[NuovoLab] 2 articoli sulla Diaz

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Sulla "questione Diaz" inoltro 2 articoli:
1) La macelleria della politica dal manifesto del 15.6
") La mezza verità non basta

saluti. Andrea Tosa

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La macelleria della politica
Il senso di appartenenza a un corpo di stato e la carità di patria sono due brutte bestie, non estranee a quello che Hannah Arendt definì, a proposito dei gerarchi nazisti, «banalità del male». Fa parte invece dell'imprevedibilità del bene il fatto che Michelangelo Fournier abbia tradito l'una e l'altra per amore di verità, ribadendo in aula, al processo sui fatti di Genova 2001, quello che già aveva detto nel suo primo interrogatorio. «Macelleria messicana», ecco cosa fu, parola del vicequestore, l'agguato alla scuola Diaz. «Metodi cileni», commentò all'epoca Massimo D'Alema, accompagnato da pochissimi e meritori esponenti diessini ma nel silenzio tombale del grosso dell'Ulivo. Absit iniuria verbis: sarà facile, per i post-colonial latinoamericani di oggi, definire d'ora in poi «metodi italiani» eventuali efferatezze in casa loro. E del resto, dopo il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto, fu per primo il presidente del Senegal a dirsi esterrefatto che lo stato
di diritto fosse in Italia meno solido che in casa sua.
I parlamentari italiani, invece, a larghissima maggioranza lo ignorarono finché poterono. La macelleria risultava dettagliatamente dalle cronache: sangue, ciuffi di capelli strappati, oggetti personali fuoriusciti dagli zainetti abbandonati, pianti, paura di morire, ferite sui corpi e lividi nelle menti fu ciò che vedemmo, chiamati a testimoni dai ragazzi sopravvissuti al pestaggio quella lugubre notte. Ma tornati a Roma, poco o niente dello stato d'eccezione sperimentato sulla pelle a Genova sembrava turbare la normalità del palazzo. Il centrodestra di governo militava per il teorema berlusconiano della colpa del movimento. Il centrosinistra d'opposizione era più preoccupato di scongiurare il ritorno dei fantasmi «violenti» degli anni '70 che di denunciare la rottura dello stato di diritto. Altro che intercettazioni: se c'è una data della morte della rappresentanza in Italia, è in quei giorni che va fissata.
Ci volle l'intenso agosto della commissione parlamentare d'indagine, le audizioni dei leader del movimento, l'ostinazione degli esponenti Verdi e Prc (che a Genova c'erano stati) nel lavorare ai fianchi chi nella sinistra moderata era in ansia più per le sorti di Gianni De Gennaro che per l'accaduto, perché la nebbia su Genova si dissipasse. Molte verità sono depositate e documentate nelle due relazioni di minoranza, dell'Ulivo e di Rifondazione, di quella commissione. Abbattuta in diretta, il pomeriggio dell'11 settembre, dagli aerei kamikaze puntati contro le Twin Towers. Il teorema della colpa, a quel punto, venne riscritto su scala planetaria. Genova fu dimenticata, il garantismo ritornò peloso, i magistrati vennero lasciati a lavorare nell'ombra, i testimoni a elaborarsi il trauma ciascuno a casa propria, o in un movimento costretto da allora a occuparsi più della guerra globale che delle sue prove generali genovesi.
La deposizione di Michelangelo Fournier non è solo un atto morale dovuto e un'ammissione di responsabilità. È una rivalsa della memoria, che chiama ciascuno, la politica per prima, alle proprie responsabilità. Sangue, pianti, paura: quelle immagini tornano a scorrere in tv e ci interpellano. C'è chi chiede, e non da oggi, un'altra commissione parlamentare, con poteri giudiziari. C'è chi torna a presentare il conto al capo della polizia. Sono cose buone e giuste, ma prima ce n'è un'altra più buona e più giusta e più urgente: riaprire il fascicolo di Genova nel dibattito pubblico. Fu una macelleria. Lasciò molte ferite. Quelle ferite sono ancora aperte, come labbra che aspettano di dire quello che non possono tacere.

Ida Dominijanni

(il manifesto 15.6.07)


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La mezza verità sulla Diaz non basta, e occulta la verità sul G8 di Genova
Sulla Diaz e il G8 sta emergendo una mezza verità fuorviante. Si ammettono le violenze, ma si cancellano le motivazioni che portarono all'irruzione nella scuola. Il vice questore Michelangelo Fournier l'ha chiamata "macelleria messicana", ma non c'era bisogno di attraversare l'Oceano.

di Gennaro Carotenuto (15.6.07)

Le immagini del termosifone della Diaz, mostrate dal TG di Sky, con quell'enorme macchia di sangue raggrumato, riportano indietro di sei anni. Riportano all'alba di quella domenica mattina del 2001, quando chi scrive è entrato alla Diaz dopo aver attraversato a piedi Genova deserta. Di quella visita due dettagli mi hanno poi perseguitato per mesi. In primo luogo quel termosifone, con quell'enorme macchia di sangue raggrumato. Ancora adesso faccio fatica a credere che la persona che ebbe la testa fracassata contro quel termosifone sia sopravvissuta. Il vicequestore Michelangelo Fournier racconta di una ragazza che perdeva sangue così copiosamente da pensare impossibile che sopravvivesse, racconta di quello che a lui sembrava materiale cerebrale. Racconta le stesse cose che ricordo io, e decine o centinaia di altre persone. Ma doveva dirlo lui, un vicequestore, perché bucasse, anche se solo per un istante, il muro di omertà elevato dai media e dalla classe
politica tutta sui fatti di Genova.

La verità di Fournier racconta i fatti, quelli che decine di testimoni avevano già raccontato senza essere creduti, ma non li spiega. La verità di Fournier può ancora collocare la Diaz nella categoria della frustrazione, della tensione sfogata, dello scoppio d'ira, della vendetta -che quando è compiuta dalle forze dell'ordine va ascritta alla categoria di rappresaglia- ma tutto sommato può essere archiviata come sbagliata, immotivata, irrazionale, estemporanea, casuale, non programmata, non avente alcun obbiettivo pratico. Davvero la violentissima irruzione alla Diaz, dove erano noto che fossero ospitati un centinaio di pacifici attivisti della comunicazione fu casuale?

LE PROVE DEL GSF La riapparizione di quel termosifone inondato di sangue dalla penombra della memoria è stata uno choc. Non lo fotografai, forse perché era così vivo da non essercene bisogno. In tutti questi anni non era in altro luogo che nella mia mente, ho perfino cercato di convincermi di averlo immaginato. Rivederlo per la prima volta in un TG è stato come un secchio di acqua gelata, come il pezzo di un puzzle che chiama un altro pezzo per completare il quadro.

Recupero un mio articolo, scritto all'epoca per il settimanale uruguayano Brecha, del quale ero inviato, dividendomi tra il G8 ufficiale e il Genoa Social Forum (GSF) che aveva il centro stampa proprio alla Diaz: "i locali, che fino a poche ore prima ospitavano il nostro lavoro, sono completamente distrutti. Il pavimento è un tappeto di macerie, sacchi a pelo, libri, quaderni, creme solari, assorbenti femminili, medicine, e sangue. Sangue da tutte le parti, sulle pareti, sul pavimento, tra i vestiti ammontonati, nelle scale, sui termosifoni. Siamo di fronte ad un luogo dove la democrazia è stata sospesa. [...] Ci descrivono la distruzione metodica dei computer, il sequestro dei dischi rigidi, ci raccontano la ricerca feroce di qualunque cosa che sembrasse una pellicola di foto o di video. Sono le prove che il GSF aveva promesso per testimoniare le violenze subite nei giorni anteriori".

E allora ricordo, ricordo perfettamente una parete della palestra dove più macerie erano accumulate, più vestiti, più oggetti personali insanguinati, ma soprattutto erano buttati lì decine e decine di rollini, oramai esposti alla luce e resi inservibili. Non posso più rimuovere. La violenza della Polizia che per sei anni è stata negata e adesso viene spiegata come irrazionale, dovuta all'esuberanza di pochi agenti particolarmente stressati, con catene di comando interrotte per salvare i veri responsabili, non lo fu affatto.





Ci fu la Diaz, perché c'era stata Genova. E dentro la Diaz c'erano decine di migliaia di foto, video e documenti sulle violenze dei due giorni anteriori che i presunti "terroristi" avevano interesse a diffondere e le forze dell'ordine, invece di sequestrare, distrussero perché non volevano fossero diffuse.

Alla Diaz alcuni poliziotti commisero le violenze sulle persone, 70 feriti e 92 arrestati, poi torturati a Bolzaneto. Ma ci furono soprattutto (e restano ancora totalmente nell’ombra) quelli che entrarono per distruggere le prove delle violenze del venerdì e del sabato. E' questo il vero motivo dell'irruzione alla Diaz nella notte tra sabato e domenica, altrimenti totalmente immotivata, o motivata con bugie dalle gambe corte.

Certo non tutti i poliziotti che infierirono su ragazze e ragazzi indifesi erano coscienti del perché erano lì. Ma un gruppo di loro, ben più addentro, aizzò e usò i colleghi per poter agire, distruggere metodicamente computer, esporre alla luce decine e decine di rollini, in nessun luogo concentrati come alla Diaz quella notte, già che il GSF, sbagliando, aveva chiesto che lì si concentrassero le prove delle violenze. Per quello l’assalto fu alla Diaz e non al Gaslini o alla Sciorba o in altri luoghi dove si concentravano militanti in qualche caso meno pacifici di quelli della Diaz. Fosse stato per vendetta, sarebbero andati a cercare i Disobbedienti, o i Black Block. Ma non interessavano.

A Genova successero molte cose. Un movimento forte, plurale e rigoglioso, si stava saldando e doveva essere messo in un angolo. Per farlo fu usato il terrore. La Diaz servì a distruggere le prove e ammettere quella violenza ma solo per farla passare come casuale ci allontana dalla verità.


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