È morto Giovanni Pesce, il gappista Visone 
Wladimiro Settimelli
Come per tutti i ragazzini, le grandi imprese, il coraggio, la determinazione, 
l'impugnare una pistola in pieno giorno e andare all'attacco, richiedevano 
sempre un uomo grande e grosso, un eroe alto e massaccio, senza paura e pronto a 
scattare al minimo pericolo. Invece, Giovanni Pesce, medaglia d'oro della 
Resistenza, comandante dei Gap - i gruppi patriottici che attaccavano i nazisti 
e i repubblichini tra la gente, per strada, sul tram o in treno - era piccolino, 
tranquillo, silenzioso. Insomma, non parlava mai più del necessario e quando lo 
faceva erano parole senza ostentazione, protervia o sciocche vanterie. Quando lo 
aveva visto la prima volta, da ragazzo appunto, ero quasi rimasto deluso. Poi, 
con il trascorrere degli anni, avevo capito e , in più di una occasione mi ero 
fermato a chiacchierare con lui a lungo, nella speranza di capirne fino in fondo 
la mente, il cuore, le scelte, la paura e la tragedia: quella di dovere sparare 
a qualcuno, per strada, senza battere ciglio.
L'altra notte Giovanni Pesce, nome di battaglia «Visone», è morto a casa sua, a 
Milano, assistito dalla moglie Onorina, nome di battaglia «Sandra», la cara 
staffetta che, nel 1943, era l'unica a poterlo avvicinare per consegnare gli 
ultimi ordini del Comitato di Liberazione nazionale e della direzione del Pci. 
Già, perché il più famoso gappista d'Italia era comunista e veniva da una 
famiglia antifascista abituata al lavoro e alla sofferenza.
La biografia di Giovanni ha dell'incredibile. Quando lui raccontava di quella 
sua vita complicata e diversa dal solito, potevi stare ore ad ascoltarlo. Era 
nato nel 1918 a Visone D'Acqui, in provincia di Alessandria. Il padre, presto, 
molto presto, era stato costretto ad andarsene da casa e ad emigrare in Francia 
con tutta la famiglia. I fascisti non davano tregua. Erano finiti in un paesetto 
con le miniere e Giovanni, nella piccola vineria aperta dal padre, trascorreva 
ore e ore con «musi neri». A volte, qualcuno finiva lo stipendio cercando di 
soffocare nel bere la miseria e la nostalgia. Ecco Pesce, ascoltava sempre quei 
minatori e da loro imparava e capiva. Poi, anche lui, a quattordici anni, era 
finito giù nelle gallerie per quattro soldi.
Il giorno che l'Italia fascista aveva attaccato la Francia ormai messa alle 
corde dai nazisti, lo avevano trasferito in un campo di prigionia. Poi il 
rientro, da solo, a Visone. Una spiata lo aveva fatto finire in carcere e poi al 
confino di Ventotene , dove aveva conosciuto Pertini, Terracini e tanti, tanti 
altri compagni.
Nel 1943, con il crollo del fascismo, «Visone» era tornato di nuovo a casa. Poi, 
il partito lo aveva mobilitato per fondare i Gap a Torino. Ma il lavoro più duro 
e difficile lo avrebbe, più tardi, affrontato a Milano. Era stato inviato in 
Lombardia per occuparsi delle grandi fabbriche perché fascisti e nazisti 
terrorizzavano gli operai. Centinaia di loro venivano, tra l'altro, trasferiti 
nei campi di sterminio. E guai a protestare o scioperare. C'erano, tra gli 
addetti alle macchine di alcune grandi industrie, capi e capetti che facevano la 
spia. O personaggi che, per una manciata di soldi e qualche chilo di sale (che 
Italia terribile e piena di odio e di terrore in quel '43, '44 e '45) erano 
disposti a vendere chiunque. C'era bisogna, dunque, di una azione forte che 
facesse sentire agli operai che la Resistenza pensava a loro e alla loro 
protezione. Giovanni Pesce, dal nulla, aveva imparato a sparare, Non solo: 
portava sempre addosso due pistole, non una sola. Ed era diventato uno che non 
sbagliava mai un colpo. Viveva isolato in un microscopico appartamento e usciva 
soltanto per l'attacco improvviso e per incontrare altri due o tre compagni dei 
Gap. Ma quando entrava in azione era sempre solo: non si fidava di nessuno.
In uno dei tanti incontri, gli avevo chiesto: «Ma non avevi paura?», e lui: 
«Eccome». Poi aveva ancora spiegato: «Una volta ho detto ai compagni che quel 
comandante dei repubblichini addetto agli arresti nelle fabbriche, non era 
arrivato in ufficio. Invece c'era. Ma io ero stato colto dal tremito e dal 
panico e non avevo fatto nulla. La volta successiva, dopo alcune esitazioni, era 
partito deciso ad assolvere all'incarico. Ero entrato nel bar dove il comandante 
stava facendo colazione. Mi ero avvicinato e avevo spianato la pistola. Per un 
attimo ci eravamo guardati negli occhi. Un attimo che non finiva più. Avevo 
letto in quello sguardo la sua paura, il suo terrore. Poi avevo visto che stava 
mettendo la mano alla pistola. Allora avevo fatto fuoco tre o quattro volte. 
Subito dopo ero uscito e saltato sulla mia bicicletta. Dovevo giustiziare quel 
comandante. Sapevo dei nostri compagni e di tanti innocenti, torturati, 
impiccati, fucilati».
Quante volte hai sparato avevo chiesto a Giovanni. E lui aveva risposto: «Molte, 
molte volte. Non le ho mai contate». Poi ancora aveva aggiunto: «Sai che nel 
dopoguerra, su un tram a Milano, ho incrociato gli occhi con la moglie e figli 
di un famoso spione che avevo liquidato. Ci siamo sfioranti e ognuno e andato 
per conto proprio. Credimi è stata dura. Ammazzare, anche se in guerra e nella 
battaglia più grande per la libertà, non è facile. Ogni volta mi si stringeva il 
cuore».
Nella motivazione della medaglia d'oro, si ricorda che «Visone» era stato, 
insieme a un compagno dei Gap gravemente ferito, inseguito dai nazisti. Lui 
aveva preso sulle spalle quel ferito e, sparando come un pazzo, si era 
dileguato. Pochi giorni dopo, con altri, aveva assalto «Radio Torino» ed era 
riuscito a distruggere parte degli impianti, nonostante la presenza di una 
decina di nazisti e un gruppetto di repubblichini. Imprese incredibili e 
straordinarie.
Nel 1945, a Milano, nei giorni della Liberazione, era stato affrontato da un 
gruppo di ragazzini con il fazzoletto rosso al collo che avevano gridato: 
«Comodo aspettare che i partigiani ti liberino. Comunque, puoi uscire dalla 
cantina dove ti eri rintanato come un topo». Lui non aveva risposto, ma aveva 
sorriso appena, appena per poi girare oltre l'angolo.
Caro «Visone», la tua parte per tutti e per la nostra Italia, l'hai fatta. Un 
abbraccio.
 
Pubblicato il: 27.07.07
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