NO ALLE MISSIONI DI GUERRA.
Dichiarazione di voto di Salvatore Cannavò
Signor Presidente, non voterò questo provvedimento, così come ho già 
fatto a luglio, quando si procedette ad analogo rifinanziamento ed a 
proroga, perché sostanzialmente ritengo che non sia cambiato nulla 
rispetto a quella fase, e nulla rispetto a quando avevo già espresso un 
voto contrario. 
In realtà, devo dire che, forse, alcune cose sono 
cambiate, ma in peggio. Al di là della situazione sul terreno, su cui 
tornerò tra poco, occorre dire che il provvedimento all'esame contiene 
un aumento delle risorse per le missioni militari, in particolare per 
quella in Afghanistan, che incrementa sia il numero dei militari sia 
quello delle risorse e dei mezzi tecnici, compresi elicotteri ed aerei. 
Nel frattempo, è proceduto ad un intervento in Libano che, secondo me, 
si iscrive in una logica ancora sbagliata della politica estera 
italiana (che, infatti, non condivido). In particolare non condivido 
quell'aumento delle spese militari contenute nella legge finanziaria, 
che fa ben comprendere l'unità d'intenti della politica del Governo e 
il motivo per cui si registra un dissenso su un terreno così cruciale. 
È evidente a tutti che il problema principale è riferibile a ciò che è 
avvenuto sul terreno, cioè al peggioramento della situazione in 
Afghanistan. Non mi riferisco ovviamente al caso tragico di queste ore 
del giornalista Mastrogiacomo, anzi su questo mi preme dire (oltre ad 
esprimere la massima solidarietà e l'augurio per la sua rapida 
liberazione) che in riferimento a questo episodio registro l'unico 
elemento di contatto con il ministro degli esteri quando invita a non 
strumentalizzare questa vicenda: sono d'accordo con lui, non bisogna 
strumentalizzare la vicenda da nessun punto di vista né parte, e quindi 
non vi farò alcuna menzione per motivare il mio dissenso alla missione, 
che viene prima e prosegue al di là dell'esito, che io spero 
favorevole, di questa vicenda. 
È molto più importante invece, in 
queste ore e in queste settimane, concentrarsi sul lancio 
dell'operazione Achille da parte della NATO, e quindi su una 
recrudescenza del conflitto militare lì, nel territorio afgano, che non 
può non coinvolgere le truppe italiane e la politica estera italiana. 
Tra l'altro, il lancio dell'operazione Achille arriva dopo il reiterato 
annuncio di una escalation militare e di una offensiva in primavera che 
viene ormai data per certa da tutti gli analisti, e, soprattutto, 
arriva dopo una serie di attacchi effettuati da parte delle truppe 
anglo-americane che inquadrano la situazione in un contesto di guerra 
dalla quale l'Italia non può sfuggire. Credo che questo sia il cuore 
del problema e costituisca la base del nostro dissenso e del mio in 
particolare: la strategia militare che sottende l'intervento in 
Afghanistan e, quindi, il ruolo della NATO. 
Vede, signor Presidente, 
nel 2001 il movimento per la pace coniò lo slogan, tanto amato e 
vituperato allo stesso tempo, del «senza se e senza ma». Quello slogan 
nacque, non a caso, proprio in occasione della guerra in Afghanistan, 
lanciata illegalmente dagli Stati Uniti, e si riferiva al fatto che 
nessuna guerra è sostenibile sia che venga sancita dall'ONU sia che 
venga sancita dalla NATO, dunque coperta da istituzioni internazionali. 
Il punto è esattamente questo. Quello che voglio rimarcare in 
quest'aula - quando ci viene detto «guardate che questa guerra non è 
unilaterale ma multilaterale, guardate che vi è la copertura dell'ONU 
(che tra l'altro è arrivata soltanto in un secondo momento), guardate 
che c'è la NATO, cioè istituzioni internazionali di cui facciamo parte» 
- è il fatto che proprio qui si pone il nostro dissenso, perché quelle 
istituzioni, in particolare la NATO, nel momento in cui lavorano in 
Afghanistan, così come stanno facendo, non fanno altro che seguire la 
scia di quella contrapposizione globale tra Occidente e mondo arabo 
musulmano che la strategia militare degli Stati Uniti ha imposto dal 
2001 in poi, dopo la tragedia del 11 settembre, costruendo uno schema 
internazionale da guerra di civiltà, nella quale ovviamente le destre 
si ritrovano pienamente e a loro agio, ma nella quale naturalmente le 
sinistre non possono stare a proprio agio. 
La contrapposizione che 
viene scatenata in Afghanistan è tale che non può non essere percepita 
da milioni, e anzi da centinaia di milioni, di persone, come una 
contrapposizione tra mondo occidentale e i nuovi barbari. E da questo 
punto di vista noi costruiamo una frattura che rischia di essere 
continuamente insanabile. Non a caso, la faglia che c'è tra il mondo 
occidentale e quello arabo musulmano è puntellata oggi da interventi 
militari che vedono sempre più frequentemente l'intervento italiano. E 
credo che sia proprio da questa struttura e da questa logica 
complessiva che dobbiamo uscire. Tra l'altro, è una struttura e una 
logica complessiva che è certificata anche dalla particolare catena di 
comando delle operazioni militari in Afghanistan, che vede in una 
posizione di primato assoluto gli Stati Uniti, e in una posizione 
subordinata tutti gli altri alleati. 
Vede, signor Presidente, vi è un 
paradosso che vorrei portare all'evidenza anche di quest'aula. Nel 
corso di tutta la guerra fredda il movimento comunista ha sempre 
sostenuto l'illegittimità del Patto atlantico e quindi ha contrastato 
la NATO. 
Paradossalmente, però, la NATO aveva un senso, aveva un 
logica quando vi era una contrapposizione planetaria dei due blocchi. 
Onestamente, oggi, una logica ed un senso la NATO non li ha più, se non 
come strumento di politiche che appaiono neocoloniali agli occhi di 
gran parte della popolazione di questo pianeta, di politiche di guerra, 
aggressive ed offensive. Credo che questo sia il punto nodale di una 
questione che non può essere risolta, evidentemente, di volta in volta, 
soltanto con la discussione puntuale delle missioni, ma che dovrebbe 
vedere una discussione più approfondita sul senso delle alleanze 
militari che l'Italia continua a mantenere e, soprattutto, il senso che 
la NATO si vuole dare. 
Oggi, comunque, l'Italia nell'Isaf, nel 
progetto offensivo contro l'Afghanistan, significa l'Italia in guerra. 
Da questo punto di vista, non credo sia possibile un'ipotetica terza 
posizione che veda, da una parte, un conflitto militare con le forze 
anglo-americane nel sud dell'Afghanistan, dall'altra, l'ipotesi del 
ritiro e, in mezzo, il contingente italiano, che se ne sta 
tranquillamente ad Herat o a Kabul, in una posizione di supporto 
umanitario alla popolazione afgana. Non credo che ciò sia possibile. 
Oggi, il problema si pone, in maniera ancora più netta, nei seguenti 
termini: o si partecipa alla guerra o ci si ritira. Mutuando le parole 
di Emergency, l'unica soluzione possibile al problema è quella di far 
tacere le armi, di ritirare le truppe e di mettere mano davvero ad una 
soluzione politica, perché soltanto dopo un gesto di distensione 
unilaterale è possibile costruire una soluzione politica al problema 
afgano. 
Del resto, stiamo assistendo, proprio in questi giorni, in 
queste ore, a quella che molti osservatori stanno definendo 
«irachizzazione» del conflitto, che non si sostanzia ancora in una 
guerra civile, ma in attacchi continui, stress militare costante e 
scollamento - questo è un altro elemento che contraddice lo spirito 
umanitario dell'intervento - tra l'intervento occidentale ed i bisogni, 
il sentire della popolazione. Come rilevava egregiamente il generale 
Fraticelli due giorni fa, come si può pensare di costruire un 
intervento che la popolazione vede, ogni giorno di più, come avverso, 
ostile, aggressivo? Peraltro, è questo l'elemento che alimenta il 
terrorismo, che determina ulteriore scollamento, che espone al rischio 
i militari e che costruisce una cornice, della quale ho già detto 
all'inizio del mio intervento, di scontro di civiltà. 
Un'ultima 
considerazione mi preme proporre. Probabilmente, il provvedimento in 
esame sarà approvato, oggi, dal 95 o addirittura dal 99 per cento del 
Parlamento. Saranno poche le voci di dissenso, alcune strumentali, come 
abbiamo visto nel dibattito di ieri, altre più coerenti, storicamente 
coerenti. Io credo che questo elemento debba far riflettere non 
soltanto la maggioranza, ma tutto il Parlamento. Com'è possibile che 
sul terreno della guerra, sul terreno delle politiche militari, questo 
Parlamento continui ad essere non rappresentativo degli umori della 
società italiana, della condizione reale della società italiana? Non 
voglio citare i sondaggi, perché sono altalenanti, ma sappiamo tutti 
molto bene che non arriva al 99 per cento la percentuale della 
popolazione italiana che vuole sostenere questa missione militare; 
eppure, questo sarà l'orientamento del Parlamento. Credo che proprio 
qui vi sia un punto di crisi: un punto di crisi della politica ed anche 
della rappresentanza. 
Per quanto mi riguarda, non ho né la pretesa né 
la presunzione di poter rappresentare tutti quelli che sono contro la 
guerra. Dirò di più: credo che in quest'aula siano tantissimi quelli 
che sono contro la guerra; credo che anche tra coloro i quali voteranno 
a favore del decreto-legge vi sia un sano sentimento pacifista, che 
rispetto e che continuerò a rispettare. Quindi, non è la questione 
della guerra fratricida a sinistra che mi muove o che muove quelli che 
oggi sono in dissenso. Rimane un punto politico che viene consegnato 
alla discussione della politica italiana e di questo Parlamento: nel 
paese, c'è una forte ed importante avversione alle politiche militari, 
alle missioni militari, ma il Parlamento vota pressoché all'unanimità. 
Credo che lo scandalo non stia nel voto in dissenso, e neanche nella 
maggioranza variabile (che è un altro «teatrino» della politica 
inventato recentemente): il problema vero della democrazia di questo 
paese sta nella mancanza di ascolto tra paese legale e paese reale! 
Grazie, signor Presidente. 
 
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