[NuovoLab] conoscere l'automobile

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Automobile, la droga che manda al cimitero
LUCA FAZIO

Stiamo per intasare strade e autostrade e di questi tempi un week-end al mare
vale più o meno una sessantina di morti, e una generale alzata di spalle. E
quando proprio non se ne può fare a meno, come di fronte alle tragedie
amplificate di questi giorni, allora si ricorre alla solita formuletta
dell'emergenza, che necessita di un colpevole dai tratti (a volte anche
somatici) sempre ben definiti. Colpevoli sono gli immigrati (se un rom uccide
quattro ragazzi, come è accaduto ad Appignano), gli ubriachi (se è un
piemontese l'automobilista che uccide una ragazza a Pinerolo) e i giovani,
sempre piuttosto su di giri (anche se sono proprio loro i clienti più disposti
a farsi sedurre dai venditori di automobili e di gusto per la velocità).
Ma la categoria dell'emergenza in questo caso non funziona, anzi, oltre che
essere una stupidaggine, è solo il tentativo più raffinato per nascondere
l'unico reale problema per la sicurezza di tutti i cittadini italiani.
L'automobile. In Italia muoiono mediamente 15 persone al giorno, e 860
rimangono ferite, a causa di incidenti stradali: sono 5.426 vittime all'anno
(dati Istat). Una strage, su scala industriale. Solo il 2,3% degli incidenti
(Istat) però è dovuto allo stato psico-fisico del conducente, quindi
all'assunzione di alcol e di sostanze stupefacenti sono imputabili 1,8
infortuni su 100 (sempre troppi, ma forse non è il caso di concentrati solo
sull'abuso di questa o quella sostanza). Gli altri sono «normali»
automobilisti, che uccidono nel 97,3% dei casi perché guidano scorrettamente:
corrono troppo (14,2%) o non rispettano il codice (18,5%) o corrono su strade
che non sono propriamente piste di Formula Uno (il 30% dei sinistri non per
caso si deve a «fattori ambientali»). Questo il quadro, anzi il cimitero,
giusto per restare solo ai cadaveri che rimangono intrappolati tra le lamiere,
perché altrimenti bisognerebbe fare anche la conta delle disgrazie che pur
essendo direttamente imputabili all'automobile hanno poco a che fare con il
codice della strada (è materia per climatologi, oncologi e anche psichiatri).
E cosa siamo capaci di fare, oltre che piangere lacrime di coccodrillo, fare
finta di prendercela con l'alcol (vietiamolo), e chiacchierare di tolleranza
zero ma solo per i «devianti» su quattro ruote? Niente. Magari modifichiamo il
codice della strada per dare il foglio rosa anche ai sedicenni, notoriamente
prudenti e capaci, affinché contribuiscano anche loro a lanciarsi
sull'autostrada e a rilanciare l'azienda Italia, targata Fiat. E magari
corriamo a Torino, in ginocchio, per glorificare insieme al vippame italico la
nuova 500 che scende dal cielo, una «utilitaria» sfiziosa da 14 mila euro per
chi una macchina ce l'ha già e che per di più corre a 180 km/h, cioè 30 in più
di quanto è consentito per legge. Del resto, come si legge a Milano sui
cartelloni che pubblicizzano il nuovo «Ducato» Fiat, «Padrun cumanda, caval el
trota».

Ad auto armata
GUIDO VIALE

Secondo Michele Serra, di cui sono amico e ho grande stima, i morti sulle
strade - 5-7.000 all'anno in Italia, oltre mezzo milione all'anno nel mondo, da
15 a 30 milioni, a seconda delle stime, dall'inizio dell'era dell'automobile;
non solo automobilisti, ma anche, e sempre più spesso, pedoni e ciclisti - si
dividono in due categorie: quelli fisiologici e quelli eccedentari («Quando
l'auto diventa un'arma», pubblicato sulla Repubblica di ieri).
I primi sono necessari: non se ne può fare a meno in una società fondata sulla
mobilità. I secondi superflui: sono quelli indotti «dall'asocialità, dalla
stoltezza, dall'aggressività». Che siano le automobili, e le regole che
presiedono alla produzione e vendita di auto sempre più potenti e a una
congestione che non lascia spazio agli uni se non portandolo via agli altri,
isolandoci in tante corazze di lamiera, a generare «asocialità, stoltezza,
aggressività», non viene minimamente preso in considerazione.
È un po' come dire che in una società che da sessant'anni e più convive con la
mafia, anche i morti ammazzati dalla criminalità organizzata si dividono in
fisiologici e superflui. Ma la mafia, direte voi, non è un bene pubblico e
necessario come la strada. Come la strada no. Ma con l'automobile ha molte
affinità. Enormi guadagni, grande impegno di risorse umane, enormi danni per la
collettività, enorme capacità di convogliare consenso e di distribuire reddito,
controllo capillare del territorio e, dulcis in fundo, molti più morti
ammazzati.
L'auto uccide. È un'arma. Una volta tutti i membri - maschi - di una comunità,
o tutti coloro che venivano ritenuti degni di appartenervi, avevano il diritto
di portarne una. Chi non l'aveva o non poteva portarla era un servo, un paria,
un bandito. Ora non è più così.
In una società in cui i vettori del controllo sociale si sono diluiti fino
alla dissoluzione, il diritto del cittadino di portare una o più armi esiste
ormai solo negli Stati Uniti; con le conseguenze che tutti vediamo. Nel resto
del mondo questo diritto è regolamentato e limitato a chi ne può dover fare uso
per esigenze di servizio (polizia, soldati, vigilantes, persone particolarmente
esposte al rischio di aggressioni o rapine) e solo in servizio o nell'esercizio
delle proprie funzioni. Ma che tutti abbiano invece diritto di avere un'auto e
di usarla quando dove e come vogliono non viene messo in discussione da nessuna
parte.
Certo, l'auto non è solo uno strumento di mobilità: come le armi, è anche e
sempre più anche strumento di ostentazione, di sopraffazione, di
autogratificazione; ma anche le armi non rispondono solo a esigenze di difesa o
di offesa legittime. Quelli della mia generazione hanno visto centinaia di loro
compagni appropriarsi, esibire e poi anche usare delle armi per cercare di
dimostrare, maschi o femmine che fossero, di «avere le palle»: forse insicuri
di poterlo dimostrare altrimenti. Ne è nata una storia tragica.
Tuttavia, quello che emerge chiaramente da una situazione come quella degli
Stati Uniti, dove c'è in giro più di un'arma per abitante, è quanto sia
difficile «rientrare» da una situazione del genere a una di più o meno estesa
«normalità». Con l'auto, ovviamente, è ancora peggio.
Dato che l'auto non uccide solo per contatto diretto - leggi incidenti - ma
anche con le sue emissioni e lo stress che la congestione ingenera, sarebbe
ancor più necessario che con le armi limitarne l'uso a chi ne ha strettamente
bisogno per motivi di servizio, e solo per il tempo in cui questo motivo
sussiste, affidando la soddisfazione delle nostre esigenze di mobilità, che
giustamente Michele Serra ci ricorda essere alla base della società moderna, ad
altri mezzi: al trasporto pubblico di massa e al trasporto flessibile e
personalizzato. Costerebbe meno, inquinerebbe meno, ucciderebbe meno.
Certo il rientro nella «normalità» da una situazione eccezionale e destinata a
finire quando finirà il petrolio o quando l'effetto serra ci avrà
irreversibilmente soffocati è più difficile che disarmare 300 milioni di
cittadini americani. Ma perché disperare?




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Non potendo rafforzare la giustizia si è giustificata la forza B. Pascal
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Ugo Beiso