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Processo a Saddam, la vendetta dei vincitori
di Danilo Zolo
su Il Manifesto del 07/11/2006

Come era previsto, Saddam Hussein è stato condannato a morte assieme
a tre dei suoi più diretti collaboratori. La sentenza è stata emessa
dal Tribunale speciale iracheno, varato nel dicembre 2003 dalle
forze angloamericane occupanti. I giudici erano stati in maggioranza
designati dal Governo provvisorio dell'Iraq agli ordini
del «proconsole» americano Paul Bremer. Lo Statuto del tribunale era
stato redatto da giuristi statunitensi.
L'ex-presidente iracheno è stato ritenuto colpevole di crimini
contro l'umanità. Verrà perciò giustiziato entro qualche mese se,
come è molto probabile, la corte d'appello confermerà la sentenza.
Il solo elemento di incertezza era costituito dall'alternativa fra
l'impiccagione e la fucilazione. Ora sappiamo che Saddam finirà
sulla forca come un criminale comune e non sarà invece fucilato come
egli orgogliosamente richiede.
Sono in molti, non solo in Occidente (vedi l'Iran) ad applaudire
alla condanna esemplare a partire ovviamente da George W. Bush,
pronto ad esibirla nelle elezioni. Giustizia è fatta, si proclama,
grazie a un nuovo «Tribunale di Norimberga» che sta rivelando al
mondo i crimini di un dittatore spietato e intende sanzionarli. E
sarà - si sostiene - anche un passo avanti verso la «pacificazione e
la ricostruzione democratica di un paese che le armate
angloamericane hanno liberato da un regime dispotico e sanguinario».
L'Occidente, spettatore del tramonto della sua civiltà giuridica, si
divide. Naturalmente, ed è buona cosa, l'Unione europea - perfino
con Tony Blair - si dice contraria alla pena di morte. Ma è
silenziosa, quando non partecipe, sulla natura «sovrana» del
processo, come sfacciatamente fa il presidente russo Putin. Fra
coloro che sembrano partecipare, pur ricordando nettamente «la
contrarietà degli italiani alla pena di morte» e il disastro che ne
verrà in Iraq, c'è il ministro degli esteri italiano, Massimo
D'Alema. Che in un comunicato diffuso dalla Farnesina ha infatti
dichiarato sul processo che si è trattato di «una decisione assunta
da un organo giudiziario in un Paese che ha un governo e un
parlamento eletti democraticamente, e che quindi decide in modo
autonomo anche sulla propria legislazione in materia penale». E
aggiunge che «la condanna per chi si è macchiato di orrendi crimini
contro l'umanità deve essere netta, severa e inflessibile».
Certo, non si può negare che l'ex-dittatore iracheno e i suoi
principali collaboratori meritassero di essere processati dal popolo
iracheno e giudicati severamente. E per farlo era necessario un
tribunale speciale. Ma questo tribunale, voluto, organizzato e
finanziato dagli Stati Uniti, va molto oltre l'anormalità giuridica
di qualsiasi corte speciale. Il tribunale esercita la sua
giurisdizione sulla base di figure di reato che non erano previste
dal diritto iracheno e che sono state introdotte nello Statuto solo
per consentire l'incriminazione e la condanna a morte dell'ex-
dittatore. I diritti della difesa sono stati gravemente limitati ed
è stato violato anche il principio nulla culpa sine judicio, che
esige una rigorosa presunzione di innocenza a favore degli imputati.
L'ex presidente è tutt'ora tenuto prigioniero in un luogo segreto
dalle milizie statunitensi che lo hanno catturato e sottoposto a
pesanti interrogatori. Queste gravi distorsioni dipendono dalla
volontà degli Stati Uniti di rifiutare la giurisdizione penale
internazionale e di servirsi di un tribunale iracheno operante sotto
il loro stretto controllo. Ci sono dunque molte ragioni per mettere
in dubbio la legalità internazionale, la legittimità politica e
l'indipendenza di questo Tribunale, istituito nel contesto di una
occupazione militare e per volontà delle potenze occupanti in
violazione della quarta Convenzione di Ginevra. Non a caso per
Amnesty la sentenza è «un affare losco».
È naturale che il popolo iracheno - non solo la componente sunnita -
percepisca questa condanna non come un'espressione della propria
sovranità, ma come una farsa giudiziaria voluta dagli Stati Uniti.
Le straordinarie misure di sicurezza decise dal governo di Baghdad
ne sono un indice eloquente. E gli Stati Uniti non hanno certo le
carte in regola per erigersi a paladini della causa dei diritti
umani. Basterebbe ricordare le infamie di Guantánamo, Abu Graib e
Fallujah, e non dimenticare che gli Stati Uniti sono stati complici
di Saddam Hussein nella guerra contro l'Iran e che ne hanno
sottaciuto i gravissimi crimini, incluso il massacro dei kurdi con
l'uso del gas ad Halabja, nel 1988. Questo processo è una farsa
giudiziaria tanto più grottesca se si tiene presente che gli Stati
Uniti rifiutano di riconoscere la Corte penale internazionale di
fronte alla quale gli attuali leader repubblicani dovrebbero
rispondere dei crimini commessi scatenando la «guerra preventiva»
contro l'Iraq.
Anche stavolta - e assai più gravemente che a Norimberga e a Tokyo -
la giustizia è stata stravolta. È stata in realtà una resa dei
conti, il regolamento delle pendenze, la vendetta dei vincitori sui
vinti. È stata una teatralizzazione propagandistica della giustizia
con il solo scopo di coprire i misfatti dei vincitori. Ma lo
spargimento rituale del sangue di Saddam Hussein non offrirà alcun
contributo alla pacificazione dell'Iraq e alla legittimazione del
nuovo ordine «democratico»: alimenterà l'odio, la violenza e il
terrore in una guerra sempre più spietata e cruenta.