leggo solo oggi e rigiro da Il Manifesto del 23 marzo 2007 questo punto di
vista.
giovanna caviglione
intervento
Perché voterò sì alla missione
La pace ha bisogno di azioni concrete e costruzioni difficili. Non di
retoriche. Nella ricerca di una via d'uscita che non potrà che essere lenta,
in Afghanistan come in tutto il Medio oriente
Lidia Menapace*
Tra noi sembra talora non correre più parola, ma solo lingua e spesso di
grado zero, automatica, meccanica, sicché ad alcune formule magiche segue
una catena di espressioni prevedibili, non inventive. Sono invece convinta
che la necessità di innovazione simbolica e politica sia oggi massima e
rischiosissima; ma il riposante rassicurante linguaggio degrè zero non è
meno pericoloso, anzi, e in più non aiuta a capire.
Mi rendo conto che è un inizio predicatorio: amen!
Ma sono così attaccata ad ascoltare tutti i fruscii, a scrutare le crepe, a
guardare il minimo increspamento su una superficie di eventi politici tutti
gommosi, grigi e insensati, che quasi mi metterei a ribattere con giudizi
mali a chi obietta senza avere fatto una minima analisi del reale.
A me sembra -ad esempio- che fiumi di retorica scatenati ogni volta che si
accenna a qualsiasi fatto patriottardo, dicano - più di molte definizioni
dottrinarie - che la cultura militarista e la scelta della guerra hanno
fatto molti passi avanti in questi ultimi dieci anni e che la parola della
pace è diventata flebile.
Proprio per questo bado in modo ossessivo a qualsiasi crepa si apra nel
compatto orizzonte bellico violento razzista prefascista che ci sta a fianco
e intorno.
Ad esempio i minimi spostamenti dell'opinione statunitense sono una di
quelle crepe, e hanno carattere complesso perché mettono insieme pacifisti e
veterani, un popolo composito e incerto, ma visibile. Ad esempio la precisa
costituzionale protesta di militari germanici è un'altra di altri non
sommabili caratteri. E il Libano è una fragile cesura che regge, e ripete e
consolida lo jato. E la conferenza di Baghdad e l'annuncio della proposta
della conferenza in Afghanistan. Sono eventi sommabili? No ma nemmeno sono
disomogenei e la costruzione di un tessuto comune è una difficile operazione
non immaginaria. Da loro e per questo il Libano è una fragile incrinatura e
un argine che consolida la piena, e forse fa sperare che si possa mettere un
freno al massacro.
Se insieme in più punti sensibili si palesano crepe e falde e faglie e
qualche apertura si vede, credo sia assolutamente necessario aiutarla,
assisterla, alitarci intorno: è una cosa preziosa, insidiata.
Se tra noi e il popolo afghano cadessero sangue e vendette, la situazione
precipiterebbe in un punto importatissimo. Ma se insieme alcuni paesi
europei, un po' di opinione statunitense, una serie di studiosi e analisti,
donne agfhane, irachene, palestinesi israeliane, siriane, libanesi inventano
una qualche lenta via d'uscita dobbiamo fare di tutto perché le prime
movimentazioni che avvengono in vari punti si saldino almeno in qualche
angolo e aprano un piccolo varco.
E' una cosa certa? Di certo non vi è nulla e il rischio è altissimo: ma se
non ci buttiamo dietro le spalle parole magiche ripetute come giaculatorie e
coazioni a ripetere un passato che è rovinoso sia che fosse di vergogna o di
gloria, non ce la faremo. Sembrerà strano, ma questa è la ragione
fondamentale per la quale voterò le proposte del governo, in ordine alle
missioni e mi butterò a lavorare per tracciare collegamenti, tenere aperte
porte, e ponti e colloqui e conferenze, non potrei fare altro, da niente
altro potrei concepire una qualche altra speranza.