[Lecce-sf] un saluto a Visone

Delete this message

Reply to this message
Autore: Silverio Tomeo
Data:  
To: social forum
Oggetto: [Lecce-sf] un saluto a Visone
È morto Giovanni Pesce, il gappista Visone
Wladimiro Settimelli


Come per tutti i ragazzini, le grandi imprese, il coraggio, la determinazione,
l'impugnare una pistola in pieno giorno e andare all'attacco, richiedevano
sempre un uomo grande e grosso, un eroe alto e massaccio, senza paura e pronto a
scattare al minimo pericolo. Invece, Giovanni Pesce, medaglia d'oro della
Resistenza, comandante dei Gap - i gruppi patriottici che attaccavano i nazisti
e i repubblichini tra la gente, per strada, sul tram o in treno - era piccolino,
tranquillo, silenzioso. Insomma, non parlava mai più del necessario e quando lo
faceva erano parole senza ostentazione, protervia o sciocche vanterie. Quando lo
aveva visto la prima volta, da ragazzo appunto, ero quasi rimasto deluso. Poi,
con il trascorrere degli anni, avevo capito e , in più di una occasione mi ero
fermato a chiacchierare con lui a lungo, nella speranza di capirne fino in fondo
la mente, il cuore, le scelte, la paura e la tragedia: quella di dovere sparare
a qualcuno, per strada, senza battere ciglio.
L'altra notte Giovanni Pesce, nome di battaglia «Visone», è morto a casa sua, a
Milano, assistito dalla moglie Onorina, nome di battaglia «Sandra», la cara
staffetta che, nel 1943, era l'unica a poterlo avvicinare per consegnare gli
ultimi ordini del Comitato di Liberazione nazionale e della direzione del Pci.
Già, perché il più famoso gappista d'Italia era comunista e veniva da una
famiglia antifascista abituata al lavoro e alla sofferenza.
La biografia di Giovanni ha dell'incredibile. Quando lui raccontava di quella
sua vita complicata e diversa dal solito, potevi stare ore ad ascoltarlo. Era
nato nel 1918 a Visone D'Acqui, in provincia di Alessandria. Il padre, presto,
molto presto, era stato costretto ad andarsene da casa e ad emigrare in Francia
con tutta la famiglia. I fascisti non davano tregua. Erano finiti in un paesetto
con le miniere e Giovanni, nella piccola vineria aperta dal padre, trascorreva
ore e ore con «musi neri». A volte, qualcuno finiva lo stipendio cercando di
soffocare nel bere la miseria e la nostalgia. Ecco Pesce, ascoltava sempre quei
minatori e da loro imparava e capiva. Poi, anche lui, a quattordici anni, era
finito giù nelle gallerie per quattro soldi.
Il giorno che l'Italia fascista aveva attaccato la Francia ormai messa alle
corde dai nazisti, lo avevano trasferito in un campo di prigionia. Poi il
rientro, da solo, a Visone. Una spiata lo aveva fatto finire in carcere e poi al
confino di Ventotene , dove aveva conosciuto Pertini, Terracini e tanti, tanti
altri compagni.
Nel 1943, con il crollo del fascismo, «Visone» era tornato di nuovo a casa. Poi,
il partito lo aveva mobilitato per fondare i Gap a Torino. Ma il lavoro più duro
e difficile lo avrebbe, più tardi, affrontato a Milano. Era stato inviato in
Lombardia per occuparsi delle grandi fabbriche perché fascisti e nazisti
terrorizzavano gli operai. Centinaia di loro venivano, tra l'altro, trasferiti
nei campi di sterminio. E guai a protestare o scioperare. C'erano, tra gli
addetti alle macchine di alcune grandi industrie, capi e capetti che facevano la
spia. O personaggi che, per una manciata di soldi e qualche chilo di sale (che
Italia terribile e piena di odio e di terrore in quel '43, '44 e '45) erano
disposti a vendere chiunque. C'era bisogna, dunque, di una azione forte che
facesse sentire agli operai che la Resistenza pensava a loro e alla loro
protezione. Giovanni Pesce, dal nulla, aveva imparato a sparare, Non solo:
portava sempre addosso due pistole, non una sola. Ed era diventato uno che non
sbagliava mai un colpo. Viveva isolato in un microscopico appartamento e usciva
soltanto per l'attacco improvviso e per incontrare altri due o tre compagni dei
Gap. Ma quando entrava in azione era sempre solo: non si fidava di nessuno.
In uno dei tanti incontri, gli avevo chiesto: «Ma non avevi paura?», e lui:
«Eccome». Poi aveva ancora spiegato: «Una volta ho detto ai compagni che quel
comandante dei repubblichini addetto agli arresti nelle fabbriche, non era
arrivato in ufficio. Invece c'era. Ma io ero stato colto dal tremito e dal
panico e non avevo fatto nulla. La volta successiva, dopo alcune esitazioni, era
partito deciso ad assolvere all'incarico. Ero entrato nel bar dove il comandante
stava facendo colazione. Mi ero avvicinato e avevo spianato la pistola. Per un
attimo ci eravamo guardati negli occhi. Un attimo che non finiva più. Avevo
letto in quello sguardo la sua paura, il suo terrore. Poi avevo visto che stava
mettendo la mano alla pistola. Allora avevo fatto fuoco tre o quattro volte.
Subito dopo ero uscito e saltato sulla mia bicicletta. Dovevo giustiziare quel
comandante. Sapevo dei nostri compagni e di tanti innocenti, torturati,
impiccati, fucilati».
Quante volte hai sparato avevo chiesto a Giovanni. E lui aveva risposto: «Molte,
molte volte. Non le ho mai contate». Poi ancora aveva aggiunto: «Sai che nel
dopoguerra, su un tram a Milano, ho incrociato gli occhi con la moglie e figli
di un famoso spione che avevo liquidato. Ci siamo sfioranti e ognuno e andato
per conto proprio. Credimi è stata dura. Ammazzare, anche se in guerra e nella
battaglia più grande per la libertà, non è facile. Ogni volta mi si stringeva il
cuore».
Nella motivazione della medaglia d'oro, si ricorda che «Visone» era stato,
insieme a un compagno dei Gap gravemente ferito, inseguito dai nazisti. Lui
aveva preso sulle spalle quel ferito e, sparando come un pazzo, si era
dileguato. Pochi giorni dopo, con altri, aveva assalto «Radio Torino» ed era
riuscito a distruggere parte degli impianti, nonostante la presenza di una
decina di nazisti e un gruppetto di repubblichini. Imprese incredibili e
straordinarie.
Nel 1945, a Milano, nei giorni della Liberazione, era stato affrontato da un
gruppo di ragazzini con il fazzoletto rosso al collo che avevano gridato:
«Comodo aspettare che i partigiani ti liberino. Comunque, puoi uscire dalla
cantina dove ti eri rintanato come un topo». Lui non aveva risposto, ma aveva
sorriso appena, appena per poi girare oltre l'angolo.
Caro «Visone», la tua parte per tutti e per la nostra Italia, l'hai fatta. Un
abbraccio.


Pubblicato il: 27.07.07
© l'Unità. Per la pubblicità su www.unita.it