[RSF] #8 - "Acqua S.p.A. Dall'oro nero all'oro blu" di Giuse…

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Autore: ASSAGGI - Information Guerrilla
Data:  
To: forumroma
Oggetto: [RSF] #8 - "Acqua S.p.A. Dall'oro nero all'oro blu" di Giuseppe Altamore (Mondadori)






ASSAGGI In esclusiva per i lettori di Information
Guerrilla anteprime ed estratti dalle migliori novità della
saggistica#8 | 5 dicembre 2006 | 7551
iscritti | a cura di Roberto
Vignoli | www.informationguerrilla.org


ACQUA
S.P.A. Dall'oro nero all'oro bludi Giuseppe
AltamoreMondadori 2006, 232 pp., euro
8,40
Un'inchiesta a
tutto tondo sull'acqua e sui mille scandali che le ruotano attorno, in Italia e
non solo: dalla presunta miglior qualità delle acque in bottiglia al losco
affare della privatizzazione delle risorse idriche, con uno sguardo sulla realtà
europea e sulla situazione mondiale, con il preoccupante profilarsi di uno
scenario in cui proprio l'accesso alle risorse idriche marcherà ancora di più il
solco che divide ricchi e poveri.Per gentile
concessione della casa editrice pubblichiamo l'introduzione e un capitolo
da "Acqua S.p.A.", © 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano


IntroduzioneLa voce ormai
ha fatto il giro del mondo. In un grande magazzino londinese hanno messo in
vendita delle bombolette con una strana etichetta: ARIA PURA DI MONTAGNA.
«Respirate a pieni polmoni senza temere lo smog» recita uno slogan ad effetto.
Vi pare assurdo acquistare dell'aria? Eppure è già successo con l'acqua. In quei
contenitori di Pet, che faticosamente ci portiamo a casa, è racchiusa una
ricchezza naturale, un bene comune, che arriva a costare oltre un euro al litro.
Ce l'hanno data a bere per decenni, fino a convincerci che le bollicine fanno
addirittura ringiovanire.
Qualcosa di analogo è accaduto anche ai nostri acquedotti, ormai
controllati da società per azioni, sia pubbliche sia private, ma la sostanza non
cambia. Sfruttando abilmente una legge del 1994 e del 2000, comuni e Province
hanno ceduto le loro quote azionarie a un gestore unico, a un'azienda privata o
addirittura a una multinazionale. Sono sicuro che molti di voi non hanno mai
avuto sentore che qualcuno stava per svendere un bene comune a finanzieri senza
scrupoli, mentre le bollette lievitavano per soddisfare gli obiettivi di
bilancio dei venditori d'acqua.
Tra il 1997 e il 2003 gli acquedotti trasformati in società per
azioni passano da 56 a 71. La corsa alla privatizzazione sembra inarrestabile e
il servizio idrico è ormai un'industria come tante che produce utili e dividendi
per grandi e piccoli azionisti. Gruppi stranieri come Suez, Veolia Water e Saur
ma anche società italiane del livello di Italgas (Eni), Enel, Edison ed ex
società pubbliche, le cosiddette vecchie municipalizzate della portata di Acea
di Roma, Hera di Bologna, Amga di Genova o ex enti come l'Acquedotto Pugliese
S.p.A. sono in gioco per accaparrarsi l'affare migliore. Apparentemente è una
guerra di tutti contro tutti, in realtà prevale una sorta di cartello, le
società «collaborano» e si spartiscono le risorse idriche del Paese.
Dodici gruppi dominano la scena del mercato dell'acqua in Italia,
veri e propri colossi finanziari, quotati in Borsa, alimentati da miliardi di
metri cubi d'acqua. Società che sfuggono al controllo democratico dei cittadini,
che continuano a eleggere gli amministratori locali ma non hanno alcun potere
diretto sui consigli d'amministrazione delle nuove aziende che offrono servizi
essenziali che vanno dall'acqua all'energia, dai trasporti ai cimiteri. Aziende
sempre più imponenti e con un grande potere anche sulla politica. In questo
libro troverete il filo d'oro che lega acqua e denaro. Scoprirete chi va
conquistando i nostri acquedotti, quanto ci è costato finora e quanto ancora
dovremo sborsare per garantire i profitti dei signori dell'oro blu.
Insieme viaggeremo tra dighe incompiute, servizi idrici
inefficienti o inaccessibili, come accade ad Agrigento o a Caltanissetta. Sullo
sfondo c'è sempre il cartello dell'oro blu, un pugno di imprese che vorrebbe
mettere le mani sulle risorse idriche del pianeta. Sveleremo i disegni di chi
sta tentando di venderci l'idea che la sete nel mondo si può combattere grazie
all'apporto delle multinazionali. Scopriremo i progetti che maturano nel Forum
mondiale dell'acqua, dove ogni tre anni governanti e rappresentanti dei signori
dell'acqua mettono a punto le loro strategie finanziarie, mentre 30.000
uomini, donne e bambini ogni giorno muoiono a causa della mancanza di acqua
potabile e di servizi igienici. Uno scenario di sete e di morte che coinvolge 2
miliardi e 400.000 persone: sono i poveri del mondo che vivono nelle sterminate
bidonville, dove non ci sono rubinetti né fontanelle e le fognature scorrono a
cielo aperto.
Di fronte all'emergenza idrica che colpisce il pianeta, l'unica
risposta possibile non può essere affidare gli acquedotti alle compagnie
private. Ma quali soluzioni possono darsi alla grande sete senza dover essere
costretti ad affidarsi agli strumenti del mercato e alla conseguente logica del
profitto? La storia che raccontiamo dimostra che delle alternative esistono.
All'inizio del Novecento, dopo l'ondata di privatizzazioni avvenuta nel XIX
secolo, Gran Bretagna e Italia sottrassero gli acquedotti alle aziende private
per restituirli ai comuni, dopo decenni di bollette esose che escludevano larghe
fasce della popolazione ed epidemie causate dalla cattiva manutenzione. Oggi,
dopo le vivaci proteste che qui raccontiamo per la prima volta, l'Italia sembra
essere in mezzo al guado, stretta fra le multinazionali che premono per la
liberalizzazione e un possibile quanto ambiguo ritorno alla gestione comunale.
Mentre l'acqua del rubinetto diventa sempre più salata...
Cap. 6 - Acqua minerale: c'è
del torbido in quella bottiglia
Questa è la vera storia della corsa all'oro blu, l'elemento
naturale alla base della vita capace di generare un giro d'affari mondiale di 80
miliardi di dollari e solo in Italia di circa 3 miliardi di dollari. Gli
acquedotti questa volta non c'entrano. Stiamo parlando dell'acqua imbottigliata.
Acqua e denaro: un binomio inscindibile, che trova la sintesi perfetta in un
contenitore di Pet, come dimostra questa storia.
Siamo al confine tra Abruzzo e Marche, un angolo di terra stretto
tra la montagna e il mare. Zona depressa, tanto da essere stata inserita tra le
aree tutelate della Cassa per il Mezzogiorno. Geograficamente non è Sud, ma
l'economia agropastorale e il dialetto non fanno pensare a una regione del
Centro con distretti industriali all'avanguardia. Unica vera ricchezza, da
sempre, è l'acqua. Siamo nel regno della Sibilla e qui è scoppiata una strana
guerra dell'acqua, con sindaci e altri amministratori locali che si contendono
una ricchezza conosciuta fin dall'antichità. Nell'antro misterioso della
montagna nascono generose sorgenti che alimentano fiumi impetuosi che convergono
nella valle del Tronto. Acque cristalline e di grande qualità, che fanno gola a
molti. E in tempi di bollicine, particelle di sodio parlanti, miracolose acque
«zero calorie» che fanno plin plin, a qualcuno non è sfuggita l'idea di
poter imbottigliare ciò che Madre Natura fornisce gratuitamente per piazzarlo
nei supermercati con una bella etichetta, «Monti azzurri», e magari uno spot
animato da Pippo Baudo. Ad annusare l'affare però questa volta non è la solita
multinazionale di turno, ma il Ciip S.p.A., ossia il vecchio Consorzio idrico
intercomunale (il gestore dell'acquedotto) diventato nel frattempo una società
di capitali, i cui azionisti non sono Paperon de' Paperoni, ma i comuni della
provincia di Ascoli Piceno.
La fabbrica dell'acqua per catturare quella ricchezza, con tanto
di finanziamento pubblico (2 milioni di euro), con la relativa concessione a
sfruttare una fonte dei Sibillini, sembrava quasi fatta. Tanto che ad Arquata
del Tronto, i 1500 residenti dispersi in tredici frazioni addossate alle falde
del Monte Vettore, erano pronti a festeggiare. Una ventina di posti di lavoro,
venti famiglie mantenute grazie alla vendita dell'acqua imbottigliata in un
moderno stabilimento: una bella speranza di benessere. «A gelare le aspettative
degli abitanti è stato il presidente della Provincia di Ascoli Piceno» racconta
Guido Castelli, consigliere regionale di Alleanza nazionale nel 2005. «La
Conferenza dei servizi del 9 settembre 2004 aveva dato il via libera, si
potevano incominciare i lavori, ma a questo punto è iniziata la battaglia tra
Orazi e Curiazi sui giornali locali, tra favorevoli e contrari.» Massimo Rossi,
avvocato, presidente della Provincia, da pochi mesi eletto nelle liste di
Rifondazione comunista, esponente del Contratto mondiale dell'acqua, lancia un
interessante dibattito: «È giusto imbottigliare e commercializzare l'acqua, un
bene comune? E ancora, è giusto avviare il progetto prima di aver avuto una
valutazione tecnica dell'Autorità di bacino, quando lo stesso Ciip ha ammesso
che ci possono essere problemi in caso di emergenza idrica?». Infatti, dai
rubinetti degli abitanti di Ascoli Piceno sgorga la stessa acqua che finirebbe
in bottiglia e, in caso di siccità, potrebbero esserci problemi di
approvvigionamento.
La «guerra» va avanti per mesi, alimentata dalle colorite
apparizioni di Aleandro Petrucci, 59 anni, sanguigno sindaco di Arquata del
Tronto, che vuole a ogni costo quella fabbrica, vista come una gallina dalle
uova d'oro. Grandi baffi, corporatura robusta, mani incallite, Petrucci parla in
un italiano infarcito di dialetto improvvisando pittoreschi comizi. Durante un
Consiglio provinciale aperto arriva perfino a incatenarsi: chiede il rispetto
dei tempi, in modo da non perdere i finanziamenti, e minaccia di assediare il
palazzo del presidente «con pecore e ciucci». La Provincia intanto sospende
tutte le autorizzazioni richieste per lo sfruttamento delle acque. Scende in
campo pure il sindacato, ma diviso: da una parte la Cisl, favorevole alla
fabbrica dell'acqua, dall'altra la Cgil, contraria. La controversia coinvolge
anche le associazioni ambientaliste, e perfino il Cai (Club alpino italiano),
che difende sorgenti e laghetti di montagna. «Tentativi di accaparrarsi l'acqua
dei Monti Sibillini ce ne sono stati anche nel passato» racconta Luciano Carosi,
ex direttore tecnico del Consorzio idrico del Piceno. «Perfino Giuseppe
Ciarrapico [noto imprenditore del settore], nel 1988, ci aveva provato.» Ma in
fondo che male c'è a imbottigliare l'acqua di una piccola sorgente (circa 10
litri/secondo)? Perché gli abitanti di un paesino arroccato sui Monti Sibillini
si scaldano così tanto e un presidente della Provincia fa di tutto per impedire
il commercio di quell'acqua che da sempre scorre nelle forre dell'Appennino
marchigiano?
«È vero che la sorgente si perde nel Tronto, ma se si apre questa
breccia molte altre società sono pronte a prendersi la nostra acqua» dice
William Scalabroni, presidente del Cai di Ascoli Piceno. «Ci sarebbe già
un'altra impresa che ha avanzato pretese sulla fonte Gelata.» Acqua di tutti
che, grazie a Acqua minerale: c'è del torbido in quella
bottiglia un'etichetta, diventa un prodotto, una bibita come tante capace
di generare un sostanzioso profitto. Ma quanto ci guadagna invece la pubblica
amministrazione? Poco, molto poco.
Le attuali sei concessioni di acque minerali e termali in tutta la
provincia coprono un'estensione di 233,23 ettari. Esse fruttano all'erario
appena 7609,16 euro all'anno. «Una somma che non basta nemmeno a coprire le
spese del personale addetto ai controlli» dicono in Provincia. L'acqua «Monti
azzurri » non esiste ancora e non si sa se e quando apparirà sullo scaffale del
supermercato; mentre la storia prosegue tra duelli politici e sogni a dir poco
effervescenti.
Nell'età dell'oro blu, nell'Italia del primato europeo del consumo
di acqua minerale (185 litri a testa all'anno), sembra una storia di ordinaria
follia contemporanea. In un Paese che vanta un discreto patrimonio idrico, circa
47 miliardi di metri cubi (quasi il volume del lago di Garda), e una qualità al
rubinetto da far invidia a tante acque imbottigliate, il grande successo
dell'acqua minerale appare strano. Ma ci sono parecchi motivi che hanno favorito
lo sviluppo di questo settore industriale.
Un passerotto irriverente
Spostiamoci al di là dei Sibillini, in provincia di Perugia,
precisamente a Gualdo Tadino, patria della Rocchetta, resa famosa da un
passerotto irriverente e dal calciatore Alessandro Del Piero. Qui si combatte da
anni un'altra «guerra» ma questa volta sono gli abitanti che non vogliono
l'ampliamento della fabbrica dell'acqua. Cittadini organizzati nel Comitato Rio
Fergia nato all'inizio degli anni Novanta, quando la Regione ha deliberato di
aumentare i prelievi alle sorgenti del Rio Fergia nella zona di Boschetto per
alimentare gli acquedotti della Valle Umbra Sud. Per due anni, il Comitato ha
occupato la sorgente. Una battaglia tenace premiata con la firma di un
protocollo d'intesa, il 10 febbraio 1993, tra la Regione Umbria, i comuni di
Gualdo Tadino e Nocera Umbra e il Comitato in rappresentanza della popolazione.

Passato qualche anno, la guerra dell'acqua si riaccende, questa
volta contro la Rocchetta che ha richiesto alla Provincia di Perugia la
concessione di 20 litri al secondo per dissetare un mercato in crescita. Ma ecco
che l'Arpa (Agenzia regionale protezione ambientale) ipotizza che il permesso di
ricerca avviato dalla società Rocchetta ricada nel bacino di alimentazione della
sorgente Boschetto e possa interferire, nei mesi tardo estivi, ovvero durante le
minime portate annuali, sui deflussi del Rio Fergia. Il Comitato insorge,
organizza assemblee pubbliche, raccoglie prove sulla volontà della Rocchetta di
accaparrarsi a ogni costo l'acqua della zona costringendo il comune di Gualdo
Tadino a rinunciare addirittura ai suoi 8 litri al secondo previsti dal
protocollo del '93.
La disputa si colora anche di politica con la discesa in campo di
leader nazionali. Ma non è l'unica guerra dell'acqua che si combatte in Italia.
Ne citiamo ancora un'altra, ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo: piccoli
e grandi contenziosi sono presenti un po' ovunque, mentre aumenta la richiesta
di permessi di ricerca di nuove fonti o si progetta l'ampliamento di qualche
stabilimento per far fronte alle necessità di un mercato in costante crescita.

Una rondine che annuncia la battaglia

A Padernello, località del comune di Paese, in provincia di
Treviso, in un'area Sic (Sito di interesse comunitario), su una superficie di 39
ettari, la San Benedetto vorrebbe costruire un nuovo stabilimento con 2.750.000
metri cubi di fabbricati. Dovrebbe prelevare 7 milioni di litri al giorno dagli
acquiferi che alimentano il fiume Sile. Ma il progetto ha suscitato la protesta
della popolazione, delle associazioni ambientaliste e una interrogazione
parlamentare proprio per la vicinanza dello stabilimento all'area protetta. Il
19 gennaio 2005, l'onorevole Luana Zanella ha presentato una dura interrogazione
al ministro della Salute. L'atto parlamentare è un piccolo trattato sui problemi
e sui conflitti che si creano con lo sfruttamento intensivo delle fonti a fini
commerciali.
Il via al progetto era stato dato il 6 agosto 2004, quando la
Giunta regionale del Veneto ha approvato la delibera n. 2508 avente per oggetto:
«Ditta: S. Benedetto S.p.A., rilascio della concessione di acqua minerale da
denominare "Fonte della rondine" in comune di Paese (Treviso) - legge regionale
40/1989». Così la Regione dà il benestare per l'estrazione di acqua nel sito di
Padernello. Si legge nell'interrogazione: «La carta idrogeologica della
provincia di Treviso considera la zona del sito oggetto di concessione da parte
della Regione Veneto come "zona a vulnerabilità elevata", essendo un'area di
ricarica degli acquiferi, dove il sottosuolo è costituito prevalentemente da
materiali ghiaiosi che si prestano a una facile veicolazione di eventuali
elementi inquinanti sia per quanto riguarda la fase satura che quella insatura».

Il 12 gennaio 2004, l'Area tecnico scientifica «Osservatorio acque
interne» dell'Arpa del Veneto ha stilato una relazione, firmata dal geologo
Filippo Mion. Dalle indagini idrogeologiche e chimiche effettuate su campioni di
acqua prelevati nei pozzi sul sito del nuovo insediamento risultano
concentrazioni di ferro disciolto, manganese e arsenico superiori al limite di
legge. L'Arpa sottolinea che il superamento di tale limite «può presentare un
rischio per la salute pubblica». E ancora: è stata riscontrata la presenza
dell'inquinante 3-secbutil- 6-metiluracile con 0,45 microgrammi/litro. La
relazione dell'Arpa, citata più volte nell'interrogazione parlamentare, si
preoccupa anche della «compromissione quantitativa » dell'acqua che alimenta le
risorgive un po' più a valle e afferma che si tratta di un'area
«idrogeologicamente critica, in cui qualsiasi fattore esterno potrebbe
stravolgere i delicatissimi equilibri esistenti»; inoltre sconsiglia di
«imbottigliare acque sotterranee con le caratteristiche chimico-fisiche come
quelle accertate per il fatto che alcuni parametri sono superiori ai limiti
imposti dalla normativa vigente in materia di inquinamento delle acque e delle
acque per il consumo umano».
Oltre tutto la Provincia di Treviso aveva accertato la presenza
del microinquinante organico denominato 3-secbutil- 6-metiluracile nelle acque
di falda dei comuni di Quinto e Paese, utilizzate anche a scopo potabile. Un
inquinamento della falda freatica rilevato nell'estate del 2000 e nel febbraio
2001, quando apparve pure il desetilatrozino, al punto che i sindaci dei due
comuni dovettero emettere il divieto d'uso a scopo potabile di tutti i pozzi
pescanti a una profondità minore di 50 metri. Sembra che il composto inquinante
in parola sia un prodotto di degradazione del principio attivo bromocile,
commercializzato per il diserbo di aree incolte e probabilmente smaltito nella
discarica ex cava Tiretto che si trova in prossimità del sito della San
Benedetto. A conclusione della lunga interrogazione parlamentare, si chiede di
negare il rilascio del riconoscimento dell'acqua minerale naturale prelevata dal
sito di Padernello di Paese.
Il 18 marzo del 2004, era toccato a un gruppo di attivisti del
Venezia Social Forum lanciare l'allarme con una manifestazione all'interno della
Fiera di Padova contro lo sfruttamento idrico da parte di aziende private, in
particolare la San Benedetto di Scorzè (Venezia), esibendo striscioni con la
scritta: «Stop ai vampiri della nostra acqua».
Gli ambientalisti manifestavano per il timore che la Regione
Veneto potesse autorizzare la San Benedetto al prelievo di acque da destinare al
nuovo stabilimento nel Trevigiano. «Siamo fortemente contrari a questo progetto»
ha spiegato per il Social Forum Michela Vitturi «perché con questo stabilimento
saranno causati danni irreparabili all'intero e prezioso ecosistema delle
risorgive della zona.» Secondo gli ambientalisti, lo stabilimento trevigiano
porterà a un forte aumento del traffico sulla statale Postioma, stimato in
duecento Tir al giorno.
Quell'acqua che sgorga pura dagli anfratti calcarei dei Sibillini
o che emerge dalle profondità sabbiose della pianura padana fa parte dei
cosiddetti beni comuni, anzi è una risorsa del demanio. Un'acqua che se zampilla
dai rubinetti costa meno di un euro al metro cubo (1000 litri!), e quando
finisce in una bottiglia di Pet diventa «oro» arrivando a costare oltre 300 euro
al metro cubo. Pensate che stia esagerando? Bene, proviamo a fare un po' di
conti semplici semplici.
Quelle concessioni a buon mercato
Nella primavera del 2004, la Corte dei Conti del Piemonte ha
finalmente squarciato il velo sul «mistero» delle concessioni minerarie per
l'estrazione del prezioso oro blu. Le ottanta pagine del dossier dovrebbero far
riflettere molti amministratori pubblici alle prese con i tagli ai bilanci: sono
le Province a incassare i magri canoni di concessione delle fonti. La Provincia
di Cuneo, per esempio, è particolarmente ricca di sorgenti, alcune delle quali
sono sfruttate da multinazionali come la Nestlé. Qualche caso: per la
concessione Ulmeta, accordata alla San Bernardo (durata vent'anni), estesa su
un'area di 67 ettari, la Nestlé versa nelle casse della Provincia di Cuneo meno
del canone d'affitto di un box nel centro di Alba: 2528,28 euro all'anno. Ancora
meno si paga per la concessione Rocca degli Uccelli: 304,28 euro. E prezzi
stracciati per i permessi di ricerca. Nel 1999 è stato accordato un permesso
alla San Pellegrino (Nestlé) su un'area di 142 ettari nella zona di Mindino per
110 euro l'anno, il costo di un paio di scarpe.
La Corte dei Conti lamenta la mancata collaborazione di molte
Province nel fornire i dati, con la sola eccezione di quella di Biella, che ha
fatto piena luce sui costi sostenuti per gestire contabilità e controlli. La
sola attività di vigilanza su tre concessioni e due permessi di ricerca è
costata all'amministrazione provinciale un totale di 17.642 euro annui, contro
gli 8625 euro introitati come canoni di concessione e di ricerca. Basta pensare
che l'attività di polizia mineraria, svolta da un geologo e un ingegnere
minerario, costa 12.889 euro l'anno. Difficile riscontrare simili comportamenti
generosi della pubblica amministrazione in tanti servizi di prima necessità
destinati ai cittadini: la retta di un asilo nido a Milano può costare molto di
più di un permesso di ricerca. Qualcosa non quadra, evidentemente. Alle
multinazionali, per esempio, è richiesto un diritto di ricerca che rasenta il
ridicolo: 2,32 euro a ettaro. Per la concessione vera e propria, si pagano 20,65
euro a ettaro, ma se si tratta di acque termali si applica il forfait: 774,68
euro. E non finisce qui. Nel 2001, la Regione Piemonte ha approvato la
graduatoria per la concessione di contributi alle aziende di acque minerali e
termali per un impegno di spesa di lire 9.407.216.776 da rimborsare in cinque
anni e senza interessi; contributi, si legge nella relazione, «a favore di
interventi per lo sviluppo dell'offerta turistica». Insomma, al danno si
aggiunge la beffa, nonostante una vecchia legge del 1927 preveda la
partecipazione dello Stato agli utili delle aziende che imbottigliano. Ma
qualcosa sta cambiando, dopo che la Lombardia ha introdotto nel 2002 delle
royalty per ogni litro imbottigliato, a seguito di una lunga battaglia legale
giunta fino in Corte costituzionale. Laddove operano la San Pellegrino
(controllata dal gruppo Nestlé) e numerose altre aziende, la Regione Lombardia
incassava, fino al 2002, poco più di 75.000 euro all'anno dai canoni di
concessione.
Anche la Regione Veneto, con la Finanziaria del 2003, ha
introdotto un criterio simile. Mentre il Piemonte, dopo la relazione della Corte
dei Conti, ha deciso finalmente di voltare pagina. Il dibattito sulla tassa di
concessione è durato mesi tra il 2005 e l'inizio del 2006. Un braccio di ferro
tra forze politiche e Mineracqua (l'organizzazione di categoria aderente a
Confindustria) che alla fine ha portato a una tassa di 0,70 euro al metro cubo
(vale a dire ogni mille litri imbottigliati) se si utilizzano bottiglie di
plastica e 0,35 euro per le bottiglie di vetro. All'inizio si era parlato anche
di 5 euro al metro cubo, poi di 2; alla fine la Regione ha deciso di portare il
canone a un livello che è comunque superiore rispetto ad altre regioni italiane.
In Lombardia, per esempio, si pagano 51 centesimi di euro al metro cubo, in
Veneto 65, in Umbria 50, in Basilicata 30, in Liguria e in tante altre regioni
nulla. La Regione Piemonte incasserà circa 5 milioni di euro invece dei 122.000
circa percepiti fino al 2005. Nonostante le Regioni pretendano sempre di più
come tassa di concessione, i produttori pagano ancora l'acqua meno di un
centesimo di euro al litro, mentre la Lombardia, per esempio, per smaltire le
bottiglie di plastica spende 20-25 milioni di euro all'anno.
Continuando con i numeri, è utile fare un confronto con i costi
della confezione. Secondo un calcolo di Legambiente, la colla usata per
attaccare l'etichetta costa di più del contenuto. Vediamo per curiosità quanto
incide il resto. La bottiglia di plastica (chiamata «preforma») può costare 5
centesimi di euro; il tappo meno di un centesimo così come l'etichetta.
Si potrebbe obiettare: quell'acqua «pura e cristallina» arriva
però sulle nostre tavole, anzi nei supermercati, sempre pura e incontaminata
come se fosse appena sgorgata dalla fonte: è un servizio/lusso che si deve pur
pagare. Nel corso di questo capitolo vedremo invece che la vera forza di questo
prodotto così «trendy» deriva da un immaginario collettivo che il marketing e la
pubblicità sono riusciti a intercettare con grande successo.
Ma non è «acqua potabile»
Pochi sanno che la normativa relativa all'acqua minerale è diversa
da quella che regola l'acqua potabile. Per cui, formalmente, la minerale non può
essere definita «acqua potabile». Può sembrare un paradosso, ma è così.
Ovviamente questo non significa che ciò che è contenuto in una bottiglia non è
«buono da bere». Semplicemente, la maggioranza delle acque minerali in commercio
hanno parametri che non rispecchiano quelli relativi all'acqua potabile. Un
esempio: in Piemonte imbottigliano un'acqua con un residuo fisso (la quantità di
sali minerali contenuta in un litro) di circa 20 milligrammi/litro. Bene, nessun
acquedotto distribuisce un'acqua così povera di sali perché ritenuta «poco
potabile». Raramente un acquedotto fornisce un'acqua con un residuo fisso al di
sotto di 100 milligrammi/litro. Ma i venditori di minerale riescono invece a
trasformare un difetto in un pregio. È una delle particolarità che
contraddistinguono un settore per molti anni nelle mani di imprenditori che
hanno saputo approfittare scientemente di una normativa nazionale che è,
diciamo, benevola con i produttori e spesso incurante degli interessi dei
consumatori.
Numerose acque minerali, grazie alla particolare legislazione di
cui hanno goduto per anni, possono contenere sostanze potenzialmente pericolose
per la salute ed elementi salini in concentrazioni così elevate che, se
sottoposte alle analisi di laboratorio come l'acqua di rubinetto, il responso
potrebbe essere: «acqua non potabile» oppure, più precisamente, «acqua non
destinata al consumo umano». A questo tema ho dedicato un intero libro nel 2003,
dal titolo Qualcuno vuol darcela a bere, spiegando nel dettaglio perché esistono
due normative così diverse anche se si tratta pur sempre di acqua che consumiamo
tutti i giorni.
Come si spiega questa apparente contraddizione che non è sfuggita
al ministero dell'Industria? Spulciando la Guida alle acque minerali naturali si
legge a un certo punto: «Prima di consumare un'acqua minerale consultate il
vostro medico». La ragione di questa avvertenza è semplice: essendo in origine
un prodotto «terapeutico» che si vendeva in farmacia, l'acqua minerale potrebbe
avere indicazioni e controindicazioni. Un esempio: esiste un'acqua minerale
frizzante molto popolare che ha un residuo fisso vicino a 1500
milligrammi/litro, ossia oltre un grammo di sali per litro. Qualunque medico
sconsiglierebbe un consumo costante di questa acqua, perché a lungo termine può
provocare qualche problema alla salute; andrebbe alternata con una più leggera.
Eppure, nonostante l'acqua minerale sia ormai bevuta in alternativa all'acqua di
rubinetto, continuano a persistere delle differenze nelle rispettive normative.
Perfino l'ultimo aggiornamento della legislazione relativa all'acqua destinata
al consumo umano (decreto legislativo del 2 febbraio 2001, n. 31), con nuovi
rigorosi limiti per le sostanze tossiche, esclude dalla sua applicazione, guarda
caso, l'acqua minerale. Tanto che, se quest'ultima dovesse sottostare ai
parametri previsti per l'acqua potabile, molti marchi in commercio probabilmente
dovrebbero essere ritirati. E questo perché il legislatore ha considerato le
acque minerali ben altra cosa rispetto all'acqua potabile: cioè acque medicinali
«dotate di particolari virtù terapeutiche» come si può leggere alla voce «acqua»
del Dizionario della lingua italiana di G. Devoto e G.C. Oli.
Una lobby molto protetta
Insomma, nel disciplinare il settore delle acque minerali
naturali, lo Stato italiano ha avuto un occhio di riguardo oppure non è stato
puntuale nel recepire le direttive europee. Perché? Possiamo immaginare che il
peso economico e le esigenze di business possano aver avuto un certo influsso.
Intendiamoci, nessuno ha infranto la legge. C'è stata piuttosto un'azione di
lobbying che ha permesso alle aziende di ottenere una normativa come se fosse un
vestito su misura.
Ad accorgersi dell'incredibile disparità di trattamento della
legge per un prodotto ormai di uso quotidiano e a denunciarne i possibili
effetti sulla salute è stato un personaggio che merita un po' di attenzione.

Tutto è partito da Rionero in Vulture, provincia di Potenza. Il
Vulture altro non è che un vulcano spento da oltre 150.000 anni. L'acqua piovana
che attraversa le antiche lave si carica di molti elementi naturali, alcuni dei
quali possono rendere l'acqua particolarmente ricca di arsenico. Attorno alla
vecchia caldera, tra i fitti castagneti, l'acqua riaffiora dalle viscere del
vulcano assumendo caratteristiche particolari. Ci sono fonti sulfuree,
ferruginose e perfino leggermente frizzanti. Pasquale Merlino, robusto
cinquantenne, è stato da sempre attratto dal mistero di queste sorgenti, tanto
che è in grado di distinguere il rarefatto sapore di ciascuna fonte. Una
passione che lo ha portato a studiare chimica. Un po' per questo suo legame
misterioso con l'acqua, un po' per il suo carattere ribelle, Merlino non
riusciva a darsi pace a causa della presenza di due stabilimenti che
imbottigliano l'acqua del vulcano, la stessa che da bambino poteva bere senza
dover andare al supermercato. Essendo perito chimico, si è dotato di un piccolo
laboratorio di analisi che, per la verità, somiglia alla segreta stanza di un
mago alle prese con qualche alchimia. In ogni modo, il nostro Merlino (che,
cognome a parte, mago non è) ama ricercare ioni, molecole e tracce infinitesime
di sostanze che abbondano nella trasparenza dell'acqua. E fu così che cominciò a
rendersi conto che qualche acqua minerale era meglio non berla oppure la si
poteva tutt'al più sorseggiare, con parsimonia, come se fosse una medicina, e
non mandare giù a sorsate generose come suggeriscono gli spot che abbondano
sulle reti televisive. Una situazione intollerabile per quest'uomo sanguigno,
appassionato cultore della memoria del celebre brigante postunitario Carmine
Crocco. Ad alimentare il suo ribellismo e il suo risentimento verso quelli che
imbottigliavano l'acqua fornita da Madre Natura guadagnando miliardi di lire era
stata la scoperta che la legge permetteva di mettere in commercio perfino
l'acqua «non potabile». Merlino voleva a ogni costo che qualcuno prendesse dei
provvedimenti a tutela della salute pubblica. Si era rivolto al sindaco e non
aveva ottenuto nulla. Si era perfino spinto fino a Potenza dal prefetto per
informarlo che occorreva intervenire e subito. Niente da fare. Anche il prefetto
si era trincerato dietro la legge. A questo punto non rimaneva che appellarsi
all'Unione europea. Prese carta e penna e scrisse la sua denuncia.
Era il 2 luglio 1999 e quando Merlino finì di scrivere la sua
lettera alla Commissione europea, non poteva certo immaginare il terremoto che
avrebbero causato le scarne cifre gettate su quel foglio bianco. Numeri strani
con tanti zeri e virgole. Merlino segnalava che qualcosa non quadrava:
diciannove sostanze tossiche potevano essere presenti nella minerale in misura
superiore rispetto ai limiti previsti per l'acqua di rubinetto.
L'Europa richiama l'Italia
La Commissione europea ha ascoltato l'allarme lanciato da Merlino
e ha avviato una procedura d'infrazione nei confronti dell'Italia (1999/4849 ex
articolo 226 Trattato: sfruttamento e commercializzazione delle acque minerali
naturali).
Bruxelles ha contestato il decreto emanato dall'Italia nel 1992
che disciplina le acque minerali. In sostanza, il governo italiano doveva
chiarire perché aveva fissato limiti per le sostanze tossiche largamente
superiori a quelli ammessi per l'acqua di rubinetto. Un richiamo forte ed
esplicito scritto nero su bianco in una lettera inviata al nostro ministero
degli Esteri in cui si legge che «le norme in materia di acque minerali naturali
perseguono l'obiettivo prioritario di proteggere la salute del consumatore».
In effetti, lo stesso ministero della Sanità italiano sapeva bene
che la sicurezza dell'acqua poteva essere minacciata, altrimenti perché alle
sollecitazioni di Bruxelles rispondeva in modo interlocutorio? «Approfondimenti
di carattere tecnico- scientifico degli ultimi anni hanno fatto emergere
l'opportunità di ridurre le concentrazioni massime ammissibili per alcuni
elementi quali l'arsenico, il cadmio, il piombo, il bario e il cromo.» Il
ministero non dice però che quegli approfondimenti erano già disponibili prima
del 1988, anno del varo di un decreto che disciplina l'acqua potabile.
Incalzato dalla Commissione europea, il ministero della Sanità ha
inviato, nell'ottobre 2000, uno schema di modifica del decreto del 1992,
fissando limiti più severi per le diciannove sostanze tossiche o indesiderabili,
in linea con quanto previsto per l'acqua potabile dal vecchio decreto del 1988.
Sì, perché nel frattempo è stato emanato un nuovo decreto legislativo, che ha
abbassato ulteriormente i valori per l'acqua potabile. Per esempio, il valore
dell'arsenico è passato da 50 a 10 microgrammi/litro, come raccomandato da anni
dall'Organizzazione mondiale della sanità per evitare il rischio di ammalarsi di
un particolare tipo di tumore.
Le contestazioni mosse al governo italiano dal commissario David
Byrne, il 3 agosto 2000 (numero di protocollo 105.852), sono pesanti: «La
legislazione italiana autorizza la presenza nell'acqua minerale naturale di
sostanze inquinanti o contaminanti delle quali non dovrebbe essere rilevata
alcuna traccia in questo tipo di acqua». Un argomento non nuovo, trapelato qua e
là in qualche sporadico trafiletto di giornale subito rintuzzato da paginate di
pubblicità dei produttori di minerale. Tanto che nel Parlamento nazionale e
anche in seno allo stesso governo italiano erano state mosse forti critiche
verso la normativa che disciplina le acque minerali e i possibili rischi per la
salute.
La reazione di Mineracqua alla procedura d'infrazione e alle
notizie affiorate sulla stampa è a dir poco sorprendente. Invia un comunicato
alle imprese associate dove si legge: «In relazione alle notizie stampa che
riportano un comunicato dell'Unione nazionale consumatori, in attesa degli
accertamenti che abbiamo immediatamente avviato a livello di Unione europea, Vi
invito, nel caso in cui foste direttamente interpellati da giornali o
televisioni, a non rilasciare dichiarazioni ma di rinviare alla Vostra
Associazione per qualsiasi commento». Gli interessi in campo sono ingenti e
un'informazione critica può creare gravi danni al florido settore economico che
fino a quel momento era stato lasciato libero di espandersi e di crescere senza
troppi vincoli.
Il tentativo di controllare l'informazione

Alberico Giostra e Oliviero Beha dedicano alla spinosa querelle la
puntata del 20 novembre 2000 della trasmissione radiofonica «Radio a colori»,
con un'intervista al perito chimico Merlino e a Fernando Maurizi, presidente
dell'Ordine dei chimici di Lazio, Umbria e Molise nonché consulente di diverse
fonti di acque minerali. Quest'ultimo afferma: «L'acqua minerale è un'acqua
medicinale, è un'acqua curativa, è un'acqua che va bevuta cum grano salis,
perché ha delle caratteristiche peculiari notevoli». Non era mai successo che la
Rai parlasse esplicitamente delle acque minerali al di fuori degli spazi
«addomesticati» della pubblicità. La furiosa reazione di Mineracqua è il segnale
che il limite era stato superato. Il 29 novembre l'organizzazione
confindustriale invia una raccomandata al direttore generale della Rai
lamentandosi della qualità delle informazioni fornite da «Radio a colori ».
Invia anche una lettera all'amministratore delegato della Sipra S.p.A. (la
società concessionaria di pubblicità della Rai e di numerose testate
giornalistiche), in cui si legge: «Come potrà comprendere, il tono generale
della trasmissione, in particolare talune affermazioni false e diffamatorie nei
confronti del settore industriale che rappresento, contrastano con lo sforzo
finanziario sostenuto dalle imprese in comunicazione e pubblicità sulle reti
Rai. Non mancheremo, da parte nostra, di fare le opportune riflessioni
sull'entità degli investimenti pubblicitari affidati alla Sipra, il cui ritorno
è gravemente pregiudicato da una trasmissione della Rai priva di un controllo di
qualità sui contenuti e sugli interlocutori ». Il ricatto adombrato da
Mineracqua è un'arma che è stata più volte utilizzata nei confronti della stampa
che avesse osato mettere il naso tra bollicine, etichette con vette innevate e
ruscelli incontaminati. I programmi televisivi generalmente sono «controllati»
dai produttori che riversano sulle reti milioni di euro in pubblicità (nel 2002,
secondo Nielsen, circa 300 milioni di euro, ma nel 2003 questa quota è stata
incrementata del 29,5 per cento). Ma le notizie apparse qua e là non potevano
essere tutte sottoposte a un rigido controllo da parte dell'apparato
pubblicitario. Ormai l'affaire acqua minerale era approdato in Parlamento con
interrogazioni molto dure che chiedevano conto al ministro della Sanità di
quanto stava accadendo tra Bruxelles e Roma. Insomma, per i produttori di acqua
minerale era troppo tardi.
Norme più severe a tutela dei consumatori

Così, dopo l'intervento dell'Unione europea, l'Italia, con il
decreto ministeriale del 31 maggio 2001, ha abbassato per le acque minerali i
limiti per alcuni parametri: arsenico totale (da 200 a 50 microgrammi/litro),
cadmio (da 10 a 3 microgrammi/ litro), piombo (da 50 a 10 microgrammi/litro),
boro (da 5,25 a 5,0 milligrammi/litro), nitriti (da 0,03 a 0,02
milligrammi/litro), bario (da 10 a un milligrammo/litro). Per i microinquinanti
organici (fenoli, tensioattivi, oli minerali, idrocarburi disciolti o
emulsionati, idrocarburi aromatici policiclici, pesticidi e bifenili
policlorurati, composti organoalogenati), il decreto dice: «assente al limite di
rilevabilità del metodo analitico», secondo quanto previsto dagli Standard
Methods for the Examination of Water and Wastewater («Metodi standard per
l'analisi delle acque e dei reflui»), 20a edizione, 2000.
L'Italia, per cercare di bloccare la procedura di infrazione
dell'Unione europea, aveva provveduto a inviare a Bruxelles una proposta di
modifica, con qualche deroga. Una di queste riguarda il bario, sostanza tossica
ad alte concentrazioni. Si legge in una lettera del ministero della Sanità,
Dipartimento della prevenzione, del 3 ottobre 2000, in relazione alla procedura
d'infrazione aperta dall'Ue nei confronti dell'Italia: «Al fine di consentire
alle aziende interessate di ricercare eventualmente una diversa captazione
dell'acqua minerale e, ove ciò non fosse possibile, evitare un impatto negativo
immediato sull'occupazione per la chiusura delle aziende, potrebbe essere
inserita nel decreto relativo al nuovo articolo 6 la precisazione che: per le
acque già riconosciute, limitatamente al parametro bario, l'entrata in vigore
del presente decreto è differita di mesi sei». La preoccupazione principale del
ministero della Sanità è la tutela dei posti di lavoro, un po' meno la salute.

Gli imbottigliatori finiscono nei guai

È interessante notare un fatto importante, a proposito di
sicurezza alimentare. Il nuovo decreto finisce per mettere nei guai molte
aziende, perché non erano e non sono in grado di assicurare la totale assenza di
microinquinanti organici. L'inquinamento è così diffuso che tracce di fenoli o
idrocarburi sono presenti ovunque, perfino nei ghiacci del Polo Nord. Ma per un
prodotto che vanta la sua purezza a suon di superlativi è un bel problema. Dopo
il maggio 2001 e fino alla fine del 2003, si è andati avanti giocando a
rimpiattino, con il ministero della Salute costretto a chiedere i certificati
con le analisi conformi al volere dell'Unione europea, e le aziende che
temporeggiavano o inviavano analisi parziali oppure ottenute con metodi non
contemplati dalla legge. Alla fine oltre duecento marche su duecentosessanta
sono risultate fuori norma. Fenoli, idrocarburi e altre sostanze simili si
possono trovare nelle acque minerali anche se in concentrazione tale da non
generare preoccupazioni eccessive per la salute dei consumatori, ma la presenza
di quei composti chimici rivela che una qualche forma di contaminazione esiste.
Che cosa ci si poteva aspettare a questo punto? Poteva il ministero della Salute
diffondere una lista nera e mettere in ginocchio un intero e lucroso settore
industriale? La risposta è ovvia. Di fronte a questa situazione a dir poco
imbarazzante, il ministero della Salute ha colto al balzo l'opportunità offerta
da una nuova Direttiva europea sull'acqua minerale (2003/40) recepita con un
apposito decreto del 29 dicembre 2003, dove in una tabella allegata resuscita i
microinquinanti organici, che sono ritornati a essere tollerati.
Il ministero salva l'acqua minerale
Una decisione che ha suscitato scalpore tra le associazioni di
consumatori che hanno parlato di «decreto salva acqua minerale ». Il decreto del
ministro Sirchia «ha introdotto una soglia di tolleranza per una serie di
sostanze tossiche ad alto rischio grazie alla quale le grandi aziende
produttrici di acque minerali possono continuare a immettere sul mercato
prodotti irregolari, in danno dei consumatori e in contrasto con le normative
europee». Così Loredana De Petris, senatrice dei Verdi e capogruppo in
Commissione agricoltura e alimentazione, ha chiesto al ministro della Salute di
revocare il decreto del 29 dicembre 2003 con il quale si stabilisce per
tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, policlorobifenili, idrocarburi e
altre sostanze pericolose una soglia di rilevabilità strumentale al di sotto
della quale le aziende produttrici potranno continuare a dichiarare che le acque
minerali imbottigliate sono esenti da ogni inquinamento. «L'inchiesta avviata
dalla Procura della Repubblica di Torino» prosegue la senatrice «aveva accertato
nel giugno scorso [2003] che ventitré delle ventotto marche di acque minerali
analizzate non rispettavano l'obbligo di legge di essere completamente prive
delle sostanze tossiche in questione; successivamente il numero delle marche non
in regola è salito a ottantasei.» Per la senatrice De Petris, dunque, «invece di
affrontare all'origine le cause dell'inquinamento, il ministro della Salute si è
inventato, in piene festività natalizie, questo singolare espediente giuridico,
che non ha alcun riscontro nella normativa comunitaria, grazie al quale le acque
minerali inquinate diventano miracolosamente pure». Con questo decreto, secondo
la senatrice, «si consente la presenza di composti nocivi in acque spesso
pubblicizzate come benefiche per la salute».
E la minerale finisce in tribunale
Aproposito di rischi sanitari, nella tarda primavera del 2004, la
Procura della Repubblica di Bari ha concluso le indagini sulla presunta non
genuinità e pericolosità per la salute pubblica di alcuni lotti di acque
minerali della zona del Vulture (Potenza). Secondo l'inchiesta, una certa acqua
effervescente naturale è risultata non solo pericolosa per la salute pubblica,
ma anche non genuina e in cattivo stato di conservazione per la presenza di
valori di nitriti (0,07 mg/litro) superiori al limite (0,03 mg/litro) fissato
dalla legge. In un altro campione di acqua minerale naturale, invece, prelevato
in un supermercato del Barese nell'ottobre 2002, i valori di «vanadio e arsenico
erano superiori al limite previsto per le acque destinate al consumo umano»,
inoltre erano stati riscontrati «valori difformi per rame, zinco e selenio,
indicati come principali oligoelementi antiossidanti in grado di prevenire o
curare patologie umane, così rendendo un prodotto destinato al consumo
alimentare non genuino».
L'inchiesta di Bari era partita da una denuncia dell'Adusbef
(associazione di consumatori) e di Pasquale Merlino. Ma questo processo è un
caso piuttosto raro.
In Italia la potente lobby dei produttori di acqua minerale gode
di privilegi e coperture che forse non ha eguali in altri Paesi. Comunque dei
processi a carico dei produttori di bollicine raramente si parla sui giornali.

Quei rischi di cui nessuno parla
In un rapporto dedicato ai problemi dell'inquinamento, presentato
il 12 febbraio 2004 all'allora primo ministro francese Jean-Pierre Raffarin, si
afferma: «Lo sviluppo dell'offerta e il livello di consumo dell'acqua minerale
fortemente mineralizzata, un tempo riservata a chi aveva bisogno di cure
mediche, non sono oggetto di un'attenzione sanitaria sufficiente, soprattutto
per i possibili effetti sui bambini». Impossibile ritrovare una simile
attenzione su questo tema in Italia da parte delle pubbliche istituzioni. Il
settore ha un peso economico enorme. Il fatturato, come abbiamo detto, sfiora i
3 miliardi di euro, più della metà del valore di tutto il mercato del ciclo
idrico integrato in Italia che comprende l'acqua potabile, la manutenzione delle
fognature e la depurazione. Probabilmente è per questo che sulla stampa non si
trovano quasi mai notizie che possono mettere in pericolo il lucroso business.
Il 3 ottobre 2003, un dispaccio dell'Ansa annunciava il sorprendente risultato
di uno studio. Secondo un gruppo di ricercatori dell'Università del Galles di
Cardiff, circa il 12 per cento delle infezioni da campylobacter, microbo
responsabile di molti avvelenamenti, vengono contratte bevendo acqua in
bottiglia. E ancora. Funghi e batteri sono stati trovati in 68 bottiglie di
acqua minerale in commercio. Ne ha dato notizia il ricercatore olandese Rocus R.
Klont, durante il meeting dell'American Society for Microbiology tenutosi a
Washington nell'autunno del 2004. Aquanto sembra i campioni provenivano da nove
Paesi europei e sette extraeuropei. Nel 1999 negli Stati Uniti, il Natural
Resources Defense Council ha pubblicato le conclusioni di uno studio durato
quattro anni sull'industria dell'acqua in bottiglia in America. Dalla ricerca è
emerso che un quarto delle marche in commercio non rispetta i limiti sanitari
imposti a questo prodotto dalla legislazione statunitense. Inoltre, in molti
campioni sono stati riscontrati livelli inaccettabili di batteri coliformi,
batteri Hpc, arsenico e trialometani. Si tratta di ricerche che raramente
superano la barriera degli ambienti accademici in cui circolano, e quando
qualche notizia trapela, la stampa e la televisione non ne parlano per il timore
di ritorsioni da parte degli inserzionisti che inondano di paginate di
pubblicità e spot gli aridi bilanci delle aziende editoriali. Una pressione che
in Italia è più marcata che altrove a causa dell'importanza del settore nella
nostra economia.
Un settore industriale imponente
Il «made in Italy» detiene la posizione leader nel mercato
mondiale dell'acqua minerale, con 177 imprese e 287 marchi, 12 miliardi di litri
imbottigliati di cui oltre un miliardo esportato. Gli stabilimenti sono circa
190. Esistono quindi più marchi che impianti di imbottigliamento. Come si
spiega? In queste fabbriche dell'acqua si possono miscelare più sorgenti o
utilizzare più fonti per diversi marchi che possono avere lo stesso tipo di
acqua. In ogni caso, ci sono impianti da un milione di litri all'anno, per lo
più per un consumo a livello locale, e strutture più imponenti che possono
produrre oltre un miliardo di litri. Si tratta di grandi stabilimenti
industriali che servono a imbottigliare note marche apprezzate da americani e
canadesi, grandi consumatori di acqua minerale italiana. Nel mondo si consumano
120 miliardi di litri di acqua imbottigliata con un mercato che vale circa 80
miliardi di dollari. L'Europa occidentale consuma un terzo del totale pur avendo
solo il 6 per cento della popolazione mondiale, e produce circa 38 miliardi di
litri. La corsa al consumo di acqua minerale sembra dunque inarrestabile.




Scopri a chi appartiene l'acqua che bevi
Nestlé: Gruppo San Pellegrino; 3
      miliardi di litri 
Claudia, Giulia, Levissima,
      Limpia, Lora Recoaro, Panna, Pejo Pracastello, San Bernardo, San Bernardo 
      Sorgente Rocciaviva, San Bernardo Sorgente della Rocca, San Pellegrino, 
      Tione, Ulmeta, Vera. 

Gruppo Acqua Minerale San Benedetto
      (famiglia Zoppas); 2 miliardi e 300 milioni di litri 
San
      Benedetto, Guizza, Valle Reale, Fonte Caudana, Nepi, Sorgente del 
      Bucaneve. 

Gruppo Ferrarelle (ex Danone) Lgr Holding
      di Carlo Pontecorvo; 900 milioni di litri 
Acqua di Nepi, Boario,
      Ferrarelle, Fonte Vivia, Natia, Santagata, Vitasnella. 

Rocchetta S.p.A., Gruppo Congedi (famiglia De Simone); 850
      milioni di litri 
Rocchetta, Uliveto, Brio blu.
Secondo le valutazioni Beverfood (agenzia di
      ricerca del settore), i primi quattro gruppi (Nestlé/San Pellegrino, San 
      Benedetto, Congedi/ Uliveto/Rocchetta e Ferrarelle) assorbono circa il 58 
      per cento del mercato. I primi dieci gruppi (i quattro precedenti, più 
      Spumador, Norda, Sant'Anna, Sangemini, Lete/Prata e Gaudianello) 
      rappresentano circa l'80 per cento del mercato. I produttori leader 
      stentano a mantenere le loro quote, incalzati da un nutrito gruppo di 
      medie aziende molto combattive, che dopo aver conquistato posizioni di 
      leadership a livello regionale, stanno tentando di pervenire a una 
      distribuzione 
nazionale.
Al primo
posto delle acque in bottiglia sia in Italia sia nel mondo troviamo
l'onnipresente Nestlé. Il gruppo svizzero detiene il 17 per cento del mercato
planetario con un giro di affari, nel 2002, di 60,6 miliardi di euro, oltre un
quarto realizzato grazie alle bevande, tra cui l'acqua. Presente in centotrenta
nazioni con settantasette marchi, in Italia possiede dieci stabilimenti e marchi
famosi tra cui San Pellegrino. Nel nostro Paese realizza un fatturato di 870
milioni di euro di cui 60,2 spesi in pubblicità. Fino a non molto tempo fa un
altro grande protagonista del mercato era la multinazionale francese Danone, che
recentemente ha ceduto i marchi italiani all'armatore napoletano Carlo
Pontecorvo, che così è diventato proprietario tra l'altro della Ferrarelle,
centenario marchio di acqua minerale ritornato italiano al prezzo di 130 milioni
di euro, secondo indiscrezioni apparse sulla stampa. Alla Holding Ricciardi di
Pontecorvo, il 10 gennaio 2006, è così passata la romana Italaquae, numero tre
del mercato italiano dell'acqua minerale con una quota di circa l'8 per cento.
Oltre a Ferrarelle e Boario, controlla i marchi Santagata e Natia, ha la licenza
per quindici anni di Vitasnella e la distribuzione esclusiva in Italia di Evian,
fiore all'occhiello di Danone. La multinazionale francese, che ha un giro
d'affari in tutto il mondo di 3 miliardi e 700 milioni di euro, ha così
abbandonato il complicato mercato italiano dell'acqua minerale. Nel mondo i suoi
marchi più venduti sono Evian, Volvic, Wahaha e Aqua.
In questa hit parade delle corporation dell'acqua imbottigliata
c'è pure Coca-Cola. Il gruppo americano che ha sede ad Atlanta mantiene lo
scettro a livello mondiale nel settore delle bibite ed è l'ottavo gruppo
alimentare al mondo. Tra l'altro all'inizio del 2006 ha acquisito le fonti del
Vulture tanto care a Pasquale Merlino. Sempre più aggressivo nel mercato delle
acque imbottigliate, il gruppo Coca-Cola possiede i marchi: Dasani negli Usa,
Ciel in Messico, Nevada in Venezuela, Bon Aqua in Brasile, Kin in
Argentina, Vital in Cile. Con il marchio Bon Aqua vende anche in Germania,
Svezia, Polonia, Repubblica Ceca, Spagna e Russia. Recentemente ha dovuto
ritirare dal mercato inglese migliaia di bottiglie Dasani perché, oltre a essere
una comune acqua da tavola, cioè di rubinetto, conteneva bromato in
concentrazione troppo elevata, una sostanza che si genera quando un'acqua con un
contenuto eccessivo di ferro, manganese o arsenico è trattata con ozono.
Il gruppo veneto San Benedetto possiede quattro stabilimenti e
nove marche. Oltre all'omonima marca, commercializza Acqua di Nepi e Guizza
(l'acqua minerale più venduta in Italia). Detiene il secondo posto in Italia,
con il 19 per cento circa del mercato, è anche tra i primi quattro produttori
del mercato spagnolo e si prepara a conquistare il mercato dell'Est europeo in
joint venture con Danone. La storia della San Benedetto inizia nel 1956 a Scorzè
(Venezia), più precisamente nella località Guizza, nei pressi di un pozzo
artesiano tuttora funzionante. Fa parte del gruppo Finanziaria San Benedetto,
che ha un giro d'affari di 580 milioni di euro (511 solo il settore acqua) e dà
lavoro a 2000 dipendenti. Oltre a imbottigliare per Pepsi-Cola e Ferrero, ha
stretto alleanze con Cadbury Schweppes e Danone per l'allestimento di
stabilimenti comuni in Europa. Suoi sono anche i marchi Caudana, Oasis,
Orangina, Powerade. Nel 2003 ha speso 25 milioni di euro in pubblicità (di cui
24 per spot in Tv), l'8 per cento in più rispetto all'anno prima. Dal 1972
appartiene all'imprenditore veneto Gianfranco Zoppas, che possiede anche il
gruppo Zoppas Industries attivo nel settore dei macchinari per la produzione di
plastica e delle resistenze elettriche.
Insomma, quello dell'acqua minerale è un settore industriale di
tutto rispetto che dà lavoro a 7500 dipendenti diretti e 32.500 nell'indotto. Un
mercato esploso nel giro di pochi anni, parallelamente alla demonizzazione
dell'acqua di rubinetto, a partire dall'allarme relativo a un famoso diserbante
trovato nelle falde. Un allarme lanciato nella seconda metà degli anni Ottanta.
«C'era stato il problema dell'atrazina, l'inquinamento aveva fatto scattare
l'emergenza e in tante zone della pianura padana non si poteva bere acqua di
rubinetto» racconta Marco Mignani, direttore creativo di Euro Rscg, un uomo che
ha lanciato marchi di grande successo commerciale e inventore di slogan che
hanno fatto la storia della pubblicità, per esempio: «Milano da bere». Questo è
il momento in cui si incomincia a diffondere l'idea che l'acqua minerale è
alternativa all'acqua di rubinetto... «Più o meno» ammette Mignani. «La mia
prima pubblicità è stata quella del lancio dell'Acqua Vera, un'acqua profonda,
quasi fossile, perché ci mette vent'anni dalle Dolomiti del Brenta a raggiungere
la fonte. Questo viaggio attraverso le ghiaie più profonde la purifica e
l'arricchisce di elementi. Dopo questo lungo viaggio forma un enorme lago
sotterraneo dalle parti di San Giorgio in Bosco, in provincia di Padova.
Basandomi su queste caratteristiche naturali, il lancio di Acqua Vera fu: Acqua
Vera, acqua pura, il dono intatto della natura. Avevo puntato su una particolare
qualità salutistica, che ha avuto un grande successo. Quell'idea ha poi
condizionato molte campagne pubblicitarie.»
Quei messaggi ingannevoli
E così l'acqua minerale ormai fa parte dei nostri consumi
quotidiani. È raro infatti che sulle tavole non ci sia una bottiglia di plastica
che denota anche un livello di benessere inimmaginabile fino a non molti anni
fa, quando l'Idrolitina era il massimo cui potevano aspirare gli italiani che
avevano da poco tempo conquistato il diritto ad avere l'acqua potabile in casa.
Certo sono lontani i tempi in cui Montecatini esportava 112 barili dell'acqua
del Tettuccio: s'era nel 1762 e l'acqua imbottigliata si vendeva ai
«signori» per curare i più disparati malanni.
Occorre attendere l'avvento della televisione commerciale per
trasformare un prodotto di nicchia in una bevanda di largo consumo. Il merito (o
colpa, a seconda dei punti di vista) è da attribuire in gran parte alla
pubblicità. Una réclame che spesso confonde le idee, attribuendo all'acqua
effetti miracolosi: ad esempio, è assolutamente sbagliato il concetto che
l'acqua povera di sodio non faccia ingrassare, favorisca l'eliminazione della
cellulite o faccia bene in assoluto. «L'acqua povera di sodio ha una azione
diuretica e combatte quindi la ritenzione idrica, ed è indicata terapeuticamente
per coloro che soffrono di ipertensione» spiega Michele Carruba, direttore
dell'Istituto di Farmacologia dell'Università degli Studi di Milano. «Ma il
sovrappeso non ha nulla a che vedere con la ritenzione idrica: l'obesità è
causata da un eccesso di lipidi (grassi) nelle cellule adipose; anzi un
individuo grasso spesso è anche un individuo disidratato, perché le cellule
adipose contengono molta meno acqua di tutte le altre cellule.» Quindi, tranne
in casi specifici, sono molto migliori le acque mediamente mineralizzate (come è
in genere anche l'acqua del rubinetto), perché contengono opportune quantità di
tutti quegli oligoelementi di cui l'organismo ha bisogno, compreso il sodio, che
è fra l'altro indispensabile per il corretto funzionamento del sistema nervoso.

«Per quanto riguarda l'acqua del rubinetto, l'unico problema che
in genere presenta è che spesso deve essere clorurata per questioni igieniche e
il sapore del cloro ad alcuni può non piacere» aggiunge il professor Carruba.

Ma l'acqua di rubinetto non fa sognare, nessuno quasi la
pubblicizza. Così, il rapporto emozionale con l'acqua potabile non è molto
gratificante. A chi verrebbe in mente di reclamizzare gli effetti antiossidanti
e perfino ringiovanenti del selenio disciolto? Ebbene, una nota marca ha
impostato la sua campagna proprio puntando su questo argomento. Peccato che il
Giurì di autodisciplina pubblicitaria abbia messo «sotto processo » l'ardito
spot. Così, è toccato al professor Carruba dimostrare l'infondatezza e di
conseguenza l'ingannevolezza di quel messaggio. Infatti, per avere qualche
speranza di ottenere un beneficio da quell'elisir dell'eterna giovinezza occorre
berne circa 60.000 litri, sì, e per di più in un sol colpo...
Sono tanti i messaggi ingannevoli di cui si è occupata l'Autorità
garante della concorrenza e del mercato. A volte si tratta di vera e propria
pubblicità occulta. L'Autorità, per esempio, ha pizzicato il settimanale «Amica»
che in un articolo apparso sul n. 48 del 1999 si dilungava sulle proprietà della
San Pellegrino. Il titolo: Il fresco sapore dell'acqua. Il sottotitolo: Liscia,
gassata, effervescente naturale. E con gusti diversi. Come succede per il vino,
anche la minerale può avere diversi accostamenti con il cibo. E che dire delle
proprietà medicamentose al limite del magico decantate in un articolo
pubblicitario dell'acqua Rocchetta comparso sull'inserto «Salute» del quotidiano
«la Repubblica»? L'articolo, dopo aver sottolineato le qualità idratanti delle
acque minerali («il corpo umano ha bisogno di essere costantemente irrigato e
solo con la circolazione continua di liquidi - dall'esterno all'interno e
viceversa - si può assicurare una costante idratazione»), evidenzia alcuni
effetti benefici che l'acqua Rocchetta avrebbe sulla pelle. In particolare si
legge che: «L'acqua Rocchetta presenta caratteristiche analoghe ad alcune acque
termali di cui si conoscono i poteri antinfiammatori in generale e, più in
particolare, gli effetti terapeutici nei confronti di alcune affezioni della
pelle; un effetto depurativo che favorisce il lavaggio interno dell'organismo;
acqua cosmetica; acqua amica della pelle». In questo caso, addirittura, il
ministero della Salute non aveva rilasciato alcuna autorizzazione ai sensi
dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 105/92 che prevede la preventiva
approvazione delle pubblicità di acque minerali «limitatamente alle menzioni
relative alle proprietà favorevoli alla salute, alle indicazioni e alle
eventuali controindicazioni».
Qualità effervescenti, qualità evanescenti

Molti spot giocano sull'equivoco. Una sfumatura che sfugge alla
stragrande maggioranza dei consumatori: «Le proprietà salutari, vantate dalle
acque minerali, sono altra cosa rispetto alle proprietà terapeutiche» spiega
Vincenzo Riganti, docente di Chimica merceologica all'Università di Pavia. «Non
è più previsto che le acque minerali naturali siano dotate di attività
terapeutica, bensì più semplicemente di "proprietà favorevoli alla salute". Come
se un'acqua da bere potesse avere proprietà contrarie alla salute. Dunque la
legge dice che un'acqua "minerale naturale" deve presentare "caratteristiche
igieniche particolari e, eventualmente, proprietà favorevoli alla salute".
L'aggiunta dell'avverbio eventualmente comporta che la distinzione con l'acqua
potabile non sia più necessariamente legata agli effetti; ne consegue il venir
meno del precedente obbligo di corredare sempre la domanda di riconoscimento con
gli elementi di valutazione delle caratteristiche sul piano farmacologico,
clinico e fisiologico. La distinzione sostanziale che rimane nella legge è che
le acque minerali naturali devono essere pure alla sorgente e tali rimanere fino
al consumo.»
Il problema è che, dalla fine del 2003, la legge permette ai
produttori che dovessero superare i nuovi parametri di trattare l'acqua con
ozono per abbattere il tenore di ferro, manganese e arsenico. Con
l'inconveniente che si può produrre un pericoloso sottoprodotto: il bromato.

Acqua minerale per cani
Inseguendo il fascino delle bollicine, negli Usa si è arrivati a
commercializzare un'acqua minerale per cani, gatti, criceti e uccelli, con
un'etichetta che avverte che non è adatta al consumo umano. Bill e Rhonda Fels,
una coppia di coniugi di Lawsonville, nella North Carolina, hanno avuto l'idea
di produrre e vendere PetRefresh, un'acqua senza fluoruro e cloro che ha essenze
ghiotte per gli animali come quella di carne e pesce. Secondo i coniugi Fels,
l'acqua del rubinetto sarebbe dannosa per gli animali domestici, perché
causerebbe danni ai reni, alle vie urinarie e alle ossa. Comunque sia, l'idea di
Bill e Rhonda Fels è diventata un business: vendono acqua per animali da quella
che era una fattoria per la produzione del tabacco a Lawsonville, al costo di
1,49 dollari per una bottiglietta da un quarto di litro. Un'attività che va a
gonfie vele: nel giro di nove mesi, le vendite sono passate da 1300 bottiglie al
mese a oltre 50.000. E, adesso, l'acqua minerale per animali si può acquistare
anche su Internet. Un commercio alquanto bizzarro che i Fels stanno pensando di
ampliare, lanciando un'acqua per cavalli con delle vitamine aggiunte, dal nome
evocativo EquiFresh.
Non è dato sapere se il lancio dei nuovi prodotti sia stato
accompagnato da una ricerca di mercato con interviste ai nuovi consumatori.
Ormai siamo entrati in una dimensione da cui sarà difficile uscire e che ora
coinvolge anche gli amici animali.
È «guerra» tra rubinetti e bottiglie

In queste ultime pagine ci siamo soffermati nell'analisi di alcuni
fatti poco noti la cui conoscenza è utile non solo per fare acquisti più
consapevoli, ma soprattutto per capire che cosa si nasconde dietro il florido
commercio dell'acqua. A proposito, sapevate che l'acqua che sgorga dai vostri
rubinetti è quasi sempre oligominerale, cioè con un contenuto di residuo fisso
al di sotto di 500 milligrammi/litro? Insomma, molti acquedotti forniscono acqua
minerale, ma per legge non possono definirla «naturale». Come dimostra lo strano
caso del Consiag (consorzio di acque potabili poi confluito nella società
Publiacqua S.p.A. di Firenze) accusato da Mineracqua di usurpare la
denominazione «acqua minerale naturale». La guerra tra acqua di rubinetto e
acqua minerale è scoppiata tra il 1998 e il 1999, quando il Consiag ha lanciato
un'insolita e massiccia campagna pubblicitaria attraverso vistosi cartelloni
apparsi in venti comuni nelle province di Firenze e Prato. Per Mineracqua era
intollerabile quella pubblicità «suscettibile di ingenerare nel consumatore
confusione tra l'ordinaria acqua potabile distribuita dal Consiag e le acque
minerali naturali». Curiosamente l'esposto all'Autorità garante della
concorrenza e del mercato non parte da Mineracqua ma dall'Associazione a tutela
dei consumatori che ha segnalato la presunta ingannevolezza del messaggio. Lo
slogan che aveva fatto infuriare i produttori di acqua minerale è malizioso: «Se
pensi che l'acqua di casa non sia buona, te l'hanno data a bere». Acomplicare le
cose c'è l'immagine in bianco e nero di un bambino che beve e la scritta:
«Consiag, minerale naturale a casa tua».
Analoga la vicenda di una campagna pubblicitaria lanciata il 27
dicembre 2004 da Acea S.p.A., il gestore pubblico-privato che distribuisce
l'acqua ai romani. Tutto era cominciato con un comunicato stampa: «È buona come
un'acqua minerale, anche di più. È sicuramente meno costosa e non è carica di
calcio, come vuole una leggenda metropolitana». Lo slogan utilizzato era: «A
Roma l'acqua di montagna sgorga dal rubinetto: pura acqua di sorgente,
buonissima da bere».
Con grandi manifesti 6 × 3 a sfondo giallo ocra e di formato più
piccolo affissi in città, l'azienda capitolina quotata in Borsa intendeva
pubblicizzare il suo core business, così come si fa con un prodotto qualsiasi.

La «dichiarazione di guerra» era stata lanciata ai produttori di
acqua minerale che certo non potevano rimanere impassibili. Loro che in una
Guida per il consumatore distribuita con la stampa benevola, tra i consigli
utili per il consumatore, avevano scritto: «Evita assolutamente l'impiego di
ghiaccio, che da un lato ne altera il gusto e, dall'altro, ne contamina la
purezza originaria».
L'acqua di Roma, fa notare Acea, è costantemente monitorata dal
laboratorio Acea di Grottarossa che controlla tutta la rete idrica. Nel 2004
sono stati raccolti circa 7000 campioni, 40 al giorno, ed effettuati 250.000
controlli.
Come era già accaduto nel caso del Consiag, scatta la rappresaglia
di Mineracqua, che si rivolge all'Autorità garante della concorrenza e del
mercato. Sono due gli elementi che fanno imbufalire Mineracqua: l'uso delle
parole «pura acqua di sorgente» e «acqua di montagna». Allora, l'aggettivo pura
lo può usare solo l'acqua minerale (per legge). La denominazione acqua di
sorgente «è abusiva» in quanto l'acqua di sorgente è un'altra categoria
commerciale diversa dall'acqua di rubinetto. Acea inoltre non può dire che la
sua è acqua di montagna (ricordate qualche slogan famoso all'insegna dei
superlativi?), perché le sorgenti del Peschiera di trovano a soli 416 metri di
altitudine. Sulla base di queste argomentazioni, l'Autorità antitrust avvia la
sua istruttoria.
Sorprendente la conclusione dell'Autorità: acqua minerale e acqua
di rubinetto sono concorrenti, «essendo l'acqua minerale un prodotto il cui
consumo può essere alternativo a quello dell'acqua del rubinetto pubblicizzata».
Alla fine di una lunga e complessa istruttoria, l'Autorità prende una decisione
salomonica: «Le indicazioni fornite nel messaggio non appaiono mendaci, né tanto
meno idonee a ingenerare nei consumatori falsi convincimenti in relazione
alle caratteristiche dell'acqua erogata agli utenti di Roma, di cui si limita a
sottolineare la provenienza da sorgenti naturali, la potabilità, le apprezzabili
caratteristiche organolettiche». Tuttavia, l'Autorità ritiene di sanzionare Acea
perché «il messaggio pubblicitario, con esclusivo riferimento alla dicitura
acqua di montagna, è idoneo a indurre in errore i destinatari relativamente
all'origine dell'acqua cui si riferisce potendo, per tale motivo, pregiudicarne
il comportamento economico».
Ma quante acque esistono?
Come abbiamo avuto modo di vedere, non è più possibile parlare
solamente di acqua, quanto piuttosto di vari tipi di acque, secondo criteri più
commerciali che reali. Per legge esistono quindi tante «acque da bere»: acqua
potabile, acqua minerale naturale, acqua di sorgente, acqua da tavola, acqua
trattata (quella che alcuni ristoranti propinano ai propri clienti, ottenuta
tramite un impianto a osmosi inversa e poi gasata) che può costare 2,50 euro a
caraffa. Essendo l'acqua ormai essenzialmente un bene economico, è soggetta alle
leggi di mercato, con le relative guerre commerciali e i giochi della
concorrenza più spietata. Ecco una breve guida alle varie acque in commercio.

L'acqua che troviamo sugli scaffali dei supermercati non è
necessariamente «acqua minerale naturale». Può essere anche acqua potabile, come
quella del rubinetto, oppure la stessa trattata industrialmente per cambiarne
composizione e sapore. In ogni caso è sempre più cara dell'acqua che arriva
nelle nostre case tramite le condutture. L'acqua di sorgente, per esempio, è
acqua potabile prelevata alla fonte dalle migliori falde che servono anche gli
acquedotti, messa in bottiglia e venduta. Deve rispettare i parametri dell'acqua
di rubinetto. Non si può aggiungere cloro, ma può subire gli stessi trattamenti
di purificazione dell'acqua minerale. Solitamente, in commercio, viene usata per
rifornire uffici, ospedali o grandi magazzini, confezionata in boccioni da 18
litri.
L'acqua da tavola rientra invece nella categoria dell'acqua «a uso
umano», in pratica comune acqua potabile che può essere captata direttamente
anche da un rubinetto, trattata industrialmente per conferirle le
caratteristiche desiderate e imbottigliata. Può essere clorata. Si possono
eliminare alcune sostanze o sali minerali e aggiungerne altri. Per esempio, la
si può arricchire di calcio o magnesio. Per legge non la si può chiamare né
«minerale» né «naturale» né «mineralizzata» e i produttori non hanno l'obbligo
di riportare in etichetta tutti i dati di composizione come la normale acqua
minerale.
Acqua da tavola e acqua di sorgente sono ampiamente
commercializzate in contenitori da 18,9 litri o 5 galloni, presentati con
un'etichetta che dà un certo tono. Un business in crescita che, nel 2002, in
Europa ha raggiunto il 3 per cento del mercato dell'acqua confezionata, con
circa 1,4 miliardi di litri, di cui un miliardo in Europa occidentale e 400
milioni in Europa orientale. E per il futuro si prevede una vera e propria
esplosione degli affari. La Zenith International stima un aumento del 17 per
cento degli impianti di refrigerazione (le colonnine che ormai si ritrovano
nelle comunità e nei centri commerciali), che, quadruplicati in cinque anni,
sono, solo in Europa, circa 2.100.000.
Lo spazio di crescita di questo zampillante mercato è enorme. Si
stimano 3 refrigeratori ogni 1000 abitanti in Europa, contro i 30 negli Usa.
L'aspetto stupefacente di questo lucroso business è che le comunità che
impiegano questi boccioni pagano un servizio che esiste già: l'acqua che esce
dai rubinetti.
Anche in questo sottosettore dell'acqua imbottigliata, i leader
sono sempre gli stessi: Nestlé, che in Europa si presenta con il marchio Nestlé
Acquarel, e Danone.
La multinazionale francese Danone, che produce e commercializza
un'ampia gamma di prodotti alimentari, tra cui latticini, bevande analcoliche,
biscotti e snack (marchi Lu e Saiwa), ha acquisito la Château d'Eau
International (Cei) nel 2002, una società francese che opera su scala europea
nel mercato della fornitura di erogatori d'acqua in boccioni. E fin qui non ci
sarebbe nulla di strano. Ma c'è una particolarità: la Cei era interamente
controllata dalla Ondeo, società del gruppo Suez, che si occupa di acqua in
tutti i suoi molteplici aspetti. In Italia, la Cei opera tramite alcune
controllate: Château d'Eau Italia Srl, Rio Srl e Drink Cup S.p.A., con una quota
di mercato compresa tra il 20 e il 30 per cento. Le altre quote sono detenute da
Culligan Italia (controllata da Veolia Water, che abbiamo visto all'opera in
Italia come gestore di alcuni acquedotti), da Aquapoint e Bpm. Nel nostro Paese,
nel 2002, sono stati venduti 110 milioni di litri con una crescita del 29 per
cento e sono stati distribuiti 160.000 refrigeratori, con un giro d'affari di 44
milioni di euro. La società italiana pioniera del settore è la marchigiana Drink
Cup (sorgente Meteora), che è stata poi acquisita dal gruppo Danone. In
bottiglia, nei boccioni o costretta a scorrere nei tubi, la forma dell'acqua
costituisce il vero business. È il contenitore che dà valore economico al
contenuto.
I NUMERI DELL'EMERGENZA 1.500.000.000 di
persone senza acqua potabile 2.400.000.000 senza servizi igienici 30.000
morti al giorno a causa dell'acqua non potabile 180 miliardi di dollari gli
investimenti necessari per dissetare il 75 per cento di quelli che non hanno
acqua
© 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano



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