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Szerző: Rosario Gallipoli
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Subject: [aa-info] Comunista turco seppellito da due anni in un carcere
italiano


AVNI, ACCUSATO DI TERRORISMO, SENZA PROCESSO DA DUE ANNI

Attivista comunista, accusato nel 2004, è in carcere a Nuoro
In Turchia sciopero della fame contro le celle di isolamento

Liberazione, 7 dicembre 2007

Alessandro Antonelli

Fatma Koyupinar non ce l’ha fatta, è morta il 27 aprile scorso dopo
354 giorni di digiuno. E’ l’ultima della lista, per ora. Prima di lei
121 vittime, dopo di lei chissà quante ancora ce ne saranno. Si
chiama ”death fast”, è lo sciopero della fame portato avanti fino
alle estreme conseguenze. La disperazione, l’agonia, la morte. La
protesta è quella dei prigionieri politici turchi: comunisti,
sindacalisti, curdi, attivisti che chiedono la chiusura delle
inquietanti celle di isolamento dove finiscono i ”sovversivi”, i
sospetti terroristi, ma molto spesso i semplici oppositori del governo.
Dalla terra della mezza luna nelle nostre case arrivano istantanee
che fanno la storia e che rivedremo per tanto tempo, come quella del
papa scalzo che varca la soglia di una moschea. Altre istantanee
invece - come questi che stiamo raccontando - sono la storia ma non
le vedremo mai. Tutto ciò succede nell’anno di grazia 2006, nella
”atlantica” Turchia, nazione su cui fin dai tempi della dottrina
Truman e del Piano Marshall grava l’ipoteca politica degli Stati
Uniti. Ma non c’è bisogno di andare troppo indietro negli anni, né di
arrivare fino ad Ankara o Istambul per toccare con mano gli abusi le
assurdità di un regime di polizia planetario che in nome della lotta
al terrorismo e per conto dei soliti noti (leggi Usa e suoi
satelliti) fa carta straccia dei diritti degli esseri umani. Basta
bussare - come hanno fatto il senatore del Prc Fosco Giannini e il
capogruppo di Rifondazione alla Regione Sardegna Antonello Licheri -
alle porte dell’italianissimo carcere di Badu ’e Carros, Nuoro, per
scoprire la storia di Er Avni. Trentacinque anni, dirigente del
partito comunista turco, «studioso di Gramsci, poliglotta, uomo di
vasta cultura», riferiscono Giannini e Licheri.
Il primo aprile 2004 Avni è stato arrestato insieme alla sua compagna
curda Zeynep Kilich a Perugia, dove i due si erano trasferiti. Qui
aveva aperto un sito internet in cui aveva deciso di denunciare le
violenze sui detenuti nelle carceri turche e le loro proteste, la più
clamorosa quella del ”fast death”. Ma aveva raccontato anche la
grande mattanza del dicembre del 2000, quando la polizia turca lanciò
una vera e propria offensiva militare contro le carceri: 9mila uomini
impiegati, elicotteri, mezzi pesanti e 20mila bombe a gas. Una
tragedia: 28 persone uccise, centinaia di prigionieri percossi,
torturati e trascinati in isolamento.
Per aver rivelato tutto questo, Avni era diventato scomodo. Oggi è
recluso nel penitenziario di Nuoro, una delle strutture più
fatiscenti del Belpaese: forse una ”lezione” per chi aveva deciso di
parlare. La sua compagna invece, malata, è a Rebibbia. L’accusa per
entrambi, manco a dirlo, è terrorismo. «Ma la verità - ha raccontato
di recente Avni a Giannini e Licheri che per primi sono andati a
trovarlo - è che sono un comunista e per il governo turco ogni
comunista è un terrorista».
Ma cosa c’entra, in tutto questo, la nostra Italia? Facile
rispondere: obbedisce alla richiesta del governo di Ankara di tenerlo
recluso. Così durante la cosiddetta operazione ”1° aprile” scattata
nel 2004 (sotto il regno di Silvio II, tanto per intenderci), le
polizie di diversi paesi iniziano una caccia all’uomo e perquisiscono
le sedi della sinistra turca in Europa, appartenenti a gruppi
inseriti nella ”black list” del dopo 11 settembre. In Turchia vanno
dentro 83 persone: studenti, operai ex prigionieri politici e
attivisti di associazioni che si battono per i detenuti. Subiscono
torture e abusi. Ma nel resto d’Europa, a finire in manette sono solo
i due comunisti turchi residenti in Italia: Avni e la sua compagna,
simpatizzanti del DHKP-C (Fronte rivoluzionario per la liberazione
del popolo). Eppure, continua Avni nel colloquio con gli esponenti
del Prc, «in questo paese, come peraltro in Turchia, non ho commesso
alcun reato e non so perché sono in galera».
Il fatto singolare è che mentre in Turchia il processo agli ”83” si è
concluso con il loro rilascio, in Italia Avni e Zeynep sono rimasti
in galera. I loro avvocati sostengono che dovrebbero essere liberati
immediatamente, anche perché il tempo di attesa del processo ha già
abbondantemente superato il termine massimo stabilito. Avni -
spiegano ancora Giannini e Licheri nel loro reportage - dice di non
avere alcun peso sulla coscienza: «Cosa potrebbe turbarmi? ho paura
solo per la mia famiglia, vicina ad Ankara, tormentata dai militari
per colpa mia. E ho una grande ansia per la mia compagna, che soffre
a Rebibbia e teme di essere estradata in Germania e consegnata dunque
alle galere turche».
Ma non c’è solo un problema di diritto internazionale. Per Avni, come
si accennava poc’anzi, si sono spalancate le porte di uno dei
penitenziari più degradati del paese. Secondo le testimonianze dei
senatori di Rifondazione Maria Luisa Boccia e Francesco Martone
riferite ieri nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Madama, il
carcere di Badu ’e Carros versa in condizioni allarmanti e terribili
per carenza di servizi sanitari, di assistenza alla salute, e di ogni
attività indispensabili per condurre una vita che non sia
semplicemente essere chiusi dietro le sbarre. Le celle sono
piccolissime. E sovraffollate, nonostante l’indulto: anche in tre o
in quattro in pochi metri quadrati. Non è possibile comunicare, avere
colloqui personali con i detenuti. Loro sono disperati, hanno anche
denunciato episodi gravi di soprusi. Chi lo ha fatto con più coraggio
parlando di «ozio forzato» e «trattamenti inumani», per tutta
risposta si è visto comminare procedimenti disciplinari.
«Ho presentato un’interpellanza sulla condizione del carcere di Nuoro
- ha dichiarato Boccia - perché mi pare emblematica dello stato di
abbandono e degrado di tante carceri italiane». E infatti sembra
riguardare anche strutture simili della Sardegna, come quelle di
Cagliari e Sassari, e infinite altre ”patrie galere”. Problemi
enormi, che per Martone non sono solo di natura infrastrutturale: «La
risposta non può essere costruire nuove carceri. Si possono fare
interventi in termini di attività verso l’esterno, di garanzia dei
diritti dei detenuti, di formazione del personale di polizia
penitenziaria, di costruzione di rapporti diversi per una
umanizzazione del percorso detentivo».
Lo sperano tutti, italiani o turchi che siano, e per qualunque reato
- o qualunque sopruso ai loro danni - debbano scontare.




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