccontare le spericolate vite parallele dei due
Gelmini. Ci fu anche chi esagerò. Sul conto di padre Eligio, si scrisse
che non aveva rinunciato al lusso neppure in cella.

Passata quest’
ennesima bufera, comunque, don Pierino tornò all’Infernetto. Sulla
Stampa la descrivevano così: «Due piani, mattoni rossi, largo muro di
cinta con ringhiera di ferro battuto, giardino, piscina e due cani: un
pastore maremmano e un lupo. A servirlo sono in tre: un autista, una
cuoca di colore e una cameriera».

Tre anni dopo, nel 1979, sbarcava
con un pugno di seguaci, e alcuni tossicodipendenti che stravedevano
per lui, ad Amelia, nel cuore di un’Umbria che nel frattempo si è
spopolata. Adocchiò un rudere in una valletta che lì chiamavano delle
Streghe, e lo ottenne dal Comune in concessione quarantennale. Era un
casale diroccato. Diventerà il Mulino Silla, casa-madre di un movimento
impetuoso di comunità.

Gli riesce insomma quello che non era riuscito
al fratello, che aveva anche lui ottenuto in concessione (dal
proprietario, il conte Ludovico Gallarati Scotti, nel 1974) un rudere,
il castello di Cozzo Lomellina, e l’aveva trasformato, grazie al lavoro
duro di tanti volontari e tossicodipendenti, in uno splendido maniero.
Ma ormai la parabola di padre Eligio era discendente. Don Pierino,
invece, stava diventando don Pierino.

Francesco Grignetti