[NuovoLab] Secolo XIX: risarcimenti bloccati, Manganelli, to…

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Autor: Carlo Ge
Data:  
A: forumgenova
Assumpte: [NuovoLab] Secolo XIX: risarcimenti bloccati, Manganelli, torture
Secolo XIX

Pestaggi al G8, bloccatii risarcimenti ai feriti
centinaia di cause civili
L'Avvocatura stringe la borsa, ma il ministero paga i legali dei poliziotti
GENOVA. Sulla partita dei risarcimenti ai feriti, a tutte le vittime delle
violenze al G8 del luglio 2001, si gioca l'ennesima, grande fibrillazione di
una storia infinita. Su qualunque accordo che cerchi di definire, prima
delle (eventuali) condanne decretate dalla magistratura, la situazione di
chi è stato ferito alla scuola Diaz, alla caserma di Bolzaneto, nelle strade
mentre manifestava pacificamente, è calata la mannaia romana. Stop a
qualunque mediazione. Resistere a oltranza a ogni richiesta di riarcimento.
Il ministero dell'Interno ha respinto i tentativi di arrivare a una
soluzione mediata del problema. E ora è muro contro muro.
Che cosa accade? Con l'arrivo a Genova, all'avvocatura dello Stato, di
Domenico Salvemini, si era manifestata una certa apertura su questa partita.
Sembrava fosse cosa fatta, almeno per i feriti e i contusi di Bolzaneto; la
situazione della Diaz è apparsa subito più articolata, ma anche in questo
caso era emersa la volontà di "chiudere" almeno sui casi meno gravi, quelli
meno onerosi per le casse dello Stato.
Sarebbero rimaste da analizzare soltanto le posizioni più gravi: le ragazze
pestate a sangue (quelle di cui ha parlato, nella sua deposizione davanti ai
giudici, il vicequestore Michelangelo Fournier, quello della «macelleria
messicana») e quella di Mark Cowell, il giovane inglese finito in coma; sui
picchiatori, in questo caso, grava anche un'accusa di tentato omicidio.
Insomma, sembrava che il ministero avesse deciso per la linea morbida, anche
per chiudere il più in fretta possibile (almeno sotto l'aspetto economico)
il disastro G8. Così non è stato. Anzi: dopo le prime aperture, è arrivato
lo stop. E ora la strada è tutta in salita. Anche perché, con una certa
perplessità dei "mediatori" di queste richieste, il no ministeriale giunge
da un governo di centrosinistra che della chiarezza sui fatti del 2001 a
Genova aveva fatto una delle sue bandiere.
Quanti sono i giovani (e meno giovani) che oggi aspirano al risarcimento? La
situazione è così frastagliata, in tanti distinti procedimenti, che è
difficile un computo esatto: si aggira, comunque, oltre i 400. Sono
probabilmente le dimensioni del maxi-risarcimento a spaventare. La
circostanza è confermata da uno dei legali del Genoa Social Forum,
l'avvocato Laura Tartarini: «Ci era stato consigliato - spiega - di inviare
delle lettere al ministero, per capire se c'era la volontà di chiudere,
prima della conclusione dei processi, la questione dei risarcimenti. Il
ministero ha risposto di no».
Ma c'è un'altra circostanza che desta polemiche. Gli unici quattrini usciti
dai forzieri del ministero (oltre ai 5.000 euro destinati dai giudici a
Marina Spaccini della Rete Lilliput, colpita da una manganellata, nell'unica
causa civile fino a oggi andata a sentenza) sono stati destinati al
pagamento di parcelle. Quali? Quelle dei difensori dei poliziotti la cui
posizione è stata archiviata. Con un dettaglio curioso: le parcelle sono
state saldate senza il parere favorevole dell'avvocatura dello Stato. La
quale, come risulta al Secolo XIX, consultata, ha espresso il suo diniego.
Parla Silvio Romanelli, difensore degli agenti della scuola Diaz
appartenenti al reparto antisommossa la cui posizione è stata archiviata per
l'impossibilità di attribuire qualsiasi responsabilità personale. «Le
parcelle - spiega Romanelli - sono state pagate, anche se solo in parte. E
non si capisce che cosa ci sia di stupefacente, considerato che un
professionista deve pur essere retribuito per il suo lavoro». Incalza ancora
Romanelli: «So che c'è anche chi favoleggia di parcelle principesche e
davvero non capisco. Sono state tarate dall'Ordine degli Avvocati e quindi
sono perfettamente in linea con le prestazioni offerte, senza un centesimo
in più. Ogni altra polemica è puramente strumentale per aumentare la
tensione intorno a questi processi».
Ma quale potra essere il legame con le sentenze penali dei processi con i
risarcimenti? A creare qualche imbarazzo all'avvocato dello Stato potrebbe
essere proprio la testimonianza di Fournier, che dice di aver visto «quattro
poliziotti» infierire sui no global inermi. Anche se i processi non si
dovessero concludere con delle condanne oppure (com'è ormai pacifico)
dovessero cadere in prescrizione, rimarrebbe a questo punto una
responsabilità civile del ministero. Non c'è dubbio, infatti, che (al di là
dell'identificazione personale), alcuni suoi dipendenti abbiano comunque
causato gravi danni fisici ai giovani malmenati. Con un'aggravante, però:
proprio perché non è possibile individuare gli autori dei pestaggi, lo Stato
non potrà nemmeno rivalersi nei loro confronti.
Marco Menduni
24/06/2007

«il mio primo caposi chiamava cella»
manganelli in arrivo
dalla prima pagina
Il lavoro, intanto, prosegue come tutti i giorni. E' mattina e all'ordine
del giorno c'è la manifestazione di Padova, quella del centro sociale
Gramigna in solidarietà con i neobrigatisti in galera. Appuntamento non
privo di insidie. Manganelli trova qualche istante per chiacchierare con il
Secolo XIX. Bruciano i fatti del G8 e gli ultimi sviluppi delle inchieste.
Manganelli attende. Per ora nessun commento, sarebbe davvero poco elegante
prima della formalizzazione della nomina. Ma il capo della polizia in
pectore non si sottrarrà alle domande scomode. Nemmeno a quelle relative ai
fatti del luglio 2001, a Genova. Scherza, invece, sul suo cognome. Ha letto
il servizio, pubblicato nell'edizione di ieri del nostro quotidiano, a
pagina 5, intitolato "Più forte del cognome scomodo" e ci scherza su. «Anzi,
ho un aneddoto divertente che dimostra come quel cognome abbia
contrappuntato tutta la mia esperienza professionale».
Manganelli, nato ad Avellino (l'8 dicembre 1950, per gli amanti delle
biografie), muove i suoi primi passi in polizia in Campania. «Mi presentai
in questura e mi si fece avanti una persona con una folta barba e
dall'aspetto autorevole. Una persona che incuteva anche un certo timore
reverenziale. Mi chiese: come ti chiami? Io risposi: Antonio Manganelli. Lui
mi guardò e mi disse: certo, con quel cognome non potevi fare che lo
sbirro». Ma non è finita. «Quando se ne andò - prosegue Manganelli - io
chiesi ai colleghi chi fosse quella persona. Mi risposero: il capo di
Gabinetto del questore. Oggi le cose sono assai più sfumate, ma un tempo il
capo di Gabinetto era una figura importantissima, quasi inavvicinabile.
Allora io chiesi: ma come si chiama? E loro mi risposero: Cella».
Ci ride ancora su, Manganelli. E ricorda: «Quando poi aumentò la confidenza,
un giorno gli dissi: ma scusi, dice a me che mi chiamo Manganelli... e
lei?». Cosìè fatto l'uomo. Così vicino a Gianni De Gennaro, in tanti anni
trascorsi al suo fianco. Così diverso nel carattere. Ombroso, silenzioso,
riservatissimo quello del primo. Aperto, gioviale, comunicativo quello di
Manganelli.
Ora che i giochi sembrano fatti, si aspetta solo l'insediamento. Il governo
è intenzionato a bruciare le tappe e a fare il più presto possibile. Anche
per rimuovere quell'aura immota e sospesa che grava sulla polizia. Con un
capo in carica del quale si sa già che è in procinto di andarsene e quello
in arrivo che non è ancora ufficialmente nominato. Non è sicuramente la
situazione migliore per assicurare la serenità di tutti gli operatori della
polizia.
C'è anche un retroscena, sull'accordo raggiunto intorno al nome di
Manganelli. Dopo l'intesa con Rifondazione Comunista, che il partito di
Giordano ha accettato incassando il successo politico della rimozione di De
Gennaro, c'è stata una seconda fase di mediazione. Mercoledì scorso, subito
dopo il question time e le affermazioni di Romano Prodi, si era scatenato il
finimondo. L'opposizione è insorta: troppo fresco il ricordo delle
invelenite polemiche sulla sostituzione del comandante generale della
guardia di Finanza, Roberto Speciale. Il vulnus era, però, rappresentato da
un'altra circostanza. Prodi, in quell'occasione, aveva parlato di «un'ampia
consultazione con tutta l'opposizione per la designazione del successore di
De Gennaro».
Il centrodestra ha avuto un'occasione in più per lamentarsi: la
consultazione non c'è affatto stata. E sarebbe stata regola di buon galateo
istituzionale prima avviarla, poi parlare pubblicamente, e non viceversa.
La consultazione, veloce e notturna in puro stile romano, è poi arrivata.
Per la Cdl è entrato in scena l'eterno mediatore: Gianni Letta. Con un
incarico preciso: chiudere in tempi brevi su un nome gradito pure al
centrodestra. Letta ha spiegato che avrebbe preferito poter discutere su una
rosa di nomi, che comprendesse, oltre al nome di Manganelli, quello di Luigi
De Sena (prefetto a Reggio Calabria), di Achille Serra (prefetto a Roma) e
di qualche prefetto di carriera, che non provenisse direttamente dalle fila
della polizia.
Ma lo stesso mandato prevedeva la possibilità di "chiudere", se fosse stata
la soluzione più veloce, sul nome di Manganelli. Cosìè stato. La Casa delle
Libertà ha deciso di non replicare, nel caso De Gennaro, la battaglia
sostenuta in difesa del comandante generale della Finanza, Roberto Speciale.
Anche perché la situazione è molto diversa e la scelta di Manganelli è stata
considerata in sostanziale continuità con De Gennaro. Difeso dal
centrodestra: proprio lui, il capo della polizia che era stato voluto, su
quello scranno, dal governo di centrosinistra nel Duemila.
m. men.
24/06/2007

«Torture per il bene dell'Italia»
Il capo dei "Cinque dell'Ave Maria" ammette «le tecniche d'interrogatorio
particolari per certi sospettati»
dalla prima pagina
Certo, «i metodi forti sono stati usati, in emergenza e sempre dopo aver
avuto la certezza oggettiva di trovarsi davanti il reo, le cui rivelazioni
sarebbero state decisive per salvare delle vite. Ammesso, e assolutamente
non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura - se così si può definire
- è l'unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso
costi quel che costi. Se ci sei dentro - racconta il super-poliziotto - non
ti puoi fermare o staccare il biglietto, e come un chirurgo che ha iniziato
un'operazione, devi andare fino in fondo. Quelli dell'Ave Maria esistevano,
erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche "particolari"
d'interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti. Negli ultimi anni, la
polizia non si è mai trovata in frangenti tanto estremi se non al G8, forse.
Ma lìè mancata la professionalità, sono state usate le persone sbagliate, i
tempi sbagliati, specie per l'irruzione alla scuola Diaz».
Parla, il capo operativo dei "Cinque dell'Ave Maria". E la sua testimonianza
colma in parte la lacuna evidenziata 25 anni fa dal tribunale di Padova nel
primo processo sulle sevizie ai br, quando fu descritta «l'esistenza di una
struttura organizzata (non individuabile in quel periodo) destinata al
compimento di tali azioni». Il gruppo "parallelo" fu gestito per un certo
periodo direttamente dai vertici dell'Ucigos e dal ministero dell'Interno;
si muoveva da Nord a Sud per risolvere situazioni "estemporanee" e non se
n'è mai occupato alcun procedimento penale.
Del funzionario (che è stato intervistato alla presenza di un'altra persona)
viene rispettata la richiesta di anonimato, ma ci sono chiari riferimenti al
suo lavoro in seno all'Amministrazione. La fonte ha prestato servizio per
quasi tre decenni, entrando in polizia alla fine degli Anni Cinquanta e
uscendone con un grado molto elevato. Ha lavorato in Sicilia, partecipando
alle inchieste che portarono alla cattura di Luciano Liggio e Totò Riina (il
primo arresto di quest'ultimo, nel 1963, prima della lunghissima latitanza),
poi a Napoli, sia alla squadra mobile sia all'ispettorato antiterrorismo
creato da Emilio Santillo. Infine l'Ucigos (Ufficio centrale per le
investigazioni generali e le operazioni speciali), dove ha coordinato i
blitz più«riservati». «Alla Mobile del capoluogo campano - spiega - si
combatteva una vera e propria guerra contro la camorra. Occorreva invertire
i rapporti di forza, la soggezione indotta dai malavitosi sull'intera
cittadinanza e ovviamente sugli apparati di sicurezza. Perciò capimmo che
prima di tutto bisognava accompagnare alla puntualità degli accertamenti il
rispetto ottenuto dai banditi che di volta in volta catturavamo».
C'è un riferimento, più emblematico degli altri. «Negli anni '70 la zona di
Pallonetto a Santa Lucia era semplicemente il regno dei contrabbandieri.
Nemmeno la Finanza aveva il coraggio di entrarvi e decidemmo che non si
poteva andare avanti così. Impiegando metodi forti, alla fine, ogni volta
che ci presentavamo per una perquisizione i "notabili" si alzavano in piedi.
Venivano colpiti in faccia, con le sedie dei bar dove si radunavano, se
apparivano insofferenti alla nostra attività». L'ispettorato antiterrorismo
di Emilio Santillo è un passaggio successivo, in qualche modo fondamentale
nel forgiare le tecniche e il drappello dei fedelissimi, che poi saranno
utilizzati all'Ucigos.
«Dopo tanti anni di lotta alla criminalità organizzata, ebbi la certezza che
l'unico modo per debellare la violenza ideologica sarebbe stato mescolare
gli investigatori di estrazione "politica" a quelli di provenienza "comune",
cioè impegnati da sempre nel contrasto ai malviventi di professione. Le
notizie fornite dai primi, sommate all'efficacia dei secondi, hanno dato
risultati importantissimi». I "cinque" si mettono in luce per esempio
nell'inchiesta sui Nuclei armati proletari, specie dopo l'arresto di
Giuseppe Sofia. «Ci sono due livelli d'interrogatorio, dinnanzi a un
terrorista che hai la certezza essere colpevole. All'inizio ponevo una
domanda lineare, aspettandomi una risposta. Se la replica risultava evasiva,
o proprio non arrivava, ho sempre dato una seconda chance, dicendo sottovoce
"mi stai offendendo, riproviamo". Poi, quando l'intelligenza viene
definitivamente offesa, ci sono i modi forti e a quel punto il sospettato ha
l'impressione d'essere in tuo completo dominio. Si vuole parlare di torture,
ma io direi che si trattava soprattutto d'una messinscena, praticata per
garantire la sopravvivenza a decine di persone». La somministrazione di
abbondanti dosi di acqua e sale e la finta fucilazione sono emersi con
chiarezza, dalle carte degli anni successivi: «Altre situazioni, che magari
hanno fatto il bene dello Stato, è meglio portarsele nella tomba».
Nel 1977, quando l'ispettorato antiterrorismo di Santillo viene sciolto,
ecco l'ultimo "scatto". Il funzionario viene chiamato a Roma, direttamente
all'Ucigos, con un ruolo di coordinamento. I fedelissimi, invece, restano a
Napoli: «Ma di tanto in tanto li reclutavo, quando la presenza era
assolutamente necessaria e sapevo che solo un interrogatorio condotto con i
loro metodi avrebbe consentito di ottenere le informazioni desiderate. Ero
autorizzato e delegato ogni volta a muovermi in questo modo dai miei
superiori, che riferivano al capo della polizia e al ministro dell'Interno.
Ci dicevano che era necessario andare fino in fondo e noi gli risolvevamo i
problemi. L'impiego dei miei investigatori non era troppo ricorrente, ma
coincideva sempre con i momenti cruciali delle indagini».
C'erano testimoni da ascoltare durante il sequestro di Aldo Moro (la nostra
fonte è in una delle foto simbolo scattata in via Caetani, tra gli
investigatori vicini alla "Renault 4" dove si trovava il corpo senza vita
del politico) e pure dopo. «Uno dei pentiti "storici" nella storia delle Br,
il "tipografo" Enrico Triaca individuato successivamente alla scoperta del
cadavere dello statista, fornì una serie di rivelazioni impressionanti dopo
che lo torchiammo». Il metodo è trasversale. «Mi sono occupato
dell'ultradestra, dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari), in particolare
dell'arresto a Roma di Paolo Signorelli e altri militanti poi sospettati di
aver ucciso il 23 maggio 1980 il sostituto procuratore Mario Amato
(Signorelli, condannato in primo e secondo grado è stato definitivamente
assolto in Cassazione, ndr)».
L'anno topico è però il 1982, il periodo compreso fra gennaio e febbraio.
«Prima di partecipare alle indagini per la liberazione del generale Dozier,
io e i miei uomini interrogammo a Roma il brigatista Ennio Di Rocco
(bloccato il 3 gennaio 1982), militante delle Brigate Rosse-Partito
guerriglia. Grazie alle sue dichiarazioni individuammo, sei giorni dopo, il
leader di quell'organizzazione, Giovanni Senzani, nella base romana di via
Pesci».
Di Rocco fu uno dei primi terroristi a denunciare di aver subito torture. Fu
ucciso nel carcere di massima sicurezza di Trani e il suo omicidio venne
rivendicato dai "proletari prigionieri per la costruzione dell'organismo di
massa del campo di Trani" e fatto proprio anche dal "partito guerriglia",
che non gli perdonò le soffiate.
«Dopo Senzani andammo a Padova per Dozier. Il Paese era in preda al panico,
io ero un duro che insegnava ai sottoposti lealtà e inorridiva per la
corruzione. Occorreva ristabilire una forma di "auctoritas", con ogni
metodo. Tornassi indietro, rifarei tutto quello che ho fatto».
MATTEO INDICE
24/06/2007

Lo Stato torturatoretra passato e presente
marco menduni
L'uso della forza. Legittimo e, talvolta, meno legittimo. C'è un legame che
tiene insieme due vicende lontane nel tempo e di cui, in questi giorni, si
parla diffusamente sulle pagine del Secolo XIX. La prima è rappresentata
dalle dichiarazioni del poliziotto Salvatore Genova, il liberatore del
generale Dozier, sulle torture inflitte ai terroristi durante gli Anni di
Piombo. Una ferita ancora aperta, denuncia Genova, su cui nessuno ha voluto
far chiarezza. E oggi pubblichiamo le rivelazioni choc del questore che,
all'epoca, dirigeva l'attività dei "Cinque dell'Ave Maria", la squadretta
segreta incaricata, all'epoca, di sciogliere la lingua ai terroristi. A
qualunque costo.
La seconda vicenda è il blitz alla scuola Diaz durante il G8 del 2001.
Espressione di una violenza che sembrava solo un ricordo e su cui le tenebre
si sono squarciate solo a sei anni di distanza, con le dichiarazione del
vicequestore Fournier sulla «macelleria messicana». Contesti molto diversi,
anche se la coincidenza temporale li lega per suggestione (e forse anche
qualcosa di più). Contesti e tempi molto diversi. Nell'epoca delle Br ci fu
un momento in cui la violenza brigatista avrebbe potuto davvero sfidare lo
Stato, complice un diffuso sentimento di contiguità ideologica che allignava
nel Paese.
In quell'ottica le maniere forti furono una risposta che le istituzioni
tollerarono per il conseguimento di un fine collettivo ritenuto nobile. Su
quelle modalità il dibattito è, ancora oggi, aperto e nient'affatto sepolto:
lo dimostra l'interesse e la discussione scuscitata dall'inchiesta del
Secolo XIX, oggi giunta alla chiave di volta.
La vicenda Diaz è, sostanzialmente diversa. Lo Stato non era in pericolo. E
appare un'iperbole l'affermazione di alcuni secondo la quale, in quei
giorni, ci furono le prove tecniche di un golpe contro l'appena insediato
governo Berlusconi. In realtà il G8 riunì insieme, con uno straordinario
effetto moltiplicatore, tutte quelle frange dedite alla violenza che ancora
oggi (basti vedere le immagini degli scontri romani in occasione della
recente visita del presidente Usa Bush) utilizzano i grandi appuntamenti
istituzionali per scatenare incidenti. Nel blitz alla Diaz sono poi entrati
in scena quelli che appaiono gli ultimi epigoni di una polizia violenta,
retaggio di quel passato.
Il tema delle torture di Stato è però sempre al centro di un dibattito
vivacissimo. Più negli Stati Uniti del dopo 11 settembre; meno (per ora) nel
vecchio Continente. Gli interrogativi etici, su questo versante, si limitano
sostanzialmente a due. Il primo: a quanta libertà individuale e sociale si
può rinunciare in nome di una maggior sicurezza? Il secondo è ancora più
delicato: qual è la quantità di coercizione (e di maniere forti)
accettabile, quando in gioco c'è la vita di altre potenziali vittime del
terrorismo? Detto in parole più semplici: se l'uso della tortura su un
arrestato riesce a evitare una strage, la tortura stessa è esecrabile in
maniera apodittica? Oppure esiste una sorta di gradazione morale che, nei
casi estremi, la può giustificare? Ancora una domanda: qualora, dalla
mancata applicazione di metodi d'interrogatorio violenti, ne consegue
davvero la morte, il ferimento, la devastazione dell'esistenza di altre
persone innocenti, il rispetto dei diritti umani del terrorista è comunque e
davvero così giustificato dall'applicazione dei grandi ideali?
In Italia il dibattito è affiorato nell'epoca degli Anni di Piombo. Delle
torture inflitte ai terroristi si parlò, a quei tempi: ci furono anche
pubblici processi dai quali affiorò senza ombra di dubbio l'utilizzo di
quelle maniere forti, fortissime, per indurli a parlare.
Episodi tragici, come i quattro morti nell'appartamento di via Fracchia, a
Genova, fanno parte del bagaglio di ricordi di chi, quell'epoca, l'ha
vissuta. Poi la vittoria dello Stato sui brigatisti ha scolorito la memoria
di quegli avvenimenti. Anzi, li ha inglobati (edulcorandoli) nell'apparato
tipico dei vincitori. Come situazioni indispensabili in momenti
"emergenziali", senza le quali non si sarebbe potuto conseguire il risultato
moralmente giusto.
La tematica non è mai riaffiorata con prepotenza. Almeno fino all'episodio
del rapimento di Abu Omar. Ma, anche in questo caso, gli eventi che ne sono
conseguiti hanno spaccato (probabilmente a metà, come accade di prammatica
nell'Italia di oggi) le coscienze. Da una parte chi giudica inaccettabile
l'intervento di uno Stato straniero sul territorio italiano, il sequestro e
la deportazione di un personaggio comunque allarmante, ma senza tutte le
garanzie di una corretta indagine e di un corretto processo.
Dall'altra chi non capisce dove stia il problema: l'Italia si è liberata di
una persona pericolosa (così definita dagli stessi magistrati), forse sono
stati impediti sanguinosi attentati e non si comprende perché, sotto
processo, ci sia chi ha difeso il Paese e i suoi cittadini.
Posizioni, dal punto dialettico, entrambe comprensibili. Anche se l'unica
guida, l'unico faro in uno stato di diritto non può che essere
l'applicazione delle leggi. Che tali sono e che devono essere applicate in
quanto tali, senza farle soggiacere alla potenza dei contrapposti
convincimenti. Se si giudicano inadeguate, la via maestra non è tentare di
piegarle, ma impegnarsi in battaglie civili, politiche, parlamentari per
farle modificare.
24/06/2007



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Carlo
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