di Lorenzo Guadagnucci
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Vincenzo Canterini è un'autentica rivelazione. È un uomo d'azione con il rango di questore: uno s'immagina di trovarsi di fronte in tribuanle un uomo tutto d'un pezzo, rigoroso, orgoglioso del proprio ruolo di comando, deciso a tutelare il proprio onore e quello dei propri uomini. E invece niente.
L'ex comandante del reparto mobile sperimentale della polizia di Stato, quello che fece irruzione alla scuola Diaz di Genova il 21 luglio 2001, è un uomo che affronta il processo che lo vede imputato con un misto di leggerezza e di stupore. Sembra quasi sorpreso di trovarsi lì, a rispondere al pubblico ministero che lo accusa di falso, calunnia e concorso in violenze.
Affronta le domande e le contestazioni senza coglierne, almeno all'apparenza, la gravità sia penale che morale. Quando gli chiedono dei manganelli tonfa, quelli col manico a sette, usati dai suoi uomini a rovescio, a mo' di martelli, in modo da lacerare la pelle dei malcapitati occupanti della scuola, lui osserva che effettivamente dei tonfa si possono fare usi impropri: "Anche tirarli per aria e riprenderli al volo". Una battuta.
Quando gli chiedono conto della sua relazione di servizio al questore di Genova, per la quale è imputato di falso, spiega di avere descritto la "vigorosa resistenza dei manifestanti che avevano provveduto ad attrezzarsi con spranghe e bastoni", senza avere visto in realtà alcunché, se non delle persone ferite, delle spranghe in un angolo e alcuni suoi agenti contusi: ha scritto quindi la relazione -parole sue- sulla base di deduzioni logiche e sensazioni, percepite queste ultime da quel che si diceva fra gli agenti nel cortile della scuola. Quando il pm gli ha chiesto perché non avesse chiesto informazioni ai suoi capisquadra, che lo precedevano e quindi potevano avere informazioni di prima mano, ha praticamente scrollato le spalle: non ce n'era bisogno, bastavano deduzioni e sensazioni. Né il dottor Canterini sembra turbato alla lettura di alcune delle relazioni stese dagli stessi capisquadra, in cui sono descritte violenze ingiustificate contro persone inermi.
Nemmeno le contraddizioni in cui cade lo spaventano. Procede imperterrito quando il pm gli ricorda il suo interrogatorio durante la fase delle indagini: il dottor Canterini riferì una frase che gli rivolse un funzionario del suo stesso reparto: "Con quei macellai non voglio più averci niente a che fare". "L'avrà detto per quello che ha visto dentro", dice Canterini in aula. E in effetti qualcosa lo avevano visto insieme dentro la Diaz: una ragazza inerme -a qualcuno sembrò addirittura morta- in un pozza di sangue. Perché non fece menzione di queste fatto? Semplice: non gli pareva di sua competenza.
Il dottor Canterini dice fra l'altro di non aver comandato il suo reparto, che fu spezzato in due e condotto dentro la scuola da due funzionari genovesi, e di avere partecipato al blitz con un "ruolo tecnico", come un osservatore. Un osservatore che fuori della scuola, mentre i suoi sfondano il cancello, non vede il corpo di Mark Covell, in una pozza di sangue, travolto e massacrato di botte dagli agenti. Un "non comandante" al quale è affidato il compito di stilare la relazione di servizio.
Il dottor Canterini è divenuto questore grazie a una promozione che gli fu assegnata un paio di anni fa, nonostante l'impresa della Diaz e il processo in corso. E di fronte a un titolo del genere, verrebbe da pensare a un funzionario dello Stato che mette al primo posto l'onore personale e quello del proprio corpo d'appartenenza. Non è così. O almeno non sembra. La perquisizione è descritta come un'applicazione del principio d'anarchia, senza ruoli gerarchici e una "macedonia di polizie" in azione. Se un capo c'era, ma non è detto che avesse davvero quel ruolo, il nome da fare, secondo il questore Canterini, è quello di Vincenzo La Barbera, morto di malattia nel 2002, con una menzione anche per Lorenzo Murgolo, l'unico dirigente, fra i trenta agenti indagati inizialmente, prosciolto in istruttoria. Che l'operazione si sia conclusa con più di sessanta persone all'ospedale, 93 arresti arbitrari e una macchia indelebile sulla sua carriera, sul suo reparto sperimentale e sull'intera polizia di stato, sembrano fatti irrilevanti, marginali, che non toccano la sua persona. Non c'è davvero nulla di marziale nel dottor Canterini, e questa è una delusione. Uno si aspetta un uomo contrito, preoccupato, che magari ha uno scatto d'orgoglio per rivendicare almeno qualche momento alto del suo passato in polizia, e scopre invece un uomo a volte impacciato ma sereno, capace di leggerezza e a tratti anche d'ironia. Una rivelazione, appunto.
Peccato che siano in ballo cose più importanti del profilo o della carriera di un poliziotto finito in una vicenda ben più grande di lui. Quel che resta, dopo una giornata in tribunale, e alla luce delle udienze più recenti, è la sensazione che la polizia non tenga affatto al proprio onore e alla propria credibilità democratica. L'udienza, oltretutto, è parsa per lunghi tratti una brutta copia di Porta a porta, con battibecchi continui fra il pubblico ministero, il presidente del tribunale e gli avvocati difensori. Pareva una confusa bagarre più che la celebrazione di un rito giudiziario.
Alla fine, fuori del tribunale, abbiamo alzato un paio di cartelli. Uno diceva: "In questo tribunale la polizia sta perdendo l'onore e la fiducia degli italiani". Nell'altro si chiedeva allo Stato di andare fino in fondo, dopo tanti premi attribuiti ai dirigenti imputati al processo per la Diaz: "Vogliamo Canterini capo della polizia".