[NuovoLab] A sinistra un'altra «agenda» per l'Afghanistan

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Autor: brunoa01
Data:  
Para: fori-sociali
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Asunto: [NuovoLab] A sinistra un'altra «agenda» per l'Afghanistan
liberazione
Lettera da Kabul

Un europarlamentare in Afghanistan dove la società civile è negata e l’Isaf sgradita
Elisabbetta Piccolotti


di Vittorio Agnoletto
Kabul
Arrivo a Kabul alle 11 di mattina dopo 24 ore
di viaggo via Mosca e Baku.Il tempo è bello, la
neve dei giorni scorsi è
rimasta appiccicata ovunque,mescolandosi al
fango nel passaggio
ininterrotto di carretti, taxi,motorini.
Non sento tensione attorno,anche se la situzione non è facile.
Se mi muovessi con le truppe Isaf non sarei
gradito da nessuno, questo è evidente.
Me lo ripete chiunque si avvicini.
Sono a Kabul su invito del “Coordinamento italiano di solidarietà con le donne afgane”e ospite di Rawa,l’associazione delle donne rivoluzionarie che vorrebbe festeggiare il suo trentesimo anniversario di difficile vita.



Pur essendo un’associazione islamica
- come tutto del resto, qui - Rawa
ha una concezione laica della politica e
si batte per il rispetto dei diritti umani, di
genere e per la democrazia. Sono a Kabul
da europarlamentare per loro, per
aiutarle a garantirsi quegli spazi di democrazia
e di diritto alla parola, sacri, e a
loro negati. La prima sorpresa è stata
pessima. L’iniziativa di Rawa è stata vietata,
sono ancora considerate un’associazione
illegale. Stiamo lavorando perchè
si possano riunire entro un paio di
giorni. Ed è il primo paradosso afgano in
cui mi imbatto. L’associazione che si è
battuta contro l’invasione sovietica prima
e contro i talebani poi, l’esempio dell’esistenza
di una società civile nel paese,
è di nuovo discriminata dal governo
attuale del paese. Le 200 militanti a tempo
pieno dell’associazione e le oltre 2mila
attiviste, vivono nell’illegalità (alcune
in vera clandestinità), rischiando ogni
giorno. Nonostante questo, riescono a
incidere. Basta visitare il loro orfanotrofio
per le piccole vittime dell’eterna
guerra afgana a Kabul (ne hanno altri tre
in Pakistan): 60 bambini e bambine che
vanno a scuola e vivono insieme, ricevendo
un’educazione anti-fondamentalista
e centrata sui valori democratici.
Qui, come nelle altre strutture di Rawa,
vengono formate le ragazze che poi diventano
i “quadri politici” nei villaggi di
questa nascente - e illegale - società civile.
Perchè l’Occidente tace su questa
speranza negata, questa violazione
inaccettabile?
Il secondo paradosso afgano ne discende,
purtroppo. Più passa il tempo, più la
maggioranza della popolazione, anche
a Kabul, scivola nel “tanto peggio” talebano.
Anche chi non li vuole, non li sostiene,
ne ha paura, ritiene che lo stallo
attuale a questo punto sia troppo insicuro
e rischioso. E lo stallo che provoca insicurezza
sono le truppe straniere. Le
stragi degli Usa degli ultimi giorni, l’offensiva
nel Sud del paese e la distruzione
dei campi d’oppio lavorano in una sola
direzione. Spingere la popolazione nelle
braccia del talebani. Anche perché a chi
si dovrebbero rivolgere? Qual’è l’alternativa?
Le mie accompagnatrici in quattro
minuti hanno sciorinato un elenco di
20 persone al governo o in Parlamento
che sono signori della guerra con i loro
eserciti e i loro traffici. E mentre Rawa
chiede nel vuoto occidentale di costituire
un tribunale penale internazionale
dei crimini di guerra, il presidente Karzai
si appresta a firmare un’amnistia che significa
un colpo di spugna su vent’anni
di violenze e guerra civile. Se a questo si
aggiungono le voci insistenti di trattative
tra diversi signori della guerra pronti
ad abbandonare Karzai al momento
oportuno e passare coi talebani, si può
facilmente comprendere su quali basi si
poggia l’intervento internazionale che
sembra essere ancora all’anno zero della
politica.
Il terzo paradosso afgano, riguarda proprio
la missione Isaf. Le donne di Rawa,
in sostanza, dicono che gli occupanti se
ne devono andare, ma che il vuoto dopo
di loro sarebbe un disastro. Per questo
chiedono sia presente nel paese una forza
Onu di peace keeping, completamente
diversa negli obiettivi, nel comando e
nel modus operandi da quella di pece
enforcingguidata dalla Nato. Questa forza
Onu dovrebbe essere formata da nazioni
che non partecipano alla missione
e che non hanno interessi diretti nell’area
(dall’Arabia Saudita al Pakistan) e il
suo compito dovrebbe essere quello del
dialogo e della riconciliazione. L’imbuto
senza uscita in cui si sta infilando la missione
è evidente da una questione discussa
in Italia, quella dell’oppio. Anche
ipotizzando di comprare al prezzo di
mercato (di 120 dollari al chilo) l’oppio
afgano, come fare in modo che i contadini
non rimangano ostaggio dei narcotrafficanti
e dei signori della guerra? Il
percorso appare possibile, anche se più
lungo di quanto immaginiamo, ma a
patto che succeda qualcosa di politico
nel paese. Primo perchè l’ennesimo paradosso
vuole che la Costituzione afgana
vieti la coltivazione dell’oppio, secondo
perchè sono necessari istituti democratici
(e non solo soldi) per riuscirci.
Detto in maniera secca, la questione oppio
non è complementare alla missione
Nato/Isaf, ma è antitetica. Perché solo la
costruzione di un tessuto sociale, politico
ed economico può garantire la fuoriuscita
dell’oppio dal mercato della
guerra. Su questo le posizioni di Rawa e
del capo missione inglese per la lotta alla
droga sono assolutamente opposte nei
mezzi ma convergenti nell’analisi. Il responsabile
inglese vorrebbe “far pulizia”,
vincendo la guerra, e poi discutere
del resto, Rawa vorrebbe che fosse
un’occasione sul tavolo della rinascita
del paese. A far da distinguo c’è sempre
la guerra da una parte e la sfida della società
civile e della democrazia dall’altra.
Le due cose, insieme, qui non sembrano
proprio andare.

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il manifesto

A sinistra un'altra «agenda» per l'Afghanistan
Vittorio Agnoletto (Se-Prc) è a Kabul per i 30 anni dell'associazione Rawa: «Serve una forza guidata dall'Onu»
Matteo Bartocci
Vittorio Agnoletto, europarlamentare della Sinistra europea-Prc, è a Kabul su invito dell'associazione delle donne afghane Rawa (vedi il manifesto del 28 febbraio). Rawa, di ispirazione islamica ma laica, antifondamentalista e soprattutto anti-tribale, è l'esperienza più significativa di quel «po' di opposizione che resta nel paese», conta «200 militanti a tempo pieno e una rete di 2mila attivisti diffusa in tutte le province del paese». L'associazione compie oggi, 8 marzo, 30 anni di vita ma non può festeggiarli alla luce del sole, visto che anche nell'Afghanistan «liberato» la festa «della donna» è una data proibita, così come illegale è sempre stata l'associazione sia sotto l'occupazione sovietica che con i talebani e con Karzai. «La situazione, vista da qui, è totalmente disperata - esordisce Agnoletto - anche a Kabul, dove la popolazione non è certo filo-talebana e la situazione è più tranquilla, la critica agli alleati e lo sconcerto per le stragi di civili e la criminalità sono percepibili ovunque. La cosa di cui si discute di più qui è l'imminente firma di Karzai all'amnistia verso i criminali di guerra che hanno insanguinato il paese negli ultimi anni. Almeno venti membri del parlamento e del governo ne beneficerebbero e potrebbero così essere legittimati alla loro carica nonostante i loro crimini siano noti. Cito solo il generale Dahud, che è il responsabile della lotta al narcotraffico ma è meglio conosciuto come uno dei maggiori gestori del narcotraffico stesso. Per questo Rawa chiede alla comunità occidentale una corte penale internazionale, una forma di giustizia «transizionale» che, come nei Balcani, persegua i criminali in modo effettivo e indipendente.
Quali sono gli obiettivi di Rawa?
Da tutti i colloqui che ho avuto emerge la richiesta, chiara e prioritaria, del ritiro di tutte le truppe occupanti a partire da quelle degli Stati uniti e la loro sostituzione con una vera forza di peace keeping guidata dalle Nazioni unite composta sia da paesi diversi da quelli attualmente impegnati sia da truppe non provenienti da paesi confinanti o da sempre «interessati» al paese come l'Iran, il Pakistan e l'Arabia Saudita. La richiesta di uscire dal comando Usa è veramente diffusa, e alla fine la presenza occidentale è percepita sempre di più come una forza unica e indifferenziata.
Ma il ritiro non aggraverebbe il caos?
Rawa è contro i talebani e contro i warlord. E' vero che senza una forza internazionale il paese ripiomberebbe nella guerra tribale ma proprio per questo una forza Onu è l'unica salvezza. Solo così è possibile aprire quel tavolo di negoziato «nazionale» che rappresenterebbe l'unica via autonoma alla ricostruzione del paese.
Cosa si pensa della riconversione dell'oppio?
E' giudicata una proposta interessante ma non immediatamente attuabile. Ne ho discusso anche che con un autentico proibizionista come il capo dell'antidroga inglese Alistair Corvett qui a Kabul. Entrambi, pur da posizioni opposte, giudicano l'idea ottima ma prematura. In teoria comprare 610mila tonnellate di oppio al prezzo di mercato, 100 dollari al chilo, si può fare, visto che gli Usa destinano alla lotta al papavero 700 mln di dollari. C'è il rischio però che senza una cornice di sicurezza i contadini si trovino sotto schiaffo sia di questo governo sia dei trafficanti.
E le colture alternative? Zafferano, frutta?
Aprono due problemi. Primo: il papavero ha bisogno di poca acqua e l'irrigazione è distrutta da vent'anni di guerra. Secondo: se i contadini smettono di coltivare papaveri la comunità internazionale si deve impegnare a finanziare l'innovazione e soprattutto ad acquistare le nuove derrate a prezzi «politici», perché è evidente che altrimenti non sarebbero competitive. In ogni caso, finché c'è l'offensiva Nato tutti questi discorsi sono semplicemente improponibili.





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