I metodi spicci della multinazionale
Le famiglie delle vittime degli squadroni della morte in Colombia versus Chiquita Brands International, una delle più note multinazionali della frutta. Sarà un interessante caso legale, «probabilmente il più grande caso di terrorismo nella storia», secondo Terry Collingsworth, avvocato presso l'associazione International Rights Advocates («Sostenitori dei diritti internazionali»), con sede a Washington. È quest'associazione di aiuto legale che il 7 giugno ha presentato presso la Corte federale di Washington Dc la causa contro Chiquita, in rappresentanza delle famiglie di 173 persone uccise nella regione colombiana delle grandi piantagioni di banane. Accusano la multinazionale della frutta di aver pagato milioni di dollari alla Auc, Autodefensas unidas de Colombia, milizia di estrema destra creata e sostenuta dall'esercito colombiano negli anni '80 per proteggere i proprietari terrieri e combattere la guerriglia di sinistra delle Farc. Coinvolta nel narcotraffico e in
molti affari sporchi, nel 2001 la Auc è stata designata «organizzazione terrorista» dagli Stati uniti e da molti altri stati - tra cui, su pressione di Washington, dalla stessa Colombia (con grave imbarazzo dell'attuale presidente Alvaro Uribe, in più occasioni accusato di avere avuto legami stretti con la Auc quando era governatore della provincia di Antioquia negli anni '90, cosa che lui nega).
Negli ultimi dieci anni oltre 10mila persone sono state uccise dalla Auc, molte di loro nella regione bananiera, dove la milizia è stata usata tra l'altro per mettere a tacere attivisti sindacali e/o per i diritti umani - tra cui le 173 persone i cui familiari ora citano in giudizio Chiquita. Infatti anche l'azienda americana ha usato la Auc per «proteggere» le sue piantagioni, e lo ha fatto consapevolmente. Questo è stato accertato dal Dipartimento Usa alla giustizia, che in marzo ha aperto un procedimento penale verso l'azienda accusandola di aver pagato la Auc; Chiquita ha ammesso la fondatezza dell'accusa e patteggiato, accettando di collaborare con l'indagine del ministero della giustizia. Se l'è cavata così con una multa di 25 milioni di dollari per aver pagato un'organizzazione designata «terrorista»: niente galera per i suoi dirigenti, nessuna responsabilità diretta per le vittime della Auc.
L'ammissione fatta da Chiquita però apre la porta alle cause per risarcimenti, ed è la premessa dell'azione intrapresa da quelle 173 famiglie. La multinazionale della frutta ha versato milioni di dollari e tentato di far arrivare armi alla Auc, usandola per far assassinare i mariti, mogli o figli dei querelanti, perché interferivano con i suoi interessi economici nelle piantagioni - riassume il comunicato stampa pubblicato dal International Rights Advocates. Chiquita ha chiuso con il Dipartimento di giustizia la parte penale della sua responsabilità per aver finanziato un'organizzazione che gli Usa definiscono «terrorista», ma questo non esaurisce le sue responsabilità civili verso le vittime.
«Le vittime di Chiquita vivono nella povertà più nera», spiega Paul Wolf, un altro degli avvocati del gruppo, che in maggio ha raccolto le testimonianze dei parenti delle persone uccise, per lo più in squallide bidonvilles urbane dove si sono rifugiate per nascondersi dagli squadroni della morte: «I risarcimenti non riporteranno in vita i defunti ma ci sono molte vedove e orfani che non hanno mezzi per vivere. Sono per lo più fuggiti dalle loro case e non sanno come tirare avanti». Quando si è sparsa la voce dell'azione legale collettiva, altre famiglie di vittime si sono fatte avanti: se le cause per risarcimenti si allargassero alle migliaia di vittime delle Auc nella regione bananiera colombiana, Chiquita rischierebbe la bancarotta. «Sarebbe la morte di un'azienda davvero maligna», dice Collingsworth. Già: in un secolo di attività in Colombia e in Centroamerica, fin da quando si chiamava ancora United Fruit Company, Chiquita ha sempre usato metodi assai spicci per
tutelare i suoi profitti. Ora, per la prima volta, deve risponderne in tribunale.
Marina Forti
(il manifesto 15.6.07)
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