[NuovoLab] Sulla:Stai di qui o di la'?

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Stai di qui o di là?
Pierluigi Sullo

Credo proprio che la lettera di Marco Revelli a Fausto Bertinotti [nel settimanale di Carta ora in edicola], come i suoi precedenti interventi sul manifesto, abbiano aperto uno spiraglio in una rissa confusa in cui a ciascuno di noi - società civile, movimenti, media indipendenti - viene chiesto in modo perentorio: "Stai di qui o di là?". Gli argomenti di Marco, e non solo i suoi naturalmente, permettono di rispondere, che, tra qui e là, è meglio stare altrove, possibilmente al di sotto della linea di fuoco incrociato con cui tradizionalmente, a sinistra, ci si affronta. Fuori di metafora, il voto sull'Afghanistan ha accelerato la crisi che si era rapidamente accumulata, episodio dopo episodio, fin dalla nascita del governo Prodi. La domanda che ci si poneva era: questo governo saprà, o vorrà, dare segnali di svolta, dopo gli anni di Berlusconi? Uno stillicidio di episodi ha condotto molti a concludere che no, che il nuovo governo ha scelto una sostanziale continuità. Per dimostrarlo, si citano la Legge Obiettivo, i Cip6 e le politiche energetiche [inclusi gli scandalosi incentivi alla vendita di automobili], la legge sul lavoro precario, la corsa alla liberalizzazione dei servizi pubblici, le manovre attorno alle pensioni, e naturalmente la permanenza delle truppe in Afghanistan o la base di Vicenza. All'opposto, le sinistre radicali [e non solo Rifondazione], che nel governo sono, citano una serie di buoni risultati, tra cui la prossima legge sull'immigrazione, una politica estera meno allineata agli Usa, la legge per quanto timida sui diritti delle coppie di fatto, alcuni provvedimenti di carattere ambientale, eccetera.
Messa così, la faccenda non è risolvibile. La sola possibilità è quella di schierarsi: contro il governo [di qui] o a favore della sopravvivenza del governo e contro il ritorno di Berlusconi [di là]. Perché gli uni e gli altri sembrano vedere - di fatto - il governo come la somma di tutte le cose, in positivo o in negativo, il comportamento delle sinistre radicali come una variabile decisiva e i movimenti sociali come uno "stimolo", per quanto importante, alle sole sedi della decisione, che stanno appunto in parlamento e soprattutto nel governo. Si sprecano così le accuse incrociate di rappresentare l'"antipolitica": gli uni perché indifferenti alle sorti del governo [è quel che ha scritto di Revelli, su Liberazione, Rina Gagliardi]; gli altri perché obbedienti alle compatibilità del quadro politico. Ciò che produce una situazione in cui da un lato si fanno le manifestazioni per il ritiro immediato delle truppe dall'Afghanistan, raccogliendo la parte più radicale dell'estrema sinistra; e dall'altra si fanno appelli per la vita del governo Prodi, quando due senatori dell'estrema sinistra ne provocano la caduta [che è vero solo nel mondo virtuale del Corriere della Sera, per altro]. Ne seguono espulsioni incrociate: dal partito e dal movimento. Esercizi in cui classicamente il punto è occupare lo "spazio" che l'avversario lascia "libero", alla propria "destra" o "sinistra", secondo la concezione toponomastica della politica tipica delle sinistre novecentesche.
Se si legge Revelli [e prego di farlo, se non altro per rifletterci, perché la sola lettura delle pagine politiche sui quotidiani non è proprio un invito alla riflessione], si vedrà come esista un'altra dimensione della politica, il che complica e certo rende più interessante il tutto. Nella conclusione della sua lettera a Fausto Bertinotti, Marco scrive quanto lo spazio politico si sia complicato, grazie ai suoi tre livelli - il locale, il nazionale e il globale - che interagiscono tra loro in modi inediti e fanno saltare in aria la visione tutta nazionale della democrazia rappresentativa. Perché gli stati sono indeboliti, ma mantengono [come scriveva il subcomandante Marcos dieci anni fa, in "La terza guerra mondiale è cominciata"] ben salda la loro funzione di guardiani armati del mercato liberista: perché il globale è a un tempo il comando transnazionale che indebolisce gli stati nazionali, ma anche il "luogo" dei nuovo movimento che, con tutte le sue fatiche, raduna in reti altrettanto transnazionali i movimenti contadini, quelli di critica alle istituzioni finanziarie internazionali, i movimenti per l'acqua, e così via; e perché il locale è l'incubatore delle più nuova e originale forma della democrazia, quella comunitaria e municipale già matura in luoghi come la Val di Susa e Vicenza [per citare i casi più noti], che a un tempo propone il consenso come metodo della decisione [ciò che cancella le ultime tracce delle "avanguardie" e dei loro metodi violenti] e contraddice il paradigma della crescita infinita come annuncio della contraddizione che percorrerà tutto questo secolo [basta guardare alla catastrofe climatica, per capirlo: eppure ci sono economisti molto di sinistra che letteralmente non vedono il mondo in cui vivono e ripropongono "competitività e produttività" come chiavi del progresso civile].
Se tutto questo è vero, quel che se ne dovrebbe ricavare è che sbaglia chi vede in chi partecipa alla maggioranza e al governo un "traditore", anzi un "collaborazionista": ci fosse anche Hugo Chavez, a Palazzo Chigi, il dominio globale resterebbe com'è, e rischieremmo pure un presidente dotato di tutti i poteri e il partito unico [come sta accadendo, pur in una situazione per altri versi positiva, in Venezuela]; e viceversa sbaglia chi, partecipando alla maggioranza e al governo, dimentica di colpo quanto in crisi sia la democrazia rappresentativa, con tutto quel che ne consegue. E certo restano i "valori non negoziabili", come la pace: ma anche qui, come scriverà sul prossimo settimanale Giulio Marcon, bisogna capire come preservarli, in un certo contesto, e lo stesso Gandhi - per dire - cercò di adattare la lotta nonviolenta alle diverse circostanze.
Conclusione provvisoria: secondo noi, bisogna guardare alla politica con disincanto, senza aspettarsene miracoli ma nemmeno condannando all'inferno chi vi partecipa [se è in buona fede, e non c'è ragione di dubitare di molti dei nostri amici che oggi sono deputati, senatori o membri del governo]. Se dal governo o dal parlamento vengono decisioni sbagliate, bisogna opporsi, Altrimenti, cercare di sfruttare gli spiragli, usare l'interlocuzione possibile, avanzare proposte: che è quel che da sempre fa, ad esempio, il movimento No Tav. Ma il requisito indispensabile è che le reti cittadine, i movimenti sociali in generale, si rafforzino e si allarghino, fino a raggiungere quella soglia oltre la quale si può parlare non solo di resistenza, ma di autogoverno. Sembra banale, dirlo. Ma un tale atteggiamento consente di spendere le energie per creare il presidio con cui i cittadini di Aprilia, per fare un altro esempio, pensano di poter ostacolare la nascita di una centrale turbogas, e creare un presidio richiede tempo, fatica, dedizione, capacità di organizzazione e di conoscenza e dialogo tra persone molto diverse. Occuparsi all'infinito del governo, nel bene e nel male, è in buona misura una perdita di tempo.


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