[NuovoLab] IL TEMPO E I LUOGHI CHE VIVIAMO

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著者: zapata@dirittinrete.org
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題目: [NuovoLab] IL TEMPO E I LUOGHI CHE VIVIAMO
IL TEMPO E I LUOGHI CHE VIVIAMO

Permeare il governo con le istanze dei movimenti.

“Permeare il governo con le istanze dei movimenti”,
suonava grossomodo così la scommessa che una parte della
sinistra del nostro paese ha provato a giocare in questo
ultimo anno.
Una scommessa “giocata” a conclusione di un percorso che
è riuscito, nei suoi “momenti migliori”, a mettere in
discussione, se non la forma partito in quanto tale, il
ruolo dei partiti nella loro articolazione con i movimenti.
Un percorso che affrontava i nodi della rappresentanza,
sancendo ed indagando la crisi di forme e pratiche,
espressione di una mediazione “novecentesca” del
conflitto sociale.
Un percorso che praticava la sperimentazione di forme di
società e partecipazione “altre” che ponevano in crisi
i luoghi della decisione e del comando e rivendicavano il
diritto a rappresentarsi da sole.
Un percorso fatto da chi affermava che “fare politica”
significasse sottrarsi alle mediazioni e praticare l’altro
mondo possibile, quello che rifiuta la guerra globale e le
logiche di sfruttamento.
Un percorso che trovava nella disobbedienza alle leggi
ingiuste una risposta al tema strumentale della legalità e
nella pratica del conflitto di massa e del consenso un
terreno di confronto per uscire dalla dicotomia
violenza/nonviolenza.
Un improvviso “realismo” ha, in nome della più grigia
ragion di stato e di governo (governo come valore
trascendente in sé) riportato alcuni dei protagonisti di
quel percorso, a negarlo.
Con il rischio, evidente, di fare il contrario di quanto
scommesso, ossia “permeare i movimenti con le istanze di
governo”, con le pratiche della “governance”, con il
disciplinamento dei conflitti.
Sullo sfondo, la riscoperta della virtù dell’obbedienza,
pena l’espulsione, esercitata in modo isterico, tipica di
quella cultura dalla quale si proclamava di voler uscire.
Dopo aver partecipato all’esperienza dei forum sociali,
dopo aver contribuito alla nascita del laboratorio del
“Carlini” ed a quelle giornate che nel luglio del 2001
mettevano in discussione l’oligarchia imperiale, le forme
della partecipazione, della rappresentanza, violando in
centinaia di migliaia la “zona rossa”, si sbandiera oggi
“l’autonomia del politico”.
L’altro mondo possibile svenduto in cambio del
campanellino col quale presiedere Montecitorio, magari per
sancire il “SI” alla guerra globale permanente, non
più nella versione unilaterale alla Bush ma nella sua
riarticolazione multipolare.
Un SI unanime, senza soluzione di continuità alcuna con le
poltiche degli ultimi anni, un SI espresso in un luogo dove
pare sia impossibile – sennò torna berlusconi –
proseguire nel fermo rifiuto della guerra globale senza se e
senza ma.
In alcun modo si è rivelato possibile incidere sui temi
non solo della guerra, ma anche del reddito e del lavoro,
del proibizionismo, delle migrazioni,
dell’autodeterminazione e della libertà di scelta sul
corpo, sulla propria vita e sugli affetti, così come sul
tema dei diritti civili.
Lettera morta resta, come era prevedibile, anche la promessa
di una commissione di inchiesta sui fatti del g8, sebben
prevista nel mitico “programma”.
Proprio i terreni sui quali si è mossa la sperimentazione
comune di questi anni, incidendo su un dibattito che ha
travalicato confini ed oceani.
Nel campo di questa pratica della “governance”, si
esercita un mandato che , a seconda del tema, risponde alla
logica sovrastatale della guerra globale , delle direttive
di confindustria, degli indirizzi di BCE ed FMI, e, in
ultima istanza, degli integralismi vaticani.
Tutto ciò, con il rischio concreto di indebolire i
movimenti, ricattati dalla “governamentalità”.
Nel frattempo, ancor di più cresce la frattura tra la
politica dei partiti ed i territori, tra oligarchie degli
eletti e le istanze che si diceva di voler rappresentare,
tra lo spazio dove si muove la moltitudine e quello occupato
dal ceto politico impegnato nell’astratta difesa del
potere.
“Caminano”, in una direzione che non è la nostra, e se
qualcuno “pregunta”, lo si espelle.
Questi aspetti si articolano anche nel territorio, in vista
delle elezioni amministrative.

Le elezioni amministrative a Genova

Le primarie del centro-sinistra genovese e, per quanto è
dato intendere anche la campagna elettorale delle prossime
elezioni amministrative, hanno riprodotto e riprodurranno
quella stessa logica che soffoca, a nostro avviso, la
politica nazionale.

Tralasciando il dibattito, tutto interno al costituendo
Partito Democratico, sugli equilibri fra DS, Margherita ed
imprenditori cittadini che ha caratterizzato lo scontro fra
Marta Vincenzi e Stefano Zara, sembra più interessante
fare qualche valutazione sul progetto della candidatura
Sanguineti, che in qualche modo voleva essere una proposta
anche per quella parte di società civile che ha costruito
assieme l’esperienza dei forum sociali.

Ebbene questo progetto ha avuto, in uno scenario come quello
descritto, l’unico esito possibile: un esito negativo.

Negativo in termini numerici: si è ridotta al lumicino
l’agibilità di quelli che lo sostenevano, a vantaggio,
con l’entrata in campo di Zara, della sola dialettica tra
le due anime di ceto politico del “partito democratico”.

Negativo in termini politici perché quel progetto – la
“sinistra europea”…al “pesto”, (Genova
anticipatrice di un percorso nazionale di aggregazione con
componenti in uscita dai DS ) - si presentava come :

a) Subalterno, perché frutto di uno smottamento di ceto
politico che è conseguente al percorso intrapreso dai DS
verso il Partito Democratico e di conseguenza freddo,
personalistico, distante dalla città, ad uso di ceto
politico in cerca di collocazione

b) Sideralmente distante da quell’immagine di Genova -
laboratorio ed esperimento di dibattito, contaminazione e
pratiche di ribellione- che aveva caratterizzato le
esperienze di costruzione del luglio 2001 come quelle degli
anni successivi al G8, distante da una discussone sui
bisogni e su un’idea differente di città, distante
infine dai percorsi nati in questi anni nel sociale e nei
territori.

L’esito delle imminenti elezioni pare scontato, e già
ora i partiti, sulla “testa” dei territori, giocano il
risiko delle poltrone (non ci si può scandalizzare
moralisticamente: questo sono e possono essere i partiti).
Di anno in anno, non esiste una risposta al problema della
casa, diminuiscono le risorse per il welfare e con esse la
qualità dei servizi e le sicurezze di chi vi lavora,
continuano le iniziative di privatizzazione ed
esternalizzazione dei servizi essenziali ed il loro costo
per gli utenti.
Il confronto cittadino prosegue nella promozione di questa e
quell’altra speculazione, contro i territori e in una
scellerata logica di “sviluppo”, si cercano risorse per
il terzo valico o l’ inceneritore (vertenze che "dentro"
il palazzo posson solo esser subite e gestite, e che solo
nello spazio del protagonismo sociale possn esser vinte).

Lo spazio dell’autonomia

Un dibattito di questi giorni ci sembra sintomatico e
rappresentativo della difficoltà per le istanze e le
pratiche di movimento di sopravvivere fra le strette pareti
della “governance”: la riflessione, nata dalla scomposta
reazione del presidente della Camera ad una contestazione di
alcuni studenti romani, su cosa sia dentro e cosa sia fuori
dalla “politica”, su cosa significhi “fare
politica”.
Se “politica”, nel senso più proprio, significhi
gestire l’esistente al “meno peggio possibile” o
significhi invece tentare di costruire un mondo “altro”,
diverso e possibile.
Chi, di fronte all’arroganza e all’impotenza di quel
palazzo che non sa dire NO alla guerra, non intende
accettare l’inevitabilità dell’impotenza , non può
esser ridotto a mera espressione dell’antipolitica, magari
opponendo loro la “non violenza”, mentre si avvalla la
violenza della guerra.
Antipolitico è invece chi rinuncia alla politica come
pratica per la trasformazione e per il cambiamento,
riducendo e subordinando discriminanti valoriali come
l'opposizione alla guerra alla tenuta di un governo.
E' solo nello spazio dell'autonomia delle lotte sociali,
indifferenti alle sorti ed agli sbocchi governativi, che si
può esercitare il cambiamento: lotte che nella logica di
"governo", non solo non trovano sbocco, ma rischiano anzi di
venir ingabbiate.
La “strategia” pronta, la “ricetta”confenzionata,
non la abbiamo, ma constatiamo che non si trova nella
strettoia della “governance” dove può esercitarsi solo
compatibilità.

Partendo dal tempo e dai luoghi che viviamo, maggiore deve
esser la capacità di lettura di bisogni e delle
trasformazioni, di ricercare e di sperimentare, di imporre
l’agenda, di costruire percorsi che facilitino il
dispiegarsi del conflitto, più alta la capacità di
valorizzare la grande ricchezza che siamo, le soggettività
che esprimiamo, riflettendo anche sui limiti espressi negli
ultimi tempi così come sulle potenzialità.

Senza “ricetta”, pensiamo tuttavia di sapere in che
direzione cercarla, dove costruire: nello spazio
dell’autonomia delle lotte sociali, nel rifiuto
dell’obbedienza, nella costruzione di percorsi che dai
territori riescano a mettere in crisi la sovranità
imperiale, nel pensare un mondo che davvero contenga tanti
mondi, contro i ricatti di chi, delle logiche della
"govenance", si è eretto a guardiano.

Centro Sociale Zapata