Cerco insieme a Nilde Casale persone che si vogliono coivolgere su un 
percorso prima di studio della Strage aerea di Montagna Longa, poi di un 
confronto con i politici per verificare se c'è la volontà in qualcuno di 
aiutare la signora Fais che ha perso una sorella( e che annuncia che vuole 
farla riesumare per cercare le prove di conferma che ella è morta in una 
strage, che è stata barbaramente uccisa)a riaprire il caso e a verificare 
attentamente le dichiarazioni dell'estremista di destra Volo, il quale 
sostiene che quell'aereo è stato abbattuto e che i responsabili sono estrema 
destra, servizi italiani e Gladio.
Vorremmo cominciare a discuterne in rete, Vi volete coinvolgere? Fateci 
sapere.
Con affetto, Laura Picchi
P.s Se qualcuno non è interessato scusate il disturbo e l'invio di questa 
email, ma in quella strage morirono 115 persone nel 1972 e vorremmo capire 
se come purtoppo sembra sono state uccise, dando loro verità e giustizia.
Disastro aereo Volo Alitalia AZ 112 del 5 maggio 1972 località Montagna 
Longa
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Per gentile concessione del cronista del settimanale "Quarto Potere", 
Maurizio Macaluso
2 marzo 2007
Un ex esponente dell'estrema destra rivela che il disastro di Montagna Longa 
fu opera di un gruppo di terroristi. Maria Eleonora Fais, sorella di una 
delle vittime, lo ha incontrato
Non salire su quellaereo
C'è un uomo che conosce la verità, che sa tutto su quella strage. Quella 
sera doveva essere sull'aereo schiantatosi sulle montagne di Palermo. 
Qualche minuto prima della partenza però qualcuno gli consigliò di non 
imbarcarsi. Il suo posto fu occupato da una giovane giornalista 
palermitana che stava tornando in Sicilia per fare visita ai suoi familiari. 
Si chiamava Angela Fais. Aveva ventisette anni. La ritrovarono due giorni 
dopo il disastro. Gli occhi chiusi ed il volto bianco semicoperto dai lunghi 
capelli, il braccio sinistro e parte del corpo bruciati. Sua sorella, Maria 
Eleonora, si batte da trentacinque anni per ottenere giustizia. Ha raccolto 
prove ed ha scoperto che c'è una verità diversa da quella accertata dalle 
autorità. "Su quell'aereo c'era una bomba", dice. "Si è trattato di un 
attentato ordito da servizi segreti deviati, estremisti di destra ed 
esponenti delle cosche della provincia di Trapani che intendevano 
destabilizzare il Paese". Il 5 maggio del 1972 era una mite serata di 
primavera. A Palermo fervevano i preparativi per le elezioni politiche. 
Mancavano ormai meno di quarantotto ore all'appuntamento. L'onorevole 
Giorgio Almirante era arrivato nel capoluogo per incontrare gli elettori. 
Nulla faceva presagire la tragedia che in pochi secondi avrebbe sconvolto 
la vita di tante famiglie. Alle 22,21 il pilota Roberto Bartoli informò la 
torre di controllo di Palermo di essere sulla verticale dell'aeroporto a 
cinquemila piedi e fu autorizzato ad atterrare. "Viro a destra sul mare, 
sotto vento, ed entro sulla 25 sinistra". Il DC8 sembrava procedere 
normalmente verso la pista. Tre minuti dopo l'ultimo contatto, però, laereo 
finì inspiegabilmente contro la montagna. L'impatto fu cruento. Non vi fu 
nessun sopravvissuto. I sette membri dell'equipaggio ed i centotto 
passeggeri morirono nel disastro. Il giorno seguente un giornale inglese 
che dava notizia della tragedia parlò di un attentato mafioso. Le autorità 
italiane però si mostrarono sin dall'inizio poco propense a credere a 
quest'ipotesi. Il ministro dei trasporti Oscar Luigi Scalfaro nominò una 
commissione d'inchiesta per chiarire le cause del disastro. La commissione, 
guidata dal colonnello Francesco Lino, impiegò appena dodici giorni per 
stabilire che si era trattato di un tragico incidente. Nelle conclusioni 
si affermava che i piloti erano drogati. "Si trattava di una conclusione 
affrettata e totalmente infondata", dice Maria Eleonora Fais. I familiari 
di Angela Fais e del comandante Roberto Bartoli e di altre vittime si 
mobilitarono contestando apertamente le conclusioni della commissione 
d'inchiesta. "Dall'autopsia effettuata sui corpi emerse chiaramente che i 
piloti non erano drogati", dice Maria Eleonora Fais. Intanto anche la 
magistratura indagava. Anche i consulenti nominati dal giudice istruttore di 
Catania Sebastiano Cacciatore giunsero alle conclusioni di un errore del 
pilota. Secondo i professori Renato Vannutelli, Antonino   La   Rosa   ed   
il comandante Francesco Barchitta, Roberto Bartoli aveva ritenuto 
erroneamente di trovarsi sulla verticale di Punta Raisi mentre in realtà 
era a circa quindici miglia dall'aeroporto, su Monte Gradara, dove da poco 
tempo il radiofaro era stato spostato. Credendo di essere sul mare, aveva 
virato a destra finendo invece contro la montagna. "E' una conclusione che 
non sta in piedi", spiega Maria Eleonora Fais. "Roberto Bartoli era un bravo 
pilota. Aveva alle spalle oltre diecimila ore di volo. Aveva già effettuato 
altri atterraggi a Palermo dopo lo spostamento del radiofaro e quindi ne 
era a conoscenza. Non avrebbe mai potuto commettere un errore da 
principiante. Se i fatti fossero andati veramente così i pezzi del relitto 
dovevano posizionarsi in maniera diversa con un'angolazione di meno di 
settanta gradi rispetto alla cresta della montagna". Maria Eleonora Fais 
capì subito, leggendo gli atti dell'inchiesta, che c'era qualcosa che non 
quadrava. I medici legali avevano accertato che i corpi di alcuni 
passeggeri erano disintegrati. Il corpo del regista Francesco Indovina, 
morto nel disastro, non fu mai ritrovato. I soccorritori rinvennero solo la 
protesi dentaria ed un documento d'identità. Come aveva potuto 
disintegrarsi, si chiese Maria Eleonora Fais, se era morto a sospettare che 
non si era trattato di un incidente e che qualcuno stesse tentando di 
occultare la verità. Leggendo ancora gli atti scoprì che due poliziotti, 
che percorrevano l'autostrada, videro l'aereo in fiamme. Uno dei due 
raccontò che, dopo avere udito un boato, guardò il cielo e vide una grande 
luce e l'aereo che perdeva progressivamente quota lasciando una scia di 
fuoco. Un pilota di linea, atterrato qualche ora prima a Punta Raisi, da un 
bar di Cinisi, sentendo il rumore dei motori in avaria, si precipitò fuori 
e vide il DC 8 in fiamme che si dirigeva verso la montagna. Anche il 
sergente Roberto Terrano, in servizio presso la torre di controllo 
dell'aeroporto di Palermo, riferì di avere visto l'aereo in fiamme ma 
successivamente ritrattò. "Capimmo che qualcuno stava tentando di affossare 
la verità", dice Maria Eleonora Fais. I familiari di Angela Fais e di altre 
sei vittime del disastro furono le uniche famiglie a costituirsi parte 
civile nel processo a carico del direttore dell'aeroporto e di due tecnici 
dell'aviazione civile chiamati a rispondere del disastro. "Questa tragedia 
aveva sconvolto la vita di tante famiglie", spiega. "Tanti non avevano le 
possibilità economiche per affrontare il processo. Altri decisero invece di 
accontentarsi dei risarcimenti". Il processo si concluse il 27 aprile del 
1982 con l'assoluzione di tutti gli imputati. Per i giudici gli unici 
responsabili del disastro erano i piloti morti nell'impatto assieme al 
resto dell'equipaggio ed ai passeggeri. "Fu un processo vergognoso", spiega 
Maria Eleonora Fais. "Non ci fu concessa alcuna possibilità di esprimerci. 
Fummo costantemente interrotti e zittiti. Tutte le nostre controperizie 
furono puntualmente respinte dalla Corte. Per protestare decidemmo alla 
fine di ritirarci senza attendere i giudizi di secondo e terzo grado". 
Maria Eleonora Fais non era però disposta ad arrendersi. Era certa che vi 
era un'altra verità e sarebbe riuscita prima o poi a scoprirla. Tre anni 
dopo, leggendo un giornale, venne a conoscenza dell'esistenza di un 
rapporto nel quale si ipotizzava che l'aereo era stato fatto esplodere. 
Giuseppe Peri, dirigente della squadra mobile di Trapani, indagando su 
quattro sequestri di persona avvenuti nella provincia e nel settentrione, 
aveva scoperto che i rapimenti erano stati organizzati per fini eversivi da 
alcuni criminali di area neofascista con la collaborazione della 
delinquenza comune. Mentre indagava sul percorso delle banconote pagate dai 
familiari di Luigi Corleo, suocero dell'esattore Nino Salvo, una vittima dei 
quattro sequestri, l'investigatore era venuto a conoscenza che Luigi 
Martinesi, esponente della frangia eversiva della destra pugliese, aveva 
deciso di pentirsi ed aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Sulla 
scorta delle sue confessioni, raccolte dal giudice istruttore Morelli, 
l'investigatore trapanese scoprì il patto segreto tra mafia e terrorismo 
fascista, formulando la sua tesi sulla matrice dolosa di Montagna Longa. 
Secondo l'investigatore, doveva essere un'azione dimostrativa. 
L'attentatore, in possesso di carica esplosiva ad orologeria, avrebbe 
dovuto fare esplodere la bomba dopo lo sbarco dei passeggeri. L'obiettivo 
era di generare paura nell'opinione pubblica e destabilizzare il Paese alla 
vigilia delle elezioni politiche evitando la possibile apertura dei 
democristiani ai comunisti di Berlinguer. Un imprevisto fece però saltare i 
piani degli attentatori. Il pilota del DC 8, sorvolando Punta Raisi, diede 
la precedenza ad un aereo proveniente da Catania, ritardando di dieci 
minuti l'atterraggio. Un ritardo che fu fatale. Perché, si chiese Maria 
Eleonora Fais, quel rapporto non era tra gli atti dell'inchiesta? Gli 
inquirenti non erano forse a conoscenza della sua esistenza? Scoprì con 
grande sorpresa che Giuseppe Peri aveva inviato il proprio rapporto al 
tribunale di Catania mentre era ancora in corso l'istruttoria. "Sono certa 
che il giudice istruttore Sebastiano Cacciatore lo ricevette", dice. "Non 
so perché inspiegabilmente  decise  di non inserirlo nel fascicolo. Noi non 
fummo mai messi a conoscenza dell'esistenza di questo importante documento 
che avrebbe potuto dare una svolta alle indagini". Dopo avere fatto questa 
scoperta, Maria Eleonora Fais decise di avviare delle ricerche per 
acquisire una copia del rapporto. Le ricerche si rivelarono però molto più 
complesse di quanto potesse immaginare. Trascorsero oltre dieci anni prima 
che riuscisse a ritrovarlo. "Nel 1992 conobbi, durante una manifestazione 
antimafia a Palermo, il procuratore di Marsala Paolo Borsellino", racconta. 
"Gli raccontai la mia storia e lui s'offrì d'aiutarmi". Il rapporto fu 
ritrovato negli scaffali della Procura di Marsala dove era rimasto per tanto 
tempo nascosto sotto una coltre di polvere. Quando Maria Eleonora Fais si 
recò a ritirarlo gli fu risposto però che il procuratore intendeva prima 
vederlo e le fu chiesto di ritornare. Era la primavera del 1992. Il 23 
maggio il giudice Giovanni Falcone morì in un attentato. Paolo Borsellino, 
profondamente segnato dall'improvvisa scomparsa, si chiuse in se stesso 
rifiutandosi per settimane di incontrare chiunque. Quando il 19 luglio una 
carica di esplosivo lo uccise Maria Eleonora Fais comprese che la verità 
s'allontanava. Dovette attendere altri cinque anni prima di riuscire ad 
entrare in possesso del rapporto. Il 4 agosto del 1997 riuscì finalmente 
ad ottenere dal procuratore di Marsala Antonino Silvio Sciuto una copia 
dell'agognato documento. "Fu egli stesso a consegnarmelo", dice. "Quando lo 
lessi rimasi fortemente emozionata. Scrissi immediatamente un'istanza con 
la quale chiesi la riapertura delle indagini ma la richiesta fu rigettata". 
Alcuni anni dopo scoprì che un ex esponente della destra estremista, che 
negli anni Settanta operava al fianco di Pierluigi Concutelli, viveva a 
Palermo. Decise d'incontrarlo. "Volevo parlare con quell'uomo", racconta. 
"Speravo che fosse disposto ad aiutarmi. All'insaputa di mio marito e dei 
miei familiari, feci delle ricerche e scoprii dove viveva. Lo chiamai al 
telefono da una cabina spacciandomi per un'impiegata degli uffici 
giudiziari. Gli dissi che i familiari di alcune vittime della sciagura 
erano intenzionati a fare riaprire le indagini e che ero stata incaricata di 
contattarlo. Mi disse di richiamarlo la settimana successiva e così feci. 
Accettò d'incontrarmi. Andai a trovarlo nel luogo in cui lavorava. Si 
dimostrò subito disponibile. Mi disse che aveva fatto parte di un gruppo 
dell'estrema destra che operava a Palermo. Mi raccontò che la sera del 5 
maggio del 1972 doveva imbarcarsi sull'aereo. Prima della partenza era 
stato invitato però a desistere ed attendere il volo successivo. Mi spiegò 
che l'aereo era stato fatto esplodere e che Stefano Delle Chiaie conosceva 
tutta la verità". Quando sentì quel nome Maria Eleonora Fais sobbalzò dalla 
sedia. Stefano Delle Chiaie, noto esponente della destra eversiva, era 
stato per anni il leader di Avanguardia Nazionale ed era stato coinvolto in 
gravi atti di terrorismo. Nel 1970 aveva partecipato al Golpe Borghese. 
Nella notte del 7 dicembre di quell'anno, comandava, infatti, l'unità che 
avrebbe dovuto occupare il Ministero dell'Interno. Era stato anche 
indagato per la strage di Piazza Fontana. Se lui era a conoscenza della 
verità certamente dietro a questa storia c'era l'opera di terroristi. Maria 
Eleonora Fais si chiese però se poteva fidarsi di quell'uomo. Le aveva 
raccontato la verità o, forse, aveva tentato di depistarla? "Durante 
l'incontro mi aveva detto che nel 1974 lui ed i suoi compagni erano stati 
spinti a fare una rapina in un supermercato, in via Catania, a Palermo, 
erano stati colti in fragrante dalla polizia ed arrestati. Dopo che era 
finito in manette aveva capito che si era trattato di una trappola. 
Qualcuno, dopo averli usati, aveva deciso di liberarsi di loro. Quando 
tornai a casa feci delle verifiche ed accertai che realmente nel 1974 vi era 
stata una rapina in un supermercato in via Catania, a Palermo, ed i 
rapinatori erano stati colti in flagranza. Andai da un magistrato e gli 
raccontati tutto ciò che avevo scoperto. Mi disse di tornare da quell'uomo e 
di fargli firmare un foglio in cui chiedeva di essere interrogato. Quando 
glielo chiesi però si rifiutò. Mi disse che se lo avesse fatto sarebbe stato 
ucciso". Nella primavera del 2000 Maria Eleonora Fais presentò una nuova 
richiesta di riapertura delle indagini. Cinque mesi dopo anche questa 
istanza fu inesorabilmente rigettata. Sono trascorsi altri sette anni e la 
verità è ancora lontana. Maria Eleonora Fais continua però ancora a sperare 
che un giorno qualche magistrato decida di riaprire l'inchiesta e faccia 
luce su questa vicenda. "Non posso accettare che ancora oggi si continui ad 
affossare la verità", dice. "Non mi arrenderò mai".
Maurizio Macaluso
Settimanale "Quarto Potere del 02-03-2007"
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9 marzo 2007
Nuovi particolari sulle clamorose rivelazioni dell'estremista di destra che 
ha parlato del disastro aereo di Montagna Longa puntando il dito su alcuni 
ex compagni della lotta armata
E se fosse stato un missile?
L'aereo fu abbattuto. Una bomba o, forse, un missile sparato da terra, uno 
di quelli del tipo Stingher, un'arma micidiale capace di abbattere caccia ed 
elicotteri da guerra, facilmente manovrabile da un solo uomo. E' questo lo 
scenario apocalittico descritto da un ex estremista di destra. L'uomo, ex 
compagno di Pierluigi Concutelli, che oggi vive a Palermo, ha rivelato che 
il Dc 8 schiantatosi la sera del 5 maggio del 1972 sulle montagne del 
capoluogo siciliano sarebbe stato fatto esplodere da terroristi. Negli anni 
Settanta operava in Sicilia un gruppo di estremisti capeggiati da 
Pierluigi Concutelli, leader dell'eversione fascista, che era stato 
incaricato di compiere una serie di stragi ed omicidi con l'obiettivo di 
destabilizzare il Paese. Il gruppo, che avrebbe avuto una sede vicino il 
teatro Politeama, nel centro di Palermo, era dotato di armi sofisticate e 
di campi paramilitari. Nel 1974 la polizia fece irruzione in un vecchio 
edificio, alla periferia di Erice, in cui era stata segnalata da una fonte 
confidenziale la presenza di terroristi. Quando gli agenti arrivarono, 
Pierluigi Concutelli ed i suoi uomini erano già andati via. Nel corso del 
blitz furono rinvenute tracce della presenza dei terroristi e dell'attività 
compiuta nel campo. Sui muri del casolare erano disegnati bersagli 
circolari. A terra furono ritrovati numerosi bossoli e valvole di radio 
rotte. In un angolo fu rinvenuta una catena che era stata utilizzata per 
issare su un albero una lunga antenna radio. Un altro campo paramilitare fu 
scoperto a Menfi, in provincia di Agrigento. Attività eversive sarebbero 
state effettuate anche presso laeroporto militare Boccadifalco di Palermo. 
Secondo lestremista, l 'obiettivo dell'organizzazione era di riuscire a 
destabilizzare il Paese ed assumerne il controllo. Il piano fu rivelato da 
un terrorista di estrema destra, Luigi Martinesi, che dopo essere finito in 
manette nel 1975 nell'ambito dell'indagine sul sequestro del banchiere 
Luigi Mariano, decise di collaborare rivelando tutti i retroscena del 
rapimento. Raccontò che, durante una riunione a Roma, era stato deciso di 
effettuare quattro sequestri di persona. I proventi sarebbero stati 
impiegati per finanziare l'attività dei gruppi estremisti. Le vittime, 
precisò Luigi Martinesi, erano state scelte dagli stessi promotori 
sull'identità dei quali si rifiutò di rispondere. Il 13 gennaio del 1975 un 
commando rapì a Lainate, in provincia di Milano, l'industriale Egidio 
Perfetti, titolare di un'importante azienda dolciaria con un fatturato 
annuo di svariati miliari di lire. I rapitori chiesero un riscatto di sette 
miliardi. L'imprenditore fu rilasciato il 23 gennaio dopo il pagamento di 
due miliardi. Il primo luglio del 1975 l'avvocato Nicola Campisi, docente 
della facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo, fu sequestrato 
mentre viaggiava al volante della sua auto in direzione di Sciacca. Ai 
familiari giunse una richiesta di riscatto di due miliardi lire. Il docente 
fu liberato l'11 agosto dopo il pagamento di settecento milioni. Il 17 
luglio un commando sequestrò l'esattore Luigi Corleo. Il rapimento destò 
grande scalpore. Luigi Corleo era un personaggio potente. Assieme ai cinque 
fratelli gestiva un patrimonio miliardario accumulato in decenni di gestione 
delle esattorie e con i ricavi provenienti dalle attività delle aziende 
agricole della famiglia. Il genero, Nino Salvo, personaggio discusso per i 
suoi rapporti con la mafia, interpellato dai giornalisti, escluse che il 
rapimento potesse avere delle motivazioni di carattere politico. "Mio 
suocero non si è mai occupato di politica". I rapitori chiesero il 
pagamento di un riscatto di venti miliardi di lire. Luigi Corleo, sofferente 
di coliche e privo di un rene, non fece mai ritorno a casa. Il 23 luglio del 
1975 fu sequestrato a Gallipoli il banchiere Luigi Mariano. I rapitori 
chiesero un riscatto di due miliardi di lire. Luigi Mariano fece ritorno a 
casa il 9 settembre dopo il pagamento di duecentottanta milioni. Giuseppe 
Peri, funzionario di polizia che indagava sul rapimento di Luigi Corleo, 
prendendo spunto dalle dichiarazioni di Luigi Martinesi, ipotizzò che i 
quattro sequestri fossero stati realizzati dal gruppo capeggiato da 
Pierluigi Concutelli "per fini eversivi di autofinanziamento della 
criminalità politica di area neofascista con la collaborazione della 
delinquenza comune". Il 22 agosto del 1977 l'investigatore inviò 
all'autorità giudiziaria un rapporto esplosivo in cui venivano indicati i 
nomi di esponenti dell'estrema destra e personaggi mafiosi che sarebbero 
stati coinvolti nella strategia della tensione. Trentaquattro pagine in cui 
avanzava l'ipotesi che un gruppo capeggiato dal terrorista Pierluigi 
Concutelli avesse agito indisturbato con la complicità della mafia 
rendendosi responsabile di orrendi crimini finalizzati a destabilizzare il 
Paese. "E' esistita ed esiste  scrisse una potente organizzazione dedita 
alla consumazione di sequestri di persona con richiesta di riscatto di 
diversi miliardi per fini eversivi i cui promotori, mandanti dei sequestri, 
vanno ricercati negli ambienti politici delle trame nere ed in ambienti 
insospettabili. Oltre alla consumazione dei sequestri è stata realizzata 
anche la cosiddetta strategia della tensione con stragi ed omicidi di 
persone rappresentative tra i quali quello in danno del sostituto 
procuratore Vittorio Occorsio, atti a creare, criminosamente, lo scontento 
generale, il caos che sarebbe dovuto giovare al pronunciamento dei 
cospiratori". L'investigatore ipotizzò che le telefonate pervenute ai 
familiari di Luigi Corleo durante i giorni delle febbrili trattative erano 
state effettuate da Pierluigi Concutelli. L'estremista di destra era stato 
in Sicilia negli anni in cui erano stati commessi i sequestri ed altri 
crimini. Nel novembre del 1976 una fonte confidenziale aveva segnalato la 
sua presenza nelle campagne di Salemi. La stessa zona in cui, il 17 luglio 
del 1975, erano state rinvenute abbandonate due delle auto adoperate dai 
rapitori di Luigi Corleo. " Si può affermare che movimenti di estrema 
destra, a carattere rivoluzionario scrisse Giuseppe Peri  si siano serviti 
per realizzare sequestri di persona di organizzazioni mafiose operanti 
nelle zone teatro degli stessi sequestri. Le organizzazioni mafiose si sono 
servite di pericolosi pregiudicati di sicuro affidamento e scelti 
soprattutto in loco perché conoscitori delle innumerevoli strade 
interpoderali da percorrere con sicurezza nella fuga con il sequestrato, 
come nei sequestri Campisi e Corleo, e perché più mascherabile 
l'avvicendamento nei turni di vigilanza al sequestrato. Essendo i 
pregiudicati prescelti di alcuna estrazione politica degna di 
considerazione, sarebbe riuscito del tutto impossibile agli inquirenti 
risalire allo scopo politico del sequestro finalizzato al finanziamento di 
gruppi eversivi mandanti". "Che tale potente organizzazione mafiosa 
perseguisse indirettamente dei fini che esulano dal mero conseguimento del 
prezzo del riscatto  affermò Giuseppe Peri in un altro passo del suo 
rapporto  è dimostrato dalla dichiarazione resa dal Campisi Nicola dopo la 
sua liberazione e cioè che ricevuta, dopo due giorni dalla sua cattura, la 
visita, nel cunicolo ove veniva tenuto segregato, di tre individui 
incappucciati, di cui uno con accento romano e l'altro con accento 
settentrionale, costoro gli avevano precisato di non essere dei comuni 
delinquenti ma che agivano per delle finalità non meglio precisate". "Che 
le trame eversive nere, costituite da organizzazioni antiparlamentari, 
abbiano avuto a capo persone insospettabili riunitesi, secondo la 
dichiarazione di Martinesi Luigi a Roma nei primi mesi del 1975 per 
programmare quattro sequestri di persona avvalendosi della delinquenza 
comune e mafiosa  proseguì Giuseppe Peri  è dimostrato dalla specie di 
materiale rinvenuto e sequestrato nell'abitazione del Concutelli Luigi 
nell'atto del suo arresto". Nell'abitazione dell'estremista furono 
rinvenuti dalla polizia cariche di tritolo, bombe a mano, vari rotoli di 
miccia, detonatori, interruttori per comando a distanza di cariche 
esplosive, numerose pistole, due mitragliatrici, un moschetto e centinaia 
di cartucce. Nel corso del blitz furono ritrovati anche due manuali 
sull'impiego degli esplosivi editi dallo Stato Maggiore dell'Esercito, due 
tesserini in bianco del Ministero della Difesa, passaporti e patenti false. 
"Le armi e le munizioni militari ed i trattati sugli usi degli esplosivi, 
usciti da ambienti militari non si sa come, trovati in possesso del 
Concutelli  scrisse Giuseppe Peri   denunziano chiaramente che la matrice 
dei promotori dell'organizzazione va ricercata in ambienti insospettabili. 
E tale organizzazione non ha disdegnato, come dimostrato, di servirsi 
delle potenti organizzazioni mafiose siciliane e calabresi, commettendo 
dei sequestri di persona per realizzare i suoi fini di autofinanziamento. 
Soltanto una circostanza fortuita agli inquirenti di Lecce ha rivelato la 
complessità dell'organizzazione criminosa". Luigi Martinesi era stato 
sorpreso al volante della sua auto mentre trasportava indumenti personali 
del banchiere Luigi Mariano. Sottoposto ad un lungo ed estenuante 
interrogatorio, aveva deciso di collaborare e di rivelare i piani della 
banda. "Di fronte a prove concrete di responsabilità  scrisse Giuseppe Peri 
  Luigi Martinesi ha fornito particolari non immaginabili della stessa 
organizzazione che agiva finalizzando i delitti commessi a scopi politici. 
Ed agendo su campo nazionale, in regioni diverse, difficile e quasi 
impossibile sarebbe stato trovare collegamenti tra i vari gravi delitti, 
cioè tra i vari sequestri di persona, dal momento che, normalmente, le 
indagini vengono ristrette nell'ambito della stessa provincia ove vengono 
consumati. E se si riesce raramente a provare la responsabilità di alcuni 
individui locali o a trovare indizi a loro carico si rimane, purtroppo, 
nella cerchia degli esecutori materiali". Giuseppe Peri indicò nel proprio 
rapporto trentuno nomi di persone coinvolte a vario titolo nei quattro 
sequestri. "Gli elementi di responsabilità raccolti a carico dei 
denunciati su ogni delitto di cui in rubrica e sulla loro associazione a 
delinquere  scrisse il funzionario di polizia  sono le risultanze di un 
obiettivo esame dei vari fenomeni criminosi. I responsabili dei sequestri in 
questione non meritano alcuna attenuante. Il Perfetti Egidio, per tutti i 
giorni della sua prigionia, è stato tenuto in una piccola nicchia legato, 
con la possibilità di uscire il capo da un foro ricavato in una tavola che 
fungeva da porta. E' stato tenuto sepolto vivo! E del Corleo nessuna 
notizia. O è morto per collasso, data l'età avanzata, o è stato cinicamente 
ucciso affinché, una volta rimesso in libertà, non rivelasse elementi 
utili per l'identificazione dei suoi rapitori. Non è stata data nemmeno la 
umana possibilità ai figli di averne la salma per tributare la giusta 
cristiana pietà. Si ha a che fare con belve umane. A chi avrebbero giovato i 
diversi miliardi ricavati o da ricavare dai sequestri di persona in esame? 
Ad individui non identificati, mandanti dietro le quinte, non degni nemmeno 
di alcuna attenuante perché avrebbero voluto, con l'instaurazione violenta 
di una forma di governo, togliere agli Italiani il sommo dei beni: la 
libertà, con messi di lotta basati sulla viltà di crimini infamanti e che 
grondano ancora di sangue. E questi criminali non sanno che la libertà è un 
valore eterno, una prerogativa dello spirito che non si estingue, che si 
rigenera perché, là dove si sopprime si fa violenza alla stessa natura umana 
che ne tollera, soltanto per un breve tempo, le mutilazioni, le 
disarmonie". Indagando sui quattro rapimenti, Giuseppe Peri arrivò ad 
ipotizzare che anche alcune stragi ed omicidi che avevano insanguinato 
negli anni Settanta la Sicilia occidentale erano opera delgruppo capeggiato 
da Pierluigi Concutelli. Una strategia della tensione iniziata con 
l'omicidio del procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, assassinato 
il 5 maggio del 1971 a Palermo assieme all'autista Antonino Lo Russo, e 
proseguita con altri crimini. Un anno dopo quell'agguato, un aereo di linea 
precipitò mentre stava atterrando presso l'aeroporto di Punta Raisi. Sette 
membri dell'equipaggio e centotto passeggeri persero la vita nel disastro. 
Le indagini erano ancora in corso. Gli inquirenti avevano scartato la pista 
dell'attentato propendendo per un errore dei piloti. Giuseppe Peri 
peròformulò un'ipotesi contrastante: "Non è convincente per lo scrivente  
affermò il funzionario di polizia  che sia un caso fortuito che proprio il 
5 maggio del 1971 e del 1972 si verifichino rispettivamente ungrave duplice 
omicidio per discreditare l'Autorità dello Stato ed un disastro aereo che 
getta nel lutto e nell'angoscia numerose famiglie generando giudizi 
perplessi sulla causa. Ci si pone il dilemma: attentato o disgrazia causata 
da improvviso guasto? L'ipotesi dell'attentato è corroborata da circostanze 
obiettive". L'ipotesi era stata formulata, alcuni giorni dopo il disastro, 
da un componente della commissione ministeriale incaricata di fare luce 
sulla vicenda. Il comandante Ferretti aveva avanzato il sospetto di una 
esplosione nella carlinga a seguito di un incendio provocato da un missile 
lanciato daterra. Il sospetto era stato però liquidato e l'inchiesta 
ministeriale si era chiusa alla chetichella dopo appena quindici giorni di 
lavoro. Secondo Giuseppe Peri, l'attentatore era a bordo dell'aereo. La 
bomba avrebbe dovuto esplodere dopo lo sbarco dei passeggeri  ma un  
imprevistoavrebbe fatto saltare i piani provocando la morte dello stesso 
attentatore. "In caso di avarie di strumenti di bordo scrive il funzionario 
di polizia  il pilota avrebbe avuto anche dei secondi di tempo per 
segnalarle a terra al personale di assistenza al volo della torre di 
controllo e ne sarebbe rimasta traccia nella scatola nera. Invece nulla è 
stato detto dal pilota perché l'improvvisa deflagrazione non gli ha dato il 
tempo di farlo. E' da aggiungere che, essendosi verificato un evento diverso 
da quello voluto con la strage di oltre cento persone, logicamente nessuna 
trama eversiva l'avrebbe rivendicato ed anche perché, trattandosi di vittime 
innocenti, non avrebbe conseguito consensi per discreditare loStato alla 
vigilia delle elezioni, anzi avrebbe conseguito una condanna generale". Il 
rapporto di Giuseppe Peri non fu ben accolto dai suoi superiori che 
ritennero le conclusioni dell'investigatore farneticanti. Il 22 novembre 
del 1977 un settimanale locale pubblicò  ampi  stralci  deldocumento. 
Giuseppe Peri, visibilmente contrariato, denunciò la vicenda all'autorità 
giudiziaria. Il primo luglio del 1978 fu trasferito d'autorità alla questura 
di Messina per una missione. Giuseppe Peri ritenne che qualcuno stava 
tentando di distoglierlo dalle indagini vanificando anni di duro lavoro. 
Rifiutò il trasferimento entrando in polemica con il procuratore generale 
di Palermo. Il 29 luglio successivo fu trasferito alla questura di Palermo. 
Trascorse gli ultimi quaranta mesi della brillante carriera in un anonimo 
ufficio escluso da qualunque tipo d'indagine. Il primo gennaio del 1982 fu 
stroncato da un infarto. Le indagini sul sequestro di Luigi Corleo hanno 
imboccato intanto un'altra pista. Negli anni Novanta alcunipentiti hanno 
rivelato che il rapimento fu effettuato dalla mafia trapanese nell'ambito di 
una strategia del clan dei corleonesi volta a lanciare messaggi ai colletti 
bianchi contigui all'organizzazione, rei di avere sgarrato o di non avere 
rispettato determinati patti d'onore. Anche l'indagine sul disastro aereo 
ha imboccato una pista diversa. Nessuno ha voluto credere all'ipotesi di un 
attentato terroristico. Ventitrè anni dopo però un estremista di destra, 
interpellato da Maria Eleonora Fais, sorella di una dei centotto passeggeri 
morti nel disastro, ha rivelato che l'aereo sarebbe stato abbattuto da 
terroristi ed ha sostenuto che lex estremista Stefano Delle Chiaie è a 
conoscenza di tutti i particolari. Forse una bomba piazzata prima del 
decollo da Roma, forse un missile lanciato da terra qualche minuto prima 
dell'atterraggio. L'ex estremista nero non è stato mai ascoltato dai 
magistrati. Trentanni dopo tutti i sospetti avanzati da Giuseppe Peri 
restano in piedi.
Maurizio Macaluso
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15 marzo 2007
C'era chi tornava a casa per riabbracciare la madre. C'era chi veniva in 
Sicilia per il voto. Centoquindici persone persero la vita nel 1972 nel 
disastro aereo di Montagna Longa. Tra loro alcuni vip e sette trapanasi
Centoquattordici salme giacevano allineate l'una accanto all'altra nei 
corridoi dell'Istituto di medicina legale, al policlinico di Palermo. 
Centoquattordici corpi dilaniati dall'esplosione e martoriati dal fuoco. 
"Voglio vedere mio figlio, voglio vedere mio figlio". Angela Guida ripeteva 
ossessivamente queste parole. Lo sguardo duro e gli occhi lucidi di chi ha 
versato tante lacrime. In una mano un fazzoletto. I poliziotti tentavano di 
impedirle di entrare, ma lei non era disposta a desistere. Era arrivata da 
Calatafimi per vedere suo figlio e nessuno sarebbe riuscito a fermarla. 
"Fatemi entrare", ripeteva implorando gli agenti. "Vi prometto che non 
urlerò". I poliziotti, impietositi, la fecero entrare. Angela Guida avanzò 
lentamente lungo il corridoio passando in rassegna le centoquattordici 
bare. Ogni tanto arrestava improvvisamente la marcia pensando di avere 
scorto in un misero corpo i resti del figlio. Quasi tutte le salme erano 
irriconoscibili. Alcuni passeggeri erano stati trovati con le braccia 
alzate ed i pugni serrati sugli occhi. Altri con le mani protese in avanti. 
Per identificare le salme ci si serviva di ogni mezzo. Una cicatrice, una 
protesi dentaria, un brandello di stoffa. Angela Guida si ricordò che da 
giovane suo figlio aveva subito un intervento chirurgico. "Ha una cicatrice 
sul lato destro", disse. I funzionari, seguendo le sue indicazioni, 
controllarono le salme. Lo ritrovarono poco dopo in una delle 
centoquattordici bare. Gli occhi chiusi ed il volto bruciato reso 
irriconoscibile dal fuoco. Angela Guida lo fissò in silenzio. Avrebbe 
voluto piangere ed urlare. Serrò i denti e strinse con forza il fazzoletto 
che si era conficcato in bocca. Poi scorse un brandello di una cravatta e 
capì che era proprio suo figlio. Ora poteva tornare a casa. Ora potevano 
tornare a casa. Sono trascorsi trentacinque anni da quel giorno. Angela 
Guida oggi non c'è più. Tanti protagonisti di questa dolorosa vicenda sono 
morti. Altri hanno tentato di sopravvivere e di dimenticare. La maggior 
parte oggi non ha voglia di parlare e di ricor
dare una vicenda che ha segnato le loro vite. Sull'aereo schiantatosi sulla 
montagna di Palermo la sera del 5 maggio del 1972 viaggiavano centotto 
passeggeri. C'erano un giudice ed un tenente della Guardia di Finanza 
impegnati nella lotta alla mafia. C'era un famoso regista. C'era il figlio 
dell'allenatore di un'importante squadra di calcio. C'erano tante persone 
comuni. Ignazio Alcamo aveva quarantatré anni ed era originario di Trapani. 
Era presidente della prima sezione della tribunale di Palermo e della 
sezione speciale di misure di prevenzione. Era considerato un magistrato 
scomodo. Dal suo ufficio erano partite, poco prima della sua morte, le 
richieste di sottoporre il costruttore edile palermitano Francesco 
Vassallo ed Antonietta Bagarella, moglie del boss Totò Riina, alla misura 
del soggiorno obbligato. Antonio Fontanelli aveva quarantanove anni ed era 
originario di Livorno. Impegnato in importanti indagini di mafia, era stato 
promosso tenente colonnello pochi giorni prima del disastro. Non fece in 
tempo ad indossare la divisa con i nuovi gradi. Franco Indovina era un noto 
regista palermitano. Era finito sulle prime pagine dei più importanti 
rotocalchi per la sua storia d'amore con l'attrice Soraya, ex moglie dello 
Scià di Tehran. Stava tornando a Palermo per votare. Per arrivare in tempo 
all'aeroporto di Fiumicino aveva passato due semafori con il rosso. Il 
giorno seguente sarebbe dovuto ripartire per Roma. Importanti impegni di 
lavoro richiedevano la sua presenza nella capitale. Non riabbracciò mai la 
sua compagna. Soraya, profondamente segnata dalla sua improvvisa scomparsa, 
trascorse il resto della sua vita in completa solitudine, girovagando per 
l'Europa e diventando celebre per la sua depressione. Cestmir Vyckpalec 
aveva ventitré anni. Giocava discretamente a calcio. Aveva militato nelle 
file di una formazione piemontese nel campionato di promozione e nella 
Carrarese. Suo padre era l'allenatore della Juventus. Al momento della firma 
del contratto, aveva chiesto di assumere il figlio alla Fiat. Anche 
Cestimir si recava a Palermo per votare. Il padre avrebbe dovuto 
raggiungerlo la sera successiva dopo la partita di campionato. Non riuscì 
mai a riabbracciare suo figlio. Tra le vittime non note c'era quella che 
sarebbe dovuta diventare la moglie del boss palermitano Giusto Sciarabba. Si 
chiamava Renate Heichlinger. Avrebbero dovuto sposarsi in carcere. La
ritrovarono tra le lamiere dell'aereo. Tra i centotto passeggeri c'erano 
anche sette trapanesi. Antonino Cisarò aveva quarantasette anni. Viveva a 
Calatafimi con i genitori. Insegnava in una scuola elementare. Non si era 
mai sposato e non aveva figli. Era molto legato ai genitori ed ai fratelli. 
"Antonino era una brava persona", dice la cognata, Nicolina Foderà. "Era 
sempre pronto ad aiutare il prossimo ed aveva sempre una parola buona per 
tutti". Quando il fratello, emigrato con la famiglia in Australia, era 
rientrato in Sicilia con la moglie ed i figli Antonino Cisarò si era 
immediatamente prodigato per aiutarlo a trovare un'occupazione. "Antonino 
era molto affezionato alla famiglia", dice Nicolina Foderà. "Sarebbe stato 
disposto anche a farsi in quattro pur di aiutare i suoi fratelli. Mio marito 
faceva il fabbro. In Australia si era specializzato in saldature. Quando 
nel 1970 rientrammo in Sicilia mio cognato lo aiutò a fare un concorso ed a 
trovare un'occupazione in una scuola". Antonino Cisarò aveva un
sogno. Voleva diventare direttore didattico. Il 4 maggio era volato a Roma 
per vedere i risultati di alcuni esami che aveva affrontato e comprare dei 
libri. "Il giorno prima della partenza avevamo pranzato assieme", ricorda la 
cognata. "Era sereno ed allegro come sempre". Nicolina Foderà sorride. Poi, 
all'improvviso, il suo volto si fa scuro e malinconico. Nella sua mente 
riaffiorano i ricordi di quella maledetta sera in cui suo cognato perse la 
vita. La notizia arrivò a Calatafimi ventiquattro ore dopo la tragedia. La 
mattina seguente i quotidiani riportavano la cronaca del disastro ed i nomi 
dei passeggeri deceduti nello schianto. "Ogni giorno, prima di mettersi in 
viaggio per Trapani, mio marito si recava al bar in piazza", racconta 
Nicolina Foderà. "Quando rientrò mi disse che al suo passaggio la gente lo 
aveva fissato ed aveva mormorato. Ci chiedemmo entrambi perché ma non 
riuscivamo a trovare una spiegazione. Non potevamo immaginare minimamente 
ciò che era accaduto. Alcuni minuti dopo venne a trovarci un nostro cugino. 
Ci comunicò che l'aereo era precipitato e che non c'erano superstiti. Poi 
arrivò anche mia suocera. Aveva appreso la notizia ed era preoccupata. 
Tentai di rassicurarla anche se sapevo che mio cognato era morto. Come 
potevo dire ad una donna di ottant'anni che suo figlio era morto?". Nicolina 
Foderà fa una breve pausa e poi riprende il suo racconto. "Mio marito 
partì immediatamente per Palermo. Mia suocera decise di andare con lui. 
Tentammo in tutti i modi di convincerla a restare a casa ed attendere il 
ritorno di mio marito ma non riuscimmo a fermarla. Fu lei a riconoscere la 
salma. Promise che non
avrebbe pianto e non lo fece. Neanche al momento dei funerali cedette alla 
commozione. Durante il corteo funebre pregava. Era una donna forte ed una 
fervente cattolica. Mio suocero era invece una persona schiva e silenziosa 
che non esternava mai i propri sentimenti. Da quel giorno divenne ancora 
più taciturno. La scomparsa di suo figlio l'aveva profondamente segnato. 
Se ne andò due anni dopo il disastro". Vincenzo Martino era di 
Castelvetrano. Gestiva con la moglie un negozio per la vendita di calzature 
nel centro della città. Non avevano figli. Vivevano con una nipote che 
amavano come una figlia. Dopo la sua morte sua moglie fu vittima di una 
crisi depressiva. Incapace di rassegnarsi alla scomparsa del marito e di 
continuare a vivere senza di lui alcuni anni dopo il disastro decise di 
togliersi la vita. Anche Francesco Pomara era di Castelvetrano. Aveva 
trentacinque anni. Viveva con i genitori ed i fratelli. La sua improvvisa 
scomparsa sconvolse i suoi familiari. Negli anni successivi i genitori 
dovettero affrontare altri terribili drammi. L'altro figlio, chiamato a 
svolgere il servizio di leva, morì a causa di un incidente. Mentre stava 
rientrando con alcuni compagni da un poligono un proiettile partì 
all'improvviso dal fucile di un commilitone colpendolo mortalmente. Anche la 
sorella morì, stroncata da una terribile malattia che non le lasciò scampo. 
Antonino Fontana era originario di Trapani ma viveva con la famiglia a 
Palermo. Tornava a casa per celebrare il compleanno della sua bambina. Lo 
ritrovarono morto tra le lamiere dell'aereo. Anche Santo Novara tornava a 
casa per riabbracciare i suoi familiari. Era originario di Mazara del Vallo. 
Alcuni anni prima aveva deciso di emigrare in Svizzera. Aveva trovato una 
occupazione in una fabbrica in cui venivano prodotti orologi. Tornava a 
casa per fare visita alla madre. Lasciò la moglie e due figli. Francesco e 
Sebastiano erano ancora due
bambini. Sono dovuti crescere senza un padre. Sono due dei tanti orfani di 
questa terribile tragedia. Anche Paolo Di Maio era di Mazara del Vallo. 
Giovanni Cavataio era invece di Alcamo. Anche lui era un emigrante. Alcuni 
anni prima
era andato in Germania. Tornava a casa per riabbracciare i suoi familiari. 
Dopo trentacinque anni, i familiari delle vittime di questo terribile 
disastro non sanno ancora perché i loro congiunti sono morti. C'è una verità 
ufficiale secondo cui si è trattato di un incidente. Una tragica fatalità 
che non è stato possibile evitare. C'è però anche un'altra verità che Maria 
Eleonora Fais, sorella di una delle vittime, ed altri familiari, chiedono 
con forza da anni di accertare. C'è una borsa dilaniata dall'interno. C'è un 
corpo che non è mai stato identificato. C'è un uomo che sostiene che si è 
trattato di un attentato. Alcune mogli e figli delle vittime, che non hanno 
alcuna voglia di dimenticare, chiedono di capire. Chiedono di riaprire le 
indagini e di accertare se si sia trattato effettivamente di un attentato 
terroristico. In una lettera inviata il 23 marzo del 2003 all'autorità 
giudiziaria quindici figli della vittime hanno scritto: "Era una mite serata 
di maggio, senza vento, nulla faceva presagire la tragedia che in pochi 
secondi avrebbe sconvolto la vita di un'intera cittadinanza. Era il 5 
maggio del 1972. Su quell'aereo c'erano i nostri genitori. Eravamo bambini. 
Non sapevamo che quel giorno avrebbe segnato l'inizio di una vita di quesiti 
ai quali, a tutt'oggi, nessuno
ha saputo o voluto dare una risposta: a che ora è caduto l'aereo? E' caduto 
o è esploso? E' stato un tragico incidente causato dal cattivo 
funzionamento della strumentazione di bordo o un misterioso attentato? 
C'erano le elezioni politiche dopo pochi giorni e su quell'aereo c'erano 
anche personalità di spicco. Perché i corpi erano tutti privi di scarpe? 
Perché Franco Indovina è stato trovato disintegrato (di lui sono state 
trovate solo la protesi dentaria ed un documento d'identità) mentre altri 
corpi sono stati trovati quasi integri? Perché l'autopsia è stata fatta 
solo sui corpi dei due piloti? Perché una borsa risultava dilaniata 
dall'interno? Perché il nastro della scatola nera risulta strappato? Chi era 
la vittima il cui corpo non è mai stato identificato? Perché è stata data la 
colpa ai piloti?". Trentacinque anni dopo Maria Eleonora Fais e gli altri 
familiari delle vittime continuano a chiedere giustizia. La verità però 
sembra ancora inesorabilmente lontana.
Maurizio Macaluso
Settimanale "Quarto Potere del 15-03-2007"
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23 marzo 2007
Nuove clamorose rivelazioni sul disastro aereo di Montagna Longa. Un ex 
estremista di destra rivela che l'aereo fu abbattuto da terroristi che 
operavano con la complicità della rete paramilitare di Gladio
E stata una strage di Stato
C'è un patto segreto, una verità nascosta che nessuno fino ad oggi ha 
rivelato. L'aereo schiantatosi la sera del 5 maggio di trentacinque anni 
fa sulla montagne di Palermo fu abbattuto da terroristi di estrema destra 
che operavano con la complicità e la copertura dei vertici di Gladio, la 
rete paramilitare segreta costituita dopo la seconda guerra mondiale in 
Italia con il compito di contrastare una eventuale invasione dei comunisti, 
finita nel passato al centro di tante inchieste giudiziarie. È questo 
l'ultimo clamoroso segreto riferito da Alberto Volo, un ex estremista di 
destra siciliano, che ha rivelato l'esistenza di un piano per 
destabilizzare il Paese. "Se vuole scoprire la verità deve uscire dalla 
logica di destra e sinistra ed entrare in quella dei servizi segreti". Maria 
Eleonora Fais, sorella di uno dei centotto passeggeri morti nel disastro 
aereo, che alcuni anni fa ha incontrato l'ex estremista, non ha dimenticato 
queste parole. Alberto Volo, chiamato il professore, ha oggi cinquantotto 
anni. Negli anni Settanta era uno dei tanti giovani che militavano in 
un'organizzazione sovversiva che operava a Palermo e nel resto della 
Sicilia occidentale. L'ex estremista, che alcuni anni fa ha accettato di 
incontrare Maria Eleonora Fais, ha raccontato che il gruppo agiva alle 
dipendenze dei servizi   segreti   e   percepiva compensi dallo Stato. Le 
direttive arrivano direttamente dai vertici di Gladio. Importanti documenti 
confermano che la rete clandestina paramilitare era già operativa nell'isola 
negli anni Settanta. Non vi è alcuna prova però di un collegamento con 
gruppi terroristici ed organizzazioni criminali che hanno operato in 
Sicilia. Tutte le inchieste giudiziarie hanno escluso coinvolgimenti dei 
servizi segreti in attività illecite. I vertici di Gladio hanno ribadito con 
forza che la struttura militare avrebbe operato legittimamente senza avere 
alcun contatto con personaggi ambigui coinvolti in tentativi di eversione. 
L'ex estremista Alberto Volo però ha riferito particolari e circostanze 
importanti che necessiterebbero quantomeno di una verifica. Il gruppo di 
cui faceva parte aveva una sede nel centro di Palermo, a poche centinaia di 
metri dal teatro Politeama. L'organizzazione era dotata di armamenti ed 
attrezzature sofisticate. Gli estremisti, ha raccontato Alberto Volo, 
sarebbero stati in possesso anche di proiettili al curaro, una sostanza 
chimica tossica che non lascerebbe traccia, di cui erano in dotazione i 
servizi segreti. L'ex estremista, racconta Maria Eleonora Fais, che da 
anni si batte per accertare la verità sulla morte della sorella e degli 
altri centosette passeggeri, ha riferito che il suo gruppo era stato 
incaricato di compiere una serie di attentati al fine di destabilizzare il 
Paese ed impedire la presa del potere da parte dei comunisti e di eliminare 
alcuni rappresentanti delle istituzioni che erano corrotti. Un'azione, la 
prima, che rientrava nei compiti e nella strategia portata avanti da 
Gladio, istituita con l'obiettivo di evitare l'avanzata dei comunisti, e 
dalla CIA. In questo contesto sarebbe maturata la decisione di abbattere il 
DC8 schiantatosi il 5 maggio del 1972 sulle montagne di Palermo qualche 
minuto prima dell'atterraggio. Alberto Volo ha raccontato che quella sera 
doveva imbarcarsi sull'aereo diretto in Sicilia. Qualche minuto prima della 
partenza gli fu consigliato però di non partire. Chi e perché gli disse di 
non imbarcarsi? L'ex estremista non ha voluto rivelare il nome 
dell'informatore. Maria Eleonora Fais ha però un sospetto. "Negli anni 
Settanta operava all'aeroporto di Roma Mio Baccarini, estremista di destra 
con residenza a Beirut in contatto con i servizi segreti israeliani", dice. 
Julio Baccarini era considerato un personaggio pericoloso dalle fonti 
informative comuniste. Fu effettivamente lui a consigliare ad Alberto Volo 
di non partire? L'ex estremista siciliano, che non ha mai partecipato a 
stragi compiute dai gruppi eversivi, non è stato in grado di riferire altri 
particolari sull'attentato. Ha comunque precisato che il
terrorista Stefano Delle Chiaie, uno dei leader dell'estremismo di destra, 
sarebbe a conoscenza di tutti i particolari. Dopo l'era degli attentati e 
delle stragi, i servizi segreti avrebbero
troncato i legami con i gruppi terroristici. Numerosi estremisti, diventati 
personaggi scomodi, sarebbero stati eliminati. Tanti amici di Alberto Volo 
sarebbero stati uccisi. Altri sarebbero stati arrestati. Anche l'ex 
estremista palermitano sarebbe finito nel mirino dei servizi segreti. Dopo 
essere stato convinto a fare una rapina in un supermercato sarebbe stato 
sorpreso in flagranza dalla polizia ed arrestato. Una volta in carcere, ha 
raccontato l'ex estremista nel corso di un incontro con Maria Eleonora 
Fais, sarebbe stato selvaggiamente picchiato da un funzionario dei servizi 
segreti coinvolto successivamente in una clamorosa vicenda giudiziaria a 
Palermo. Alberto Volo, che si era dichiarato pronto a riferire ciò che sa 
agli inquirenti, non è mai stato convocato dai magistrati. L'ex estremista 
è rimasto coinvolto, un anno fa , in un'inchiesta su un giro di diplomi 
falsi. Per le
centotto passeggeri e dei sette membri dell'equipaggio deceduti nel 
disastro aereo di Montagna Longa è frutto di una tragica fatalità. Ma Maria 
Eleonora Fais insiste e rivela l'esistenza di un filmato inedito che 
potrebbe consentire la riapertura delle indagini. "Si tratta di un vecchio 
filmato amatoriale realizzato da un anziano di Terrasini che si recò sul 
luogo del disastro poche ore dopo lo schianto", spiega. "Molti cadaveri 
erano completamenti nudi, bianchi e gonfi. Una condizione che non è 
assolutamente compatibile con l'ipotesi dell'incidente formulata dagli 
inquirenti". "L'aereo è stato abbattuto", ribadisce Maria Eleonora Fais 
che, dopo essere venuta in possesso del filmato, lo la mostrato 
immediatamente ad un esperto ed ha scoperto che i suoi sospetti sarebbero
fondati. "Il dottore Paolo Procaccianti, dell'Istituto di medicina legale di 
Palermo, mi ha detto che da un primo esame sembrerebbe che la morte sia 
dovuta ad uno spostamento ''aria provocato da un'esplosione". Ma per potere 
affermare con certezza che si sia trattava di un attentato servono prove. 
Bisogna innanzitutto scoprire se sull'aereo vi era la presenza di esplosivo. 
Un accertamento che sarebbe possibile effettuare riesumando le salme delle 
vittime e sottoponendole d una perizia balistica. "Chiederò che venga 
riesumato il corpo di mia sorella", dice Maria Eleonora Fais. "Per anni le 
autorità hanno ostinatamente rigettato ogni nostra inchiesta. Non possono 
ancora, dopo trentacinque anni, continuare a sostenere che si è trattato di 
un incidente e nascondere la verità".
Maurizio Macaluso
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Antonio Cavataio, figlio di una delle vittime del disastro aereo, racconta 
il suo dramma di orfano. Dopo la morte del padre finì in un collegio di 
Milano e fu costretto a crescere senza genitori. Oggi chiede giustizia
La montagna del dolore
Il piccolo Antonio batteva i piedi ed urlava. "Non piangere", gli diceva sua 
madre. "Qui starai bene. Ci sono tanti bambini con cui potrai giocare. Io 
verrò presto a trovarti". Si chinò verso di lui e, dopo averlo abbracciato, 
s'avviò lungo il corridoio. Antonio tentò di seguirla ma le suore lo 
trattennero. La fissò in lacrime mentre la vedeva scomparire dietro una 
porta. Odiò sua madre. Odiò suo padre che era partito all'improvviso per 
l'America senza neanche salutarlo e non aveva fatto più ritorno. Antonio 
era piccolo. Non sapeva che suo padre era morto in un disastro aereo. Sono 
trascorsi trentacinque anni da quel giorno. Antonio Cavataio è oggi un 
uomo. Ha una moglie e tre figli. Ha scoperto la terribile verità sulla fine 
di suo padre. Giovanni Cavataio aveva trentotto anni. Viveva con la moglie 
ed i quattro figli ad Alcamo. Gestiva una rivendita di frutta. Era un 
marito ed un padre affettuoso. Era disposto a fare qualunque sacrificio per 
i suoi figli. "Io ero un bambino vivace", racconta Antonio Cavataio. "Nella 
primavera del 1972, mentre giocavo, infilai le dita in una presa della 
corrente elettrica dietro al frigorifero e mi bruciai. Mio padre contattò 
immediatamente un amico a Bologna dove c'era un grosso centro di chirurgia 
plastica Gli dissero che avrebbero potuto operarmi. Alcune settimane dopo 
ci recammo a Bologna per l'intervento chirurgico. L'operazione riuscì 
perfettamente. Il 5 maggio mio padre decise di rientrare in Sicilia. 
C'erano le elezioni e lui non voleva mancare. Io restai in ospedale con mia 
madre. Fu l'ultima volta che vidi mio padre. Al ritorno a casa mi fu detto 
che era partito per l'America". Il piccolo Antonio attese invano il 
ritorno del padre. Ogni volta che chiedeva alla madre ed ai nonni otteneva 
risposte sfuggenti. I giorni trascorsero inesorabili e presto il piccolo 
Antonio non interrogò più i suoi familiari. Sua madre, sconvolta 
dall'improvvisa perdita del marito, decise di lasciare la Sicilia e di 
trasferirsi nel settentrione. "Inizialmente portò con lei soltanto me", 
racconta Antonio Cavataio. "Andammo a vivere a Milano. Mia madre trovò un 
lavoro in un ristorante. Non stava mai in casa e non aveva tempo per 
occuparsi di me e quindi decise di portarmi in un orfanotrofio. Mi ricordo 
che quando mi lasciò compresi subito ciò che stava accadendo. Iniziai ad 
urlare ed a battere i piedi". Il piccolo Antonio restò a lungo in collegio. 
Presto fu raggiunto da due dei tre fratelli. Il quarto, ancora piccolo, fu 
affidato ad una famiglia. Ogni sabato la madre andava a prendere lui ed i 
suoi fratelli per il fine settimana. Alla vigilia dell'estate il nonno 
arrivava dalla Sicilia per portarli a casa per le vacanze. All'età di sette 
anni Antonio fece una terribile scoperta. "Un giorno, mentre ero in Sicilia, 
mi fu detto che mio padre non era mai andato in America. Scoprii con grande 
sorpresa che l'aereo sul quale si era imbarcato era precipitato e lui era 
morto. Mi  sentii  terribilmente  in colpa. Pensai che se io non mi fossi 
bruciato non saremmo mai andati a Bologna e lui non sarebbe mai salito su 
quel maledetto aereo". Antonio Cavataio fa una pausa e poi aggiunge: "Ho 
vissuto per anni con questo senso di colpa. Non potete neanche immaginare i 
pianti che mi sono fatto nei bagni delle camerate". Antonio rimase in 
collegio per circa dieci anni. Quando uscì andò ad abitare con la madre, che 
nel frattempo si era risposata. "Non ho vissuto molto con loro", racconta. 
"In estate conobbi una ragazza romana. Me ne innamorai e decisi di 
trasferirmi nella capitale". Antonio Cavataio oggi ha superato i terribili 
sensi di colpa che lo hanno afflitto per anni e si è riconciliato con suo 
padre. Alcuni anni fa si è recato sul luogo del diastro. "Volevo vedere dove 
era morto mio padre", racconta. "Ho fermato la macchina ai piedi della 
montagna ed ho proseguito a piedi. Quando sono arrivato in cima sono 
scoppiato in lacrime". Qualche mese fa Antonio Cavataio ha fatto un'altra 
terribile scoperta. Consultando un sito internet dedicato alla tragedia, 
realizzato da alcuni familiari delle vittime, ha appreso che la fine di suo 
padre e degli altri passeggeri potrebbe non essere stata una tragica 
fatalità. "E' stato uno shock", dice. "Sin da piccolo mi avevano detto che 
l'aereo era precipitato a causa di un errore dei piloti. Ho   dovuto   
rimettere   in discussione tutto ciò in cui fino a quel momento avevo 
creduto". Antonio Cavataio si è immediatamente messo in contatto con i 
familiari di altre vittime. Ha conosciuto altri ex bambini che hanno perduto 
il padre nel disastro e che sono stati costretti come lui a crescere senza 
un genitore. Ilde Scaglione è una di loro. Suo padre, Mario, era un 
funzionario di un'importante compagnia petrolifera. Stava tornando da un 
viaggio di lavoro. Ilde Scaglione ricorda nitidamente quel maledetto giorno 
in cui suo padre non fece ritorno a casa. Per anni ha letto con ingordigia 
ogni notizia sullincidente cercando di capire. Oggi si batte per la verità. 
"Non ho mai creduto che si sia trattato di un incidente", dice. "I piloti 
erano persone esperte che non avrebbero mai compiuto un errore del genere. 
Penso che l'ipotesi dell'attentato sia molto plausibile. Eravamo in un 
periodo politico difficile. In varie parti della Sicilia erano stati 
compiuti diversi atti terroristici. L'inchiesta purtroppo è stata condotta 
in maniera superficiale. Alcuni corpi sono stati disintegrati. Eppure 
nessuno ha pensato di disporre una perizia balistica per rilevare 
l'eventuale presenza di esplosivo. Ma c'è di più. Non sono stati neanche 
raccolti gli orologi delle vittime per vedere a che ora si erano fermati. 
Sin dall'inizio vi è stata la convinzione da parte degli inquirenti che si 
fosse trattato di un incidente". "Noi siamo stati trattati malissimo dalle 
istituzioni", aggiunge Ilde Scaglione. "Non abbiamo ottenuto giustizia. Per 
essere ammessi tra i beneficiari degli interventi disposti in favore dei 
familiari di altri disastri aerei abbiamo dovuto protestare e batterci". 
Dal 2004 i figli, nati o residenti in Sicilia, delle vittime del disastro 
aereo di Montagna Longa, che non abbiano superato il quarantacinquesimo 
anno d'età e non siano dipendenti pubblici, possono chiedere di essere 
assunti alla Regione Siciliana. Ilde Scaglione è una di coloro che hanno 
già beneficiato di questa iniziativa. Anche Antonio Cavataio vorrebbe 
presentare domanda. Attualmente lavora per una ditta presso l'aeroporto di 
Fiumicino, lo stesso da cui suo padre partì quella maledetta sera senza mai 
fare ritorno. "Spero di riuscire ad essere assunto presso gli uffici 
distaccati di Roma", dice. "Sembra che vi siano dei problemi ma spero che 
riusciremo a superarli. Non posso trasferirmi in Sicilia. La mia vita è 
qui. Con mia moglie, i miei figli ed i miei suoceri, che sin dall'inizio mi 
hanno accolto a braccia aperte, ho trovato quella famiglia che non avevano 
mai avuto".
Maurizio Macaluso
Settimanale "Quarto Potere" del 23-03-2007"
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