[NuovoLab] Chi ha ucciso il governo Prodi?

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Chi ha ucciso il governo Prodi?

Sul Corriere della sera di ieri, Franco Marini racconta - tramite una lunga
ricostruzione del giornalista Verderami - il suo «complotto», insieme a Massimo
D'Alema, per far cadere, il 9 ottobre 1998, il governo di Romano Prodi.
L'obiettivo immediato dell'ex-segretario del Ppi è evidente: disturbare, con
una certa pesantezza, la Margherita, il progetto Prodi-Rutelli, la corsa,
insomma, del partito ulivista. Mentre invece il bersaglio del quotidiano di via
Solferino sembrerebbe proprio il «deputato di Gallipoli», impegnato, in questa
fase, nella battaglia interna dei Ds appena cominciata. Come sempre, insomma,
il passato serve a «illuminare» - pardon, a influenzare - il presente, e non
certo semplicemente a ricordare. Dal nostro angolo visuale, tuttavia, la
sortita di Marini ci ripropone un capitolo molto importante della cronaca
politica di questi anni. A tutt'oggi, Rifondazione comunista è continuamente
accusata della colpa, per qualcuno imperdonabile, di aver fatto saltare il
primo governo dell'Ulivo, e di aver così impresso alla politica italiana un
corso negativo: il tema è ritornato, con una certa frequenza, durante e dopo la
campagna elettorale, anche nell'ambito della sinistra critica (per esempio, in
un articolo di Marcello Cini sul manifesto, si affermava, con una certa grazia,
che «se D'Alema era il mandante... certamente Bertinotti è stato il killer del
governo Prodi»). Conviene dunque non perdersi l'occasione, per vedere come
andarono davvero le cose in quei lontani 1997 e 1998.

La crisi del '97, e le 35 ore

Il governo Prodi (frutto del patto di desistenza tra Ulivo e Prc che, alle
elezioni del 21 aprile del '96, aveva sconfitto il Polo) visse la sua prima
seria crisi nel corso della discussione sulla legge finanziaria del 1997. Una
volta raggiunto l'obiettivo dell'aggancio italiano all'euro (il famoso
«ingresso in Europa»), si trattava di passare da una politica di risanamento
finanziario a una politica economica e sociale di riforme e di sviluppo
qualificato: insomma, era venuto il tempo delle scelte. Da questa crisi - si
ricorderà - l'esecutivo uscì con un impegno scritto a varare, entro il 1
gennaio del 2001, le 35 ore, la riduzione dell'orario di lavoro per legge: fu
un grande successo (anche simbolico) per Rifondazione comunista (già divisa al
proprio interno) e per il suo segretario, che condusse personalmente una dura
trattativa con il Presidente del consiglio. Almeno un altro anno di
sopravvivenza era stato guadagnato. Ma già all'avvicinarsi del nuovo anno, si
addensavano - e variamente si intrecciavano - i complotti. E i «complottisti»
furono almeno quattro: la Confindustria; la minoranza di Rifondazione che
faceva capo ad Armando Cossutta; il duo D'Alema-Marini; l'ex-Presidente
Francesco Cossiga.

Il niet di Condfindustria

Lo avrebbe rivelato, un anno dopo, sulle colonne di Sette, proprio Arturo
Parisi, allora sottosegretario alla presidenza del consiglio e uomo fidatissimo
di Prodi: dalla Confindustria era venuto, fin dai primi mesi del '98, un niet
inequivocabile ad ogni pur timida svolta a sinistra del governo. Il solo
annuncio di una legge-quadro sulle 35 ore era stato accolto da una campagna
diffamatoria fracassante, massiccia, martellante - e proprio mentre, a due
passi da qui, la Francia di Jospin comunque imboccava proprio quella strada. Ma
il tema non era soltanto la riduzione d'orario: era quello, appunto, di una
sterzata programmatica, di tipo sociale - dai salari ai ticket sanitari e ai
libri di testo - rispetto alla quale i «poteri forti», italiani ed europei,
opposero uno sbarramento drastico. Fu così che Romano Prodi decise di rompere,
fin dai primi mesi del '98, con Rifondazione comunista e di costruire una
diversa base di sostegno parlamentare del suo governo. Intanto, cominciò ad
ignorare, sistematicamente, le proposte di Rifondazione: perfino sui
«quattordici punti» di programma, che contenevano proposte riformatrici
praticabili, l'atteggiamento del premier fu gelido, scostante, indifferente.
Enrico Micheli, fino ad allora uomo di collegamento e trattativa tra Prodi e il
Prc, venne messo nell'angolo, appunto, dal professor Parisi, propugnatore del
Partito democratico e fervido sostenitore dell'espulsione del Prc dalla
maggioranza (o dalla sua totale marginalizzazione). Poi, furono avviati
contatti con l'entourage di Francesco Cossiga e la sua (allora) Udr: lo
registrarono, del resto, la maggior parte dei quotidiani, che attrbuirono a
Prodi l'intenzione di sostituire i voti di Rifondazione comunista con quelli
della pattuglia dell'ex-presidente della Repubblica. Solo che il premier non
intendeva, come si usa dire, “pagare pegno”: voleva quei voti, più o meno,
aggratis, come dicono i romani...

Il tradimento cossuttiano

Si inseriscono a questo punto le divisioni interne al Prc (dove il confronto
interno registra divisioni tattiche, strategiche e di cultura politica sempre
più marcate) e il «piano» di Cossutta. Siamo nell'estate del '98, e stringono i
tempi per l'approvazione, come d'obbligo, del Dpef, il documento di
programmazione economica e finanziaria che detta le linee-guida della legge
finanziaria d'autunno: è evidente che nessuna delle istanze
politico-programmatiche di Rifondazione comuniste verrà accolta. E' evidente,
altresì, che il governo ha già archiviato l'impegno sulle 35 ore. Sarà
l'ex-portavoce di Massimo D'Alema, il giornalista Fabrizio Rondolino, a rendere
pubblico, un anno dopo, l'accordo segreto tra Prodi e Cossutta. «La spaccatura
di Rifondazione comunista era un dato certo» scriverà Rondolino sulla Stampa
del 7 ottobre '99 «Armando Cossutta garantì già a luglio la scissione,
promettendo però un numero di parlamentari lievemente superiore a quello che
riuscì a portare con sé». Avrebbero dovuto essere 24, in effetti, i
parlamentari pronti ad appoggiare comunque il governo Prodi: furono invece
soltanto 21. Un errore di calcolo che si rivelerà, a sua volta, fatale.
Intanto, però. mentre il Prc discuteva drammaticamente nei suoi Cpn il tema
della «svolta o rottura» - l'ultima trincea di mediazione interna che era stato
possibile raggiungere - era in realtà stato azzerato ogni pur piccolo margine di
trattativa, politica e programmatica, con il governo Prodi. Il presidente del
consiglio era sicuro di rimanere comunque in sella anche senza l'appoggio di
Rifondazione comunista, cioè del suo segretario Bertinotti e di quei
parlamentari che lo avrebbero seguito. Dunque, il Prc (quello ufficiale) aveva
perduto ogni vero potere contrattuale: Prodi aveva già in tasca la scissione
del Prc.

Di scena il "patto segreto D'Alema-Marini"

E', ancora, nel luglio '98, che Massimo D'Alema comincia a parlare di «fase Due»
del governo. Molti giornali registrano la proposta del leader diessino come una
avance, o un ammiccamento, proprio a Bertinotti. In realtà, il suo piano è
tutt'altro: è la conquista di palazzo Chigi, svelata dal Foglio con un certo
anticipo. All'inizio, D'Alema pensa che Prodi debba rimanere al suo posto
almeno fino all'approvazione della finanziaria (con i voti che riuscirà a
raccattare alla Camera, tra cossuttiani e cossighiani): da gennaio, poi, si
sarebbe aperta un'altra fase, destinata a sfociare in un nuovo governo, di
natura, profilo e composizione diversa da quello originario dell'Ulivo. Il
primo alleato di questa operazione è, appunto, Franco Marini, che vuole - come
D'Alema - far saltare il progetto ulivista: a lui, interessa la «democrazia dei
partiti», e interessa il destino del Ppi, non certo quello del futuribile
asinello prodiano. Con D'Alema, il patto è charo: a un post-comunista la
presidenza del consiglio, a un popolare - anzi, a una donna dalla figura
politica limpida come la Rosetta - la presidenza della Repubblica (ed è solo su
quest'ultimo punto che Veltroni e Mattarella fanno da testimoni, controvoglia,
in una di quelle famose cene che, a Bruxelles, segnano il destino della
politica). Una spartizione di palazzi - tra Chigi e Quirinale - che
corrisponde, in fondo, ad una riedizione di un nuovo «compromesso storico»
capace di arginare, allo stesso tempo, la risalita della destra. Ed è proprio
Marini a spezzare le speranze prodiane di poter contare sui parlamentari
dell'Udr, ed ad approfondire il cuneo tra Prodi e Cossiga. Lavora alacremente e
intelligentemente, il leader del Ppi, che conosce bene gli uomini, gli umori dei
palazzi, le minuzie dell'arte tattica - soprattutto all'interno del vecchio
universo democristiano. Quando diventa evidente che l'Udr non voterà, a nessun
costo, la fiducia chiesta da Prodi sulla finanziaria '98, il destino di quel
governo è comunque già segnato. Esso cade, come è noto, il 9 ottobre per un
solo voto (l'alibi fu fornito da Irene Pivetti, costretta a casa da esigenze di
allattamento): ma la verità è che quel governo non avrebbe potuto continuare a
vivere di vita propria, sulla base della garanzia fornita dai soli
parlamementari cossuttiani.

E Cossiga si "ispira" a Moro

Qui, l'intreccio degli interessi si fa convulso. Il presidente dell'appena nato
Pdci - una scissione preparata nei dettagli fin dal mese di maggio - punta
tutto, in un primo momento, su Prodi, invece che sul vincente (almeno per il
momento) D'Alema. Ma arriva anche a paventare - pubblicamente - una possibilità
di «accordicchio» tra Bertinotti e Cossiga: una accusa del tutto insensata e
anzi stravagante, che diventa però comprensibile nel clima di reti e complotti
di quello scorcio di '98. E lo stesso Prodi - come pochi ricordano - ci
proverà, a farsi reincaricare, pur dopo aver gridato, da Bologna, quel famoso
noooohh! : ma troverà la strada ormai completamente bloccata. Il fatto è che
Francesco Cossiga - come spiegherà nel gennaio di quest'anno sempre su Sette -
aveva pensato che la presidenza del consiglio a un ex-comunista costituiva la
modalità più intelligente per gestire la ormai imminente guerra dei Balcani.
«Indegnamente ho fatto quello che aveva in mente Aldo Moro. Non saremmo stati
in grado di affrontare la crisi del Kosovo se avessimo avuto un governo Prodi.
D'Alema, come tutti quelli educati alla scuola comunista, non è un pacifista»
dice testualmente l'ex-presidente della repubblica. Che dice, a ben vedere, una
mezza verità: in sedi private, spiegherà quella intera. Che lui vuole sì D'Alema
a palazzo Chigi, ma lo vuole non perchè teme il «pacifismo cattolico di cui è
intriso Prodi», ma perché sa bene che non ci sarà mobilitazione pacifista di
massa contro un governo guidato dal primo leader cresciuto nel Pci. Così, il
governo D'Alema-Cossiga nasce e vive su un'ipotesi di grosse Koalition,
preludio a future operazioni bipartizan, la più clamorosa delle quali si
realizza proprio sulla guerra. Anzi, con l'Italia in guerra. Subito dopo, si
tratta di eleggere il nuovo capo dello Stato: che sarà, ancora in un'ottica
bipartisan, Carlo Azeglio Ciampi. D'Alema rompe il patto stipulato con Marini,
e Marini - forse - non glielo ha ancora perdonato. Sta di fatto che i guai
dell'esecutivo guidato dal «deputato di Gallipoli» cominciano proprio da quel
momento.

Rina Gagliardi
Roma, Aricolo uscito il 30 maggio 2001 su "Liberazione"

Scrive cobas comunege <cobascomunege@???>:

>
>     Inoltro il comunicato stampa della Confederazione COBAS sulle dimissioni
> del governo Prodi.

>
> Saluti. Andrea Tosa
>
>
>

-----------------------------------------------------------------------------------------------------
>
> Comunicato-stampa
>
> Il governo si schianta su Vicenza, le basi militari, la guerra
>
> Il governo Prodi si è schiantato contro quello che, da sempre, è lo scoglio
> più pericoloso per un governo: la GUERRA, l’ostacolo che storicamente ha
> provocato un’infinità di rotture e tracolli nelle Internazionali, nei partiti
> e nei sindacati legati al movimento operaio. Fin dall’inizio, e in spregio al
> movimento contro la guerra - che tanto aveva contribuito alla vittoria del
> centrosinistra - e alla maggioranza degli italiani/e ostili alla guerra, il
> governo Prodi si è caratterizzato per un bellicismo masochista: esaltazione
> del ruolo militare italiano (il vanto di un esercito “sesto del mondo come
> impegno all’estero”), difesa del valore “unificante” della parata del 2
> giugno, ritiro dall’Iraq - già concordato tra Bush e Berlusconi – ma solo in
> cambio di un maggior impegno in Afghanistan, rilancio del protagonismo
> italico con l’intervento in Libano (promosso per potenziare gli interessi del
> capitalismo italiano nell’intero Medio Oriente), estensione delle basi Nato
> (Vicenza in primis), aumento vistoso delle spese militari.
> Neanche la straordinaria manifestazione di Vicenza è servita da
> insegnamento: anzi con estrema arroganza Prodi ha cancellato la volontà
> popolare, affermando: “Non sarà una manifestazione a cambiare i programmi del
> governo”. Ancora ieri l’ultimo sondaggio confermava che oltre il 55% di
> italiani vuole il ritiro immediato (solo il 32% per restare)
> dall’Afghanistan: e invece D’Alema oggi ha ignorato tale volontà, ribadendo
> il suo “Tutti a Kabul”.
> Il linciaggio che la nomenklatura governativa sta ora operando nei
> confronti di due dei senatori che coerentemente si sono rifiutati di votare
> una politica di guerra, e cioè Rossi e Turigliatto, è vergognoso. I due
> senatori, ai quali va tutta la nostra solidarietà, hanno rappresentato
> fedelmente la volontà popolare dei vicentini ostili alla nuova base Usa e
> quella della maggioranza degli italiani, contrari ad ogni guerra. E’ il
> governo ad aver tradito il mandato ricevuto nelle urne, nonché principi
> storici a cui, fino a ieri, si rifaceva buona parte dei suoi partiti.
> Non abbiamo mai avuto “governi amici”: e dunque, non festeggiamo né
> piangiamo per un eventuale caduta di Prodi o per un avvicendamento di
> ministri e sottosegretari, divisi solo dalla competizione per il potere. Ma
> ci sembra positivo che le politiche belliciste siano state messe in crisi dal
> poderoso movimento no-war vicentino e italiano. Che valga di lezione per
> chiunque debba prendere decisioni di governo nelle prossime settimane: via
> dall’Afghanistan e da tutti i fronti di guerra, chiusura di tutte le basi Usa
> e Nato, no alle spese militari.
>
> Confederazione COBAS
>
>
>
>
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