[Incontrotempo] centri sociali e br

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Auteur: dugo2000
Date:  
À: incontrotempo
Sujet: [Incontrotempo] centri sociali e br
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«Nemici. Le Br uccidono il conflitto dei movimenti»



Tra il popolo dei centri sociali romani, dal Corto circuito ai giovani di Acrobax ed Esc: «Le nuove Br? Differenze irriducibili tra noi e loro». «Parassiti che si infiltrano nella dialettica dei movimenti». «Gli anni '70 vanno chiusi con un'amnistia»
Eleonora Martini
Roma

Alieni. Non meno incomprensibili delle nuove Br di Lioce e Galesi. Distanti, troppo distanti, in tutto. A guardarli con gli occhi del movimento li si vede così questi nuovi presunti terroristi «rossi». A cominciare da condizioni soggettive, prima ancora che oggettive. Come la scelta della clandestinità delle azioni, l'idea di un'avanguardia politica che guida e agisce per le masse, e poi l'attacco al cuore dello stato, il mito del comunismo marxista-leninista. Forme e linguaggi che «uccidono il conflitto» e che sono culturalmente, antropologicamente e persino psicologicamente in perfetta opposizione a quelle che da dieci anni nutrono il movimento altermondialista e il popolo dei centri sociali.
Quello che fa la differenza non è tanto e solo l'uso della violenza, e nemmeno le ideologie, ma semmai la mortificazione che il terrorismo infligge al conflitto, inteso come «rivendicazione vitale» e «produttore di consenso», non di morte. Tre voci romane molto diverse tra loro per età, esperienze, idee e militanze provano a ragionare sul presunto ritorno di questi «servi del potere».
«Se non troveremo il coraggio di rompere con il '900 promulgando un'amnistia per tutti quelli coinvolti negli anni Settanta, continueremo a dover fare i conti con questi gruppi». Ha quasi quarant'anni Andrea Alzetta e nel '77 era un bambino, ma sul rapporto tra movimenti e terrorismo si è interrogato per anni anche per la sua lunga militanza nel centro sociale Corto Circuito che, nel panorama romano, è forse il meno estraneo alla cultura della lotta armata. Fa parte dell'area degli ex disobbedienti. «Troppa memoria fa male», scherza ma non troppo in riferimento alle tante commemorazioni di questi giorni del '77 di cui si dice «terrorizzato». «Perché il confronto con quella stagione può innescare soprattutto nei giovani una sorta di sindrome della sconfitta, l'idea di non essere all'altezza dell'"assalto al cielo"». Ma la responsabilità è nostra, dice, «tutte le suggestioni del movimento da Genova in poi non le abbiamo fatte maturare, non siamo riusciti a ricostruire come volevamo uno spazio pubblico ma solo un meccanismo di intergruppi. Per questo da allora in questi cinque anni il movimento si è spento ed è stato più facilmente fagocitato dai partiti». «La sindrome della sconfitta, dell'impotenza rispetto alla costruzione di un futuro, produce poi anche la logica del tradimento e dell'individuazione del nemico proprio in colui che ti sta più vicino». «Una logica che apprendiamo proprio dagli anni '70», aggiunge. Andrea ricorda che a Genova si preferiva la forma del «navigare a vista» a quella di un «progetto compiuto». «Il terrorismo e questo uso della violenza non mettono in discussione la politica e il potere ma li aiutano». Nell'esperienza che Andrea fece nelle «tute bianche», precursori dei disobbedienti, le «forme di lotta non imbelli» erano «corrispondenti ad un livello di critica di massa, erano capaci di moltiplicarsi» perché ricercavano il binomio «conflitto e consenso». «Il terrorismo non produce né conflitto né consenso. La loro è una forma estetica di conflitto».
Ancora più netto e duro, in tutti i sensi, il giudizio di Rafael Di Maio, 28 anni, militante di Acrobax, tra i più eclettici centri sociali romani di ultima generazione: «Sono nemici, psicopatici della politica. Io non sarei stato brigatista nemmeno negli anni '70. Non sono un "Unto dal Signore"». Nemici perché si infiltrano, perché «sono parassiti che si insinuano nella dialettica dei movimenti scimmiottandone il linguaggio e cercando di aumentare le frizioni interne. Immagino cosa possano dire ai loro militanti: che il movimento contro la guerra è un movimento di traditori pacifisti». «Non sono infiltrati dei servizi segreti, sono veri, o perlomeno plausibili, eppure sono funzionali al potere. Perché adesso vai a criticare Ichino, o vai a dire come tutti sanno che la violenza è endemica all'essere umano». Possono far presa? «Sì, possono. Perché riescono a capitalizzare il dissenso interno creato dal ceto politico del movimento che ha introiettato le dinamiche di controllo, e si è fatto cooptare dagli input della repressione». «Non c'è produzione di diritto senza conflitto, senza la dicotomia amico-nemico», spiega Rafael che imputa ai leader di movimento, di essere «caduti in pieno nella trappola di Bertinotti e della sua svolta non violenta». «Questo perbenismo, questo autocontrollo e chiusura alle pratiche di illegalità ha isolato alcuni gruppi di giovani estremisti (lo vediamo ancora di più nel fenomeno anarco-bombarolo) che si sono ritrovati emarginati fino a vedere nella forma violenta della politica l'unico modo di potersi esprimere». «Se molti ragazzetti invece di sfondare vetrine sono poi passati a mettere i pacchi bomba è perché noi, il movimento, abbiamo introiettato il meccanismo di controllo e di estraniazione dei black bloc e ci siamo messi a sostituire la polizia». Ma in Italia «l'opzione brigatista non attecchirà mai». Piuttosto, conclude Rafael, ci dovremmo «preoccupare dei quartieri che esploderanno di violenza e di razzismo».
Ha la stessa età, 28 anni, Alberto De Nicola, ma è tra i più anziani di Esc, il centro sociale più negriano di Roma che fa da link tra l'università e la metropoli. «La strumentalità di questa inchiesta è evidente», avverte e insiste anche lui sulla «differenza irriducibile» tra «il carattere pubblico dei movimenti e la pratica armatista e clandestina del terrorismo». «La loro è per noi una guerra privata» e «l'immagine che hanno del potere e della politica è un'immagine monolitica, senza alcuna percezione dei soggetti in trasformazione». Anche l'illegalità, dice, non va vista come un monolite: «Esiste la violenza domestica ma nessun ministro si sognerebbe mai di chiudere l'istituzione della famiglia». Il conflitto? «E' sempre una ricchezza. Ma c'è una distanza abissale tra il conflitto generatore di morte del terrorismo e quello vitale dei movimenti».

ilmanifesto.it
16febbraio





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