[Lecce-sf] Fw: [antiamericanisti] Eskimo e grisaglia

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Autore: Rosario Gallipoli
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To: forumlecce
Oggetto: [Lecce-sf] Fw: [antiamericanisti] Eskimo e grisaglia
L'intervista di Bertinotti al Corriere della Sera di oggi. Questo è un vero e proprio bandito: rimarca il ruolo italiano per il protagonismo europeo, ma sa benissimo che l'Unione Europea non è propriamente l'Internazionale anticapitalista e antimperialista; insiste sulla missione UNIFIL come missione di pace, ma non può non sapere che la missione contribuisce alla difesa di Israele ed è funzionale anche al progetto politico di sostenere l'ormai delegittimato governo Siniora; infine, ciliegina sulla torta, continua a far finta che Vicenza e l'Afghanistan non abbiano nessun rapporto fra loro, mentre è chiaro che entrambi sono temi cruciali della politica estera del governo italiano, che come i governi delle potenze imperialistiche non discute di guerra e pace ma di come continuare la guerra globale, permanente e preventiva.
      Sorvolo sulle elucubrazioni relative a politica e comunità.
      Maria Grazia
      Bertinotti: assolutamente contro l'allargamento della base Usa 
      «Ma non c'è legame diretto tra il caso Vicenza e l'Afghanistan» «Il governo non deve cadere, c'è bisogno di eskimo e grisaglia»   
      ROMA-Fausto Bertinotti è preoccupato. Della tenuta del governo, certo. Ma ancor più della crisi della politica, chiusa in una torre eburnea, lontana dai bisogni della gente. E allora il presidente della Camera lega concettualmente le due ambasce: «Penso che la durata del governo sia fondamentale perché c'è il problema di costruire il ponte tra la politica e la società». Pace e lavoro, le sue parole d'ordine. Ma la decisione di ampliare la base statunitense di Vicenza mette di nuovo a repentaglio la vita dell'esecutivo, che oscilla tra attendismo e improvviso decisionismo, e proietta foschi bagliori sul voto per il rifinanziamento della missione in Afghanistan. L'invito di Bertinotti è «ascoltare il popolo di Vicenza» anche se pensa che sia «difficilissimo trovare una soluzione». E sui soldati a Kabul spera che alla fine si individui un accettabile compromesso. «Ma come presidente della Camera - premette - ho l'obbligo di non entrare nel merito delle questioni. Sarebbe incompatibile con la funzione di imparzialità, di garanzia e di rispetto del pluralismo che debbo assolvere. Credo invece sia un dovere prendere parte alla discussione sul terreno della cultura politica». 
      E allora che può dire su Vicenza? 
      «Vedo due questioni. La prima è la pace. L'Italia sta facendo dei passi importanti per restituire all'Europa protagonismo e autonomia. Vanno in questa direzione l'intervento in Libano e l'uscita dal drammatico e inquietante teatro iracheno. Scelte così importanti non sembrano avere avuto il necessario rilievo. È come se il grande movimento per la pace, raggiunto un obiettivo, sia stato reso silente». 
      Avrebbe voluto cortei per festeggiare il ritiro dall'Iraq? 
      «Avrei voluto una più grande densità della politica nel farsi carico del significato alto di quelle scelte. È come se quanto avvenuto fosse sfuggito dalle mani, in un deficit di passione e di coinvolgimento anche emotivo nel dispiegarsi della costruzione della pace. Se il processo fosse andato avanti, l'ascolto del popolo di Vicenza sarebbe stato diverso. Il secondo problema è il rapporto con le comunità. Temamolto impegnativo e controverso, che non può essere interpretato con formule irridenti che leggono questi fenomeni come manifestazioni egoistiche e contrastanti con l'interesse generale». 
      Non è così? E' la storia del nimby, not in my backyard, mai nel mio cortile. E questo vale per le discariche, per le centrali, per l'alta velocità e per le basi militari. 
      «Anche a sinistra c'è stata una diffidenza nei confronti delle comunità viste come resistenza all'organizzazione democratica della società o addirittura regressione. Luogo della tradizione e delle relazioni interpersonali, una nicchia, un'enclave. Invece dobbiamo leggere il fenomeno comunitario con lenti nuove. Ecioè come il luogo dove si costruiscono delle soggettività che possono essere tanto dei presidi di chiusura verso l'esterno, fino alle piccole patrie, quanto l'evidenziazione di nuovi bisogni e di nuove aspettative. Questo non vuol dire che ogni rivendicazione sia giusta ma è importante da quale lato la si osserva. E la politica non può continuare a guardarla con la supponenza neo-illuminista di possedere la ragione dell'interesse generale. Il punto da cui partire è: c'è o no un grande disagio sociale? Se una popolazione riesce ad esprimere, come a Vicenza, una posizione che travalica gli schieramenti tradizionali e accomuna casalinghe e intellettuali, allora va presa in considerazione. O bisogna pensare ad un impazzimento generale?» 
      Il presidente del senato Franco Marini, così come Francesco Rutelli, dice che gli impegni vanno rispettati. 
      «Il presidente Marini, che stimo e del quale sono molto amico, ha espresso la sua posizione a favore dell'allargamento della base. Con la stessa sincerità io posso dichiarare la mia assoluta contrarietà. Questa dialettica che vede impegnate personalità che hanno incarichi istituzionali, quando avviene nell'assoluto rispetto dell'imparzialità del ruolo nei confronti del procedimento legislativo, costituisce un arricchimento del dibattito perché ne aumenta la trasparenza». 
      Eppure Prodi ha derubricato Vicenza a questione urbanistica. 
      «E allora ci sono gli strumenti della politica urbanistica e dalla consultazione dei cittadini». 
      Favorevole al referendum? 
      «Favorevole a tutte le forme di partecipazione». 
      Prodi, oltre a derubricare, ha detto che è una decisione presa e che non si torna indietro. 
      «In generale la sordità della politica è una risposta cattiva perché così si alza un muro tra la stessa politica e la comunità». 
      Ma il muro si sta alzando anche all'interno della maggioranza. Rifondazione, i verdi, i comunisti italiani mettono in discussione il voto sull'Afghanistan. 
      «Non c'è un legame diretto tra Vicenza e l'Afghanistan, c'è un legame di clima politico. Continuo a pensare che questo governo abbia di fronte a sé come dovere quello di durare. Che non è un obiettivo minimalistico o semplicemente il riconoscimento di un bisogno come la stabilità. No, è il problema di garantire un quadro in cui può essere tentata la ricostruzione di un rapporto tra il popolo e la politica. L'impegno è far durare questo governo come condizione necessaria seppure non sufficiente». 
      Massimo D'Alema dice che ci vuole coerenza mentre Paolo Ferrero annuncia che se non si cambia lui voterà no. Sull'Afghanistan qual è il compromesso possibile? 
      «Il compromesso va cercato nel governo e nella maggioranza. Per parte mia posso dire soltanto che un buon compromesso è quello che sottolinea il ruolo di pace dell'Italia nello scacchiere internazionale». 
      E se al Senato si formassero maggioranze diverse? 
      «Continuo a pensare che la maggioranza di centrosinistra debba essere autosufficiente per tenere fede al patto contratto con gli elettori». 
      Il governo Prodi non cadrà sulla politica estera? 
      «Penso che non debba cadere». 
      Ma su Vicenza lei chiede un passo indietro? 
      «Nel mio ruolo non posso chiedere niente del genere. Posso però dire che l'ascolto è indispensabile. E non è un atteggiamento paternalistico. Qualche settimana fa la politica italiana fu beneficamente attraversata dal trauma di Mirafiori. Una compagine lavorativa, fino ad allora oscurata e resa invisibile, ha utilizzato l'occasione straordinaria dell'incontro con i segretari generali delle tre confederazioni sindacali per spezzare l'opacità e porre il problema del lavoro». 
      Lei giudica positivi i fischi di Mirafiori? 
      «Non ci sono stati solo quelli m asi è svolta una grande discussione. E in ogni caso assumo anche i fischi come una manifestazione che mi spinge a capire che c'è un disagio profondo. Come si fa a derubricare tali questioni?». 
      L'Unità scrive che non può indossare l'eskimo e la grisaglia. 
      «E invece sì. E' una concezione sbagliata, l'idea della fissità dei ruoli. Questo è il tempo della mescolanza e della contaminazioni, non delle separazioni, dell'albagia. C'è bisogno dell'eskimo e della grisaglia». 
      Partito di lotta e di governo? 
      «Sì, se si vuole cambiare la società. Anche il governo deve assumere la lotta come un fattore di riforma. Altrimenti torniamo a intendere il conflitto come patologia. Se vivessimo nel migliore dei mondi possibili, potrebbe essere cosi. Ma la crisi esiste ed è profonda. Siamo colpiti da una tragedia come quella di Erba e vediamo che la striscia di questi fenomeni riguarda la provincia del Nord che sembrava il territorio più rassicurante e che invece ora appare senza anticorpi. Solitudine, incertezza, precarietà. Si sono desertificati i luoghi della socializzazione. Qui la politica non arriva o è espulsa. Si è chiusa in un recinto autoreferenziale. Epuò essere spazzata via dall'antipolitica. Siamo ad un punto cruciale». 
      Ma i giovani di Rifondazione che a Torino contestano il ministro Padoa Schioppa non alimentano questo distacco? 
      «Intanto erano pochissimi. Lo stesso rettore dà un significato totalmente circoscritto e Padoa Schioppa minimizza. Non bisogna prendere lucciole per lanterne. Il punto veramente rilevante è stato quello di Mirafiori. Non possiamo scordarcene. La rivalutazione del lavoro deve entrare ossessivamente nella costruzione della coscienza nazionale. Camera e Senato dovrebbero avviare una grande inchiesta per rimettere al centro lo stato reale della società italiana». 
      Non teme una ripresa della violenza? 
      «La violenza è nelle pieghe della società. E' endemica, insita nella crisi di coesione. Il rischio non è domani ma oggi. Non viene dal conflitto ma dall'incapacità di leggere la sua verità interna e trasformarla in energia e proposta. Da dove viene questa supponenza? In una società in cui non c'è piena occupazione e dove i diritti sono spesso negati, come diavolo viene in mente alla politica, invece di curvarsi umilmente ad indagare, di chiudersi in questa torre d'avorio come se avesse alle spalle decenni di successi invece che di fallimenti?». 
      Ma allora ci sono stati errori anche da parte di Prodi? Perché fare da Bucarest un annuncio come quello sulla base di Vicenza? 
      «Non mi è permessa la polemica diretta con il presidente del consiglio». 
      Il governo quindi va avanti. 
      «Certo, anche se non vanno sottovalutati i rischi reali che può correre». 
      Quali rischi? 
      «Tutti e nessuno. Nessuno perché deve essere prevalente l'esigenza di andare avanti ma tutti perché ogni passaggio è difficile». 
      Ma intanto il suo predecessore Pierferdinando Casini propone il dialogo sulle liberalizzazioni e si pensa ad una Bicamerale. Sente odore di inciuci? 
      «No, francamente non colgo questo rischio. C'è invece un lavorio con protagonisti diversi che vorrebbero, sotto la denominazione di politica dell'innovazione, una nuova politica neocentrista di cui, tuttavia, non vedo nè le condizioni reali nè la maturità soggettiva. Insomma, mi pare di più un "vorrei ma non posso" ».
      Marco Cianca
      21 gennaio 2007