[Incontrotempo] considerando la manifestazione del 9 giugno.…

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Author: corrispondenze metropolitane
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To: ml-it, incontrotempo
Subject: [Incontrotempo] considerando la manifestazione del 9 giugno...
Considerando la manifestazione del 9 giugno……

La manifestazione del 9 giugno partita da piazza
Esedra, pur considerata nei suoi numeri effettivi, può
senz’altro essere registrata come una rilevante
mobilitazione di massa. Sicuramente, i suoi
partecipanti erano 4 o 5 volte più numerosi che
nell’occasione del 17 marzo. Se agli stessi
aggiungiamo le ali di folla sui marciapiedi che, per
la prima volta, sono state così folte su tutto il
percorso del corteo, e se non dimentichiamo che
moltissimi giovani sono rimasti a casa per via dei
costi di trasporti, possiamo anche affermare che essa
è una di quelle manifestazioni che lasciano il segno.
Naturalmente, ciò che è apparso il 9 giugno lascia
aperti molti problemi (di cui parleremo), ma
innanzitutto ci segnala un significativo passaggio del
movimento reale. La massa dei partecipanti, pur
recuperando alcuni temi e modalità di esprimersi di
quanto era emerso nelle precedenti proteste contro la
guerra, è scesa in piazza soprattutto contro il
governo Prodi. E lo ha fatto pur essendo l’occasione
favorevole alla solita protesta antiamericanista e pur
cercando alcune forze promotrici della manifestazione
di incanalarla in questa direzione, mettendo in
evidenza il ruolo presuntamene subalterno (e quindi
più o meno subìto) del governo italiano nella
coalizione. Certamente, non possiamo dire che una
consistente parte del proletariato italiano si sia
spostata in tal senso, nondimeno possiamo parlare di
un inedito: è la prima volta che una massa rilevante
scende in campo esplicitamente contro un governo che
vede la partecipazione di partiti che si
autodefiniscono comunisti.
Non può perciò essere condiviso il giudizio secondo
cui il corteo del 9 giugno rappresenterebbe la
continuazione del movimento no war che ebbe il suo
apogeo nel febbraio 2003. Un giudizio del genere,
soffermandosi su alcune banalità, accomuna due
tendenze opposte. Quella che vorrebbe comunque mettere
di nuovo insieme tutta la sinistra in una dinamica che
espunge lo scontro e vorrebbe farsi forte di una
contaminazione che dovrebbe coinvolgere perfino gli
avversari; e quella che invece –intravedendo
giustamente in questa nuova impostazione il vecchio
riformismo- giustifica la riproposizione di una
posizione “indifferentista”.
Lasciando per il momento da parte il più problematico
giudizio sul rapporto con movimenti come quelli visti
a Seattle, quello del 9 giugno, quasi in contemporanea
con le proteste di Rostock, si pone in netta
discontinuità con il movimento no war.
Quest’ultimo a)-comprendeva tutte le forze che si
opponevano al centro destra, b)-era prevalentemente
antiamericanista, c)-era caratterizzato dall’ideologia
della contaminazione. Viceversa, il movimento del 9
giugno si è diretto contro il centro sinistra e si
contrapponeva esplicitamente pure alla sinistra
cosiddetta radicale riunitasi nella spettrale piazza
del Popolo; ha espresso una forte tensione contro
tutti gli imperialismi; era chiaramente animato da
un’ideologia di scontro e di inconciliabilità.
Se vogliamo cercare le radici del nuovo movimento
dobbiamo partire proprio dal passaggio del governo al
centro sinistra. Da questo momento in poi la gran
parte di quanto era scesa in piazza contro la guerra,
essendo rappresentata dai partiti della sinistra
istituzionale, si è posta in una posizione di
sostanziale passività o al più di critica rassegnata
strumentalizzabile anche in chiave populistica. Per la
qual cosa la ripresa del movimento “a sinistra” non
poteva che avvenire fuori e contro questa sinistra e
il governo cui essa partecipava. Ma la ripresa non
poteva essere evitata, giacché il centro sinistra
–come si intravedeva dai suoi programmi- doveva
continuare una politica antiproletaria sul piano
interno e di aggressione imperialista sul piano
internazionale.
Il primo momento di questa ripresa è consistito nella
manifestazione del 30 settembre 2006 contro l’invio
delle truppe in Libano. Il collegamento del 9 giugno
con questa prima protesta non viene facilmente colto,
per le diverse dimensioni numeriche, per la presenza
nella seconda del “no dal molin” e di alcuni nuovi
promotori. Tuttavia, è evidente che i promotori del 9
giugno erano in maggioranza gli stessi del 30
settembre 2006 e che è stata la loro determinazione
nel perseguire l’opposizione alla guerra a mettere in
crisi quelli che poi si sono aggiunti prima nel 17
marzo e ancora di più il 9 giugno. Il corteo del 30
settembre raccoglieva, è vero, solo militanti e
simpatizzanti delle organizzazioni promotrici, ma
quelli che vi prendevano le distanze riuscivano farlo
solo arrampicandosi sugli specchi, non potendo
sostenere che l’obiettivo in sé della manifestazione
era sbagliato. Ancor più diventava imbarazzante la
diserzione di certe forze in occasione del corteo di
novembre 2006 a sostegno della causa palestinese.
Diventava insostenibile opporre infine ancora una
volta la necessità delle lotte territoriali contro la
guerra (che appunto non ci sono state!) in alternativa
alla mobilitazione nazionale quando gli organizzatori
del 30 settembre promuovevano la manifestazione
nazionale il 17 marzo contro il rifinanziamento della
missione in Afghanistan. Diventava insostenibile non
solo perché l’obiettivo a parole era largamente
condiviso da parte di quelle tendenze che si
opponevano alla manifestazione nazionale, ma anche
perché l’appello a manifestare, facendo breccia anche
nelle loro aree, raccoglieva già il 17 marzo il doppio
delle adesioni delle due precedenti proteste.
E’ vero pure che contribuisce al 9 giugno la
mobilitazione di massa di Vicenza, ma vi contribuisce
non per il suo carattere maggiormente unitario
rispetto alla sinistra e non al di fuori della
dinamica innescata dalle due manifestazioni
precedenti. A Vicenza la sinistra di governo si
presentava, ma era ai margini come un corpo estraneo,
perché la protesta non poteva che esprimersi
soprattutto contro il governo di centro sinistra;
viceversa, i promotori delle precedenti manifestazioni
per il ritiro delle truppe dal Libano e a sostegno
della lotta palestinese erano ben presenti per essersi
resi attivi nella sua fase preparatoria. La lotta di
Vicenza si è rovesciata a livello nazionale il 9
giugno, quando è maturata la convinzione che la stessa
è parte integrante della lotta contro il militarismo
del governo Prodi che aveva reagito alla mobilitazione
di febbraio con atteggiamento arrogante rivendicando
la costruzione della base come parte integrante del
proprio programma.
Concludendo sugli aspetti positivi della
manifestazione 9 giugno, possiamo dire che ha
rappresentato un buon segnale, anche perché
–considerando pure l’astensionismo alle elezioni di
Vicenza- essa si è posta su un terreno prevalentemente
extra istituzionale, avvertendo alcuni suoi promotori
che non saranno facili i tentativi di utilizzarne la
spinta per nuove rappresentanze istituzionali. Ciò non
è deducibile solo in negativo (la netta
contrapposizione alla piazza istituzionale senza
Popolo), ma dalla presenza (maggioritaria) di una
massa, soprattutto di giovani, chiaramente refrattaria
alle logiche elettorali.
Quale dato ulteriormente positivo da registrare vi la
presenza, ancorché minoritaria nelle file del corteo,
di una componente che ha voluto segnalare la netta
opposizione al governo Prodi in quanto protagonista di
una propria politica imperialista espressione di
interessi specifici ed in quanto tale nemico
principale di un movimento italiano contro la guerra.
Esso infatti aderisce alla aggressività statunitense
non perché subordinato o incapace di rappresentare una
posizione espressione dei veri “interessi nazionali”.
Se il governo italiano è consenziente con la strategia
statunitense, non è per servilismo ma perché l’attuale
compartecipazione alla coalizione che fa capo alla
Nato e alla alleanza occidentale, dalla quale non ha
nessuna intenzione di separarsi, quanto casomai di
aumentare al suo interno il proprio potere
contrattuale e la propria autonomia relativa, permette
all’Italia di partecipare alla spartizione dei bottini
di guerra.
Questa posizione di netta denuncia del proprio
imperialismo non solo ha avuto una presenza visibile
nel corteo, ma soprattutto era percepita dal resto dei
manifestanti come un perfettamente interna alle
tematiche e alle ragioni della mobilitazione.

Venendo ai problemi ancora aperti, il pur
comprensibile ottimismo -che è parte della battaglia
politica- non deve farci sfuggire che la maggioranza
dei lavoratori non ha vissuto il 9 giugno come noi lo
abbiamo vissuto. Non per la manifestazione in sé, ma
perché ha ancora difficoltà a battersi sul terreno
politico e soprattutto su temi di carattere
internazionale. Facciamo questa constatazione non per
assumere un atteggiamento distaccato, tanto meno per
concludere che il corteo del 9 giugno non era composto
prevalentemente da proletari. A quest’ultimo
proposito, è il caso invece di dire che perfino i
giovani (per lo più studenti) sono i futuri precari e
che, avendone la certezza, non ragionano neppure oggi
come aspiranti piccoli borghesi, nonostante
l’intossicazione ideologica e mediatica prevalente.
Intendiamo invece segnalare che i proletari in gran
numero presenti al corteo lo erano come soggetti
politicizzati (organizzati o meno) e non come
espressioni organizzate di lotte sul terreno della
appropria condizione sociale.
Nel contempo dobbiamo avere presente che le forze di
opposizione al governo più organizzate sono ancora
legate da una serie di fili alla sinistra di governo.
Nel corteo non hanno potuto esprimere esplicitamente
le loro posizioni, ma non hanno rinunciato e non
possono rinunciare a riproporre sbocchi di tipo
istituzionale.
La loro presa certamente dipenderà dalla dinamica
oggettiva dei fatti e del movimento, ma essa non va a
maggior ragione sottovalutata se si tiene conto che le
svariate realtà che compongono il movimento attuale
non riescono ancora a confluire su una comune
battaglia politica.
La loro maggiore forza di attrazione dipende
esattamente da quegli elementi di inevitabile
ambiguità ancora presenti nel movimento contro la
guerra al cui interno prevale tuttora una
significativa componente antiamericana accompagnata
dalla convinzione che il governo Prodi sia succube
della strategia statunitense; ed in quanto tale da
contestare.

Per tale motivo le tendenze collocate su posizioni di
netto anticapitalismo ed internazionalismo, devono da
un a parte rafforzare la propria internità a tutte le
occasioni di mobilitazione contro la guerra sia
nazionali che locali, ma contemporaneamente curare la
denuncia delle specifiche responsabilità delle
istituzioni del governo e dei capitalisti nostrani,
per contribuire ad accentuare la radicalità e
l’autonomia dell’intero movimento. Ciò può essere
realizzato sia battendosi affinché le varie
mobilitazioni avvengano su appelli e su parole
d’ordine non ambigui, come in parte è avvenuto nella
stessa occasione del 9 giugno, sia promuovendo
specifiche campagne nazionali che vedono al centro la
denuncia degli interessi del capitalismo italiano.
Tale sforzo, deve essere fatto a partire dalle realtà
territoriali tentando di dare stabilità continuità e
ed un coordinamento effettivo ai vari organismi
impegnati sul terreno dell’opposizione alla guerra e
al militarismo, anche per superare in prospettiva la
condizione di sostanziale intergruppi rappresentato
dai coordinamento nazionale, cove pure riteniamo utile
e necessario dare espressione ad una posizione
internazionalista.

In particolare ci sembra che uno degli snodi su cui
maggiormente concentrare l’attenzione è quello
relativo al nesso esistente tra politica di
aggressione verso l’esterno e gli attacchi cui
contemporaneamente viene sottoposto il proletariato
metropolitano. Un nesso che la realtà stessa si sta
incaricando di mettere in evidenza, a cominciare dalle
spese militari crescenti che sottraggono risorse alla
spesa sociale, il militarismo diffuso che attraverso
l’emergenza della lotta al terrorismo produce la
ulteriore militarizzazione degli stessi territori
metropolitani, oltre a giustificare una legislazione
sempre più autoritaria ed una blindatura istituzionale
da utilizzare anche nello scontro di classe interno.
Naturalmente vi sono molteplici argomenti che si
possono sviluppare per legare la lotta contro le
aggressioni esterne con la difesa delle condizioni di
vita e di lavoro nei paesi occidentali come elemento
non ideologico ma maledettamente concreto. Il concetto
di fondo da articolare nelle varie situazioni di
intervento è comunque quello secondo cui la vittoria
delle missioni di aggressione verso l’esterno rende
più forti i nostri avversari di classe anche nei
confronti del proletariato metropolitano, così come il
rafforzamento della lotta su propri specifici
interessi da parte di quest’ultimo, senza sottostare
ai ricatti delle compatibilità e degli interessi
nazionali, rappresenta il sostegno più concreto che
possiamo dare alla lotta dei popoli aggrediti che
resistono alle aggressioni imperialiste. È per tale
motivo che la vera discriminante di una vera
impostazione internazionalista non consiste tanto in
presunti appoggi o identificazioni con le varie
resistenze in atto (che il più delle volte non si sa
nemmeno bene cosa significhi), ma nella lotta senza
quartiere contro la politica di aggressione del
proprio imperialismo in direzione di una sua
sconfitta, tanto sul fronte interno che su quello
internazionale.

In tali premesse, le forze che si sono riunite dietro
lo striscione “no bush, no prodi, il nemico è in casa
nostra”, nel proseguire il loro confronto, si rendono
fin d’ora disponibili ad iniziative comuni con altre
realtà.


Comitato di lotta internazionalista – Torino
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