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Aihe: [NuovoLab] rassegna stampa su assemblea movimenti contro guerra a Firenze
liberazione 22.10.06

Sul tavolo la manifestazione del 18, due piazze e tre piattaforme
Firenze, l’appello dall’assemblea nazionale dei pacifisti: rilasciate Torsello e via dall’Afghanistan


Checchino Antonini
Firenze nostro inviato
«Rilasciate Torsello: è uno di noi ed è contrario all’occupazione dell’Afghanistan». Un ordine del giorno, presentato da Alfio Nicotra, per la liberazione del reporter italiano, sarà l’unico contenuto, condiviso da tutti i partecipanti all’assemblea dei movimenti “per la pace e contro la guerra” in corso, tra ieri e oggi, a Firenze. «La sua uccisione sarebbe un pretesto per proseguire l’inaccettabile missione militare», recita l’appello diffuso mentre l’assemblea, poco meno di 200 partecipanti, provava a ripartire dall’analisi degli scenari, a cominciare dalla crisi della strategia Usa determinata dalla tenace resistenza libanese. Sul tavolo la scadenza del 18 novembre, dedicata alla Palestina, che trova le reti no war divise tra due piazze (Milano e Roma) e tre piattaforme. Quella della Tavola della pace (con la controversa parola d’ordine “Forza Onu”) e quella predisposta a settembre, proprio qui a Firenze, da Action for peace, potrebbero trovare punti di convergenza se funzionasse il tentativo di rilettura che ieri sera, mentre Liberazione andava in macchina, ha impegnato alcuni partecipanti alla due giorni. La terza piattaforma, elaborata dal cartello che è sceso in piazza il 30 settembre (Cobas, Pcl e antimperialisti), ha già deciso di marciare per conto proprio nella Capitale. Bernocchi, dei Cobas, lo dà per scontato ma poi apre uno spiraglio per un appuntamento unitario, a gennaio, per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
Già, usando le parole di Bersani (Attac): «E’ difficile essere pacificatori in Libano e aggressori in Afghanistan». La piattaforma della Tavola, per il 18 novembre, viene giudicata via via «d’alemiana», «debole», «ambigua», «arretrata persino rispetto alle risoluzione dell’Ue», da molti interventi (Bernocchi, Bersani, Agnoletto, Mecozzi) e chi proverà a rimetterci mano lo farà cercando di inserire tra richieste la liberazione dei ministri di Hamas, lo sblocco dei fondi per l’Anp, la richiesta di una conferenza internazionale di pace e l’abrogazione dell’accordo di cooperazione militare tra Roma e Tel Aviv che getta ombre sul ruolo dei 5mila soldati italiani spediti in Libano. Per alcuni, Raffaella Bolini (Arci) in primis, quella missione «è uno spiraglio da cogliere», per altri, «così com’è, stabilizza quello che già esiste e non ripristina il diritto internazionale», come si sente dire dal milanese Piero Maestri di “Pace & guerre”. Però «rischia di azzerare le risorse per la cooperazione», avverte Raffaele K. Salinari, presidente di Terres des hommes, mettendo all’ordine del giorno la “finanziaria di guerra”. «E inoltre non è sufficiente senza l’intervento di corpi di pace», aveva detto prima di lui, Agnoletto, anticipando il tema dell’ultima sessione di ieri sui “corpi di pace” (scudi umani, berretti bianchi, ambasciate di pace, ecc), ossia quei corpi civili, previsti da leggi vigenti (ma inattuate) e oggetto di insegnamento universitario, sulle quali va colmato quel deficit di analisi richiamato fin dall’introduzione dei fiorentini Torregiani e Tassinari. Malgrado gli sforzi degli organizzatori, le distanze restano immutate. Ciò si deve anche alla questione del governo: chi la chiama sindrome da governo amico e chi sembra assumerla come orizzonte del proprio agire però, in mezzo, cresce l’area di chi vuole uscire dalla strettoia e crede (come il toscano Massimo Torelli) che si fa un pessimo servizio al governo «tacendo i problemi o giustificando le mediazioni». Tuttavia, mentre è giusto interrogarsi su come «tornare in Palestina», sui rapporti di forza e di classe nei paesi in guerra (Fabio Alberti) e su come contrastare il fronte interno della guerra globale, se l’obiettivo resta quello di «una rete popolare» vanno indagate le cause di certe sedie vuote. I disobbedienti del nord-est sono in città anche loro ma solo per un convegno con gli antagonisti toscani. «E mancano cattolici di base e lillipuziani - ricorda Michele De Palma, Prc - ma soprattutto manca l’“eccedenza”, donne e uomini né militanti, né attivisti che riempivano le iniziative negli anni passati». Un’assenza che non è totale: tracce di social forum locali e di comitati contro la militarizzazione (genovesi, fiorentine, persino del nord-est romano, da Aviano, Camp Darby e dalla Sardegna) si intravedono ancora, come pure punti alti di elaborazione come fa fede la voluminosa sbobinatura del convegno dello scorso inverno preparata dai padroni di casa. Ma le lontananze non sono cosa da poco e hanno bisogno di tempi molto lunghi. L’amarezza di Alì Rashid per l’eclissi del movimento che tante speranze aveva acceso nella sua Palestina convive ancora col sogno del napoletano Sirio Conte per una «normale manifestazione di massa» per la pace in Medio Oriente. Intanto, però, la guerra «ci sta entrando dentro», avverte il parlamentare palestinese.
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Molti i fronti di guerra (oltre all’Iraq) e le controversie irrisolte e alti i compiti
di un movimento che dell’autonomia dalla politica ha fatto un punto di forza
Dall’Afghanistan alla Palestina


Piero Maestri e Felice Mometti
Il movimento contro la guerra si trova in una fase di impasse e di ridefinizione delle proprie priorità. Dopo le grandiose mobilitazioni seguite al Controvertice di Genova del 2001 e al Forum sociale europeo di Firenze del 2002, il movimento per la pace ha ottenuto un successo importante con la decisione del governo Prodi di ritirare le truppe italiane dall’Iraq. Successo frutto del percorso di mobilitazione che non ha esitato a richiedere su questo punto un impegno preciso all’Unione. Ma oltre l’Iraq restano ancora molti i fronti di guerra e le controversie irrisolte e alti i compiti di un movimento che dell’autonomia dal quadro politico ha fatto, nel passato, un punto di forza.
E’ evidente infatti che nelle secche dell’unilateralismo Usa e nell’impasse della sua strategia in Medioriente - strategia che sta alla base dei rischi di esplosione di un nuovo e pericoloso “scontro tra le civiltà” - assistiamo al tentativo di dare di nuovo smalto a un sistema multilaterale che nel ritrovato rapporto tra Usa ed Unione Europea punta ad affermare un protagonismo della Nato come poliziotto globale.

Risiede qui la ragione politica del nostro rifiuto della missione militare in Afghanistan, oltre allo stato di guerra aperta che quell’operazione rappresenta in chiara violazione dell’articolo 11 della Costituzione. Per questo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan resta l’obiettivo prioritario per operare davvero una discontinuità con le politiche del precedente governo e con la logica del multilateralismo che ha sorretto la stagione delle “guerre umanitarie”.

L’impasse dell’unilateralismo si registra però anche nella situazione disastrosa del conflitto mediorientale e nella condizione gravissima in cui versa il popolo palestinese. I guasti di scelte unilaterali sono sotto gli occhi di tutti: il ritiro israeliano da Gaza, osannato anche a sinistra, non solo non ha risolto i problemi di Gaza ma ha portato alla sanguinosa guerra di Israele contro il Libano, mentre nei Territori occupati si aggravano non solo lo stato dei diritti civili ma anche le condizioni umanitarie della popolazione palestinese stretta dall’assedio dell’occupazione e dell’embargo internazionale.

Sulla missione in Libano abbiamo opinioni diverse: alcuni di noi pensano che sia accettabile in quanto forza di interposizione pacifica nel pieno rispetto della Carta Onu; altri ritengono che non offra garanzie di neutralità e che, nel quadro del multilateralismo, riproponga la logica militare quale fondamento della politica estera. Ma al di là di queste differenze siamo tutti fermamente convinti che senza la soluzione della questione palestinese, senza uno stato sovrano, la fine dell’occupazione da parte di Israele, la fine della colonizzazione, lo smantellamento del Muro, nessuna soluzione pacifica potrà darsi tanto meno con l’ausilio di truppe speciali.

Per queste ragioni il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e la soluzione della questione palestinese restano le priorità del movimento per la pace, insieme a una battaglia per la riduzione delle spese militari, la chiusura delle basi USA e Nato sul territorio italiano, il rifiuto di accordi militari con paesi in guerra e/o responsabili di violazioni del diritto internazionale. .

Abbiamo sostenuto queste posizioni promuovendo e/o partecipando a importanti assemblee lo scorso luglio. A queste assemblee non sono seguite mobilitazioni in grado di inverare quelle parole d’ordine e, per la prima volta, il movimento ha mancato unitariamente una scadenza indetta dal Social Forum europeo di Atene. Riteniamo un vulnus questa situazione e non ci convincono i tentativi di dare vita a un movimento fiancheggiatore del governo né ci convince l’uso puramente politico delle scadenze di movimento. Riteniamo importante la scadenza unitaria di movimento con l’assemblea di questi giorni a Firenze e vogliamo batterci perché oggi da questo appuntamento emerga un’iniziativa nazionale la più ampia e unitaria possibile entro la fine dell’anno che riprenda tutto il percorso fatto finora dall’Afghanistan alla Palestina e che sappia promuovere, davvero, la costituzione di un movimento articolato, autorganizzato, dotato di strutture in grado di decidere autonomamente e in forma partecipata.




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il manifesto 22.10.06
Pacifisti al bivio
A Firenze l'assemblea dei movimenti: «Attenzione ai governi amici»
Bocciata una prima bozza di piattaforma presentata dal Tavolo per la pace. Le associazioni discutono alla ricerca di nuove, possibili iniziative unitarie
Riccardo Chiari
Firenze
Passaggio difficilissimo per il movimento pacifista. «Se questa assemblea finisce con l'accettazione notarile delle posizioni esistenti - osserva Luciano Muhlbauer - diventa la celebrazione simbolica di un funerale. E torniamo a prima di Genova. Se invece riusciamo a trovare punti di convergenza, non tanto un accordo quanto un'interlocuzione, la porta resta ancora aperta per costruire iniziative unitarie». L'assemblea è quella dei movimenti per la pace e contro la guerra, (ben) organizzata dal nodo arcobaleno fiorentino e dagli Studenti di sinistra nel plesso universitario di matematica a Cereggi. Ci sono tutti o quasi, a poca distanza si ritrovano non per caso anche gli antagonisti toscani e i disobbedienti del nordest, che per oggi assicurano il loro ipercritico intervento. E' la spia, non la sola, di una possibile frantumazione che ha molti padri.
In sala gira la lettera aperta al movimento contro la guerra scritta da Piero Maestri e Felice Mometti. Si fotografa la fase di impasse. Si ricordano le priorità che deve avere un movimento autonomo dalle istituzioni (ritiro dall'Afghanistan, soluzione della questione palestinese, riduzione delle spese militari, chiusura delle basi Usa e Nato sul territorio, rifiuto di accordi militari con paesi in guerra). Soprattutto si segnala: «Per la prima volta il movimento ha mancato unitariamente una scadenza indetta dal social forum europeo di Atene». Una ferita aperta. «E non ci convincono i tentativi di dare vita a un movimento fiancheggiatore del governo, né ci convince l'uso puramente politico delle scadenze di movimento».
Il primo riferimento appare diretto alla bozza iniziale di documento con cui la Tavola della pace intende organizzare il 18 novembre prossimo una manifestazione a Milano, in contemporanea con un'analoga iniziativa dell'ala «antimperialista» del movimento. «Non mi scandalizza il 18 novembre - dice Piero Bernocchi dei Cobas - mi scandalizza la piattaforma». Un dissenso di metodo e di merito («non è stata concordata nemmeno con le associazioni più piccole della Tavola», osserva un delegato), che va a investire le realtà più grandi: la Cgil e l'Arci. La genericità della prima bozza, bocciata anche dalla Fiom, ha convinto a riscriverla rapidamente. Tornano così le priorità evidenziate da Action for peace: l'Afghanistan, il muro, gli accordi militari fra Italia e Israele sottoscritti dal governo Berlusconi. E' il segnale di un'interlocuzione ancora possibile.
Possiamo ancora lavorare insieme. C'è una (buona) parte di movimento che regge, tetragona, di fronte al rischio di uno stop. «Omettere i problemi è un pessimo servizio anche per chi considera 'amico' il governo - osserva il fiorentino Massimo Torelli - perché lo indebolisce nel paese. Ma quello che è successo in questi ultimi mesi apre delle possibilità. La situazione internazionale non è bloccata come nel 2002-03, quando era semplice scendere in piazza contro Bush Blair e Berlusconi ma la risposta era scontata. Ora il quadro è dinamico. Anche pericoloso, ma crea spazi». Spazi politici, a patto di mantenere l'ottimismo della ragione. Quella che porta Marco Bersani di Attac a proporre iniziative comuni su Afghanistan e legge finanziaria (leggi spese militari). Quella che fa dire ad Ali Rashid che «occorre fare uno sforzo straordinario perché l'iniziativa avviata in Libano vada avanti. Perché oggi la comunità internazionale è presente in Medio Oriente, cosa che chiedevamo da anni. Non per caso Usa e Israele stanno facendo uno sforzo enorme per far cambiare la missione».
Da Alfio Nicotra di Rifondazione arriva la proposta di un appello ai sequestratori di Gabriele Torsello: «E' uno di noi, contro la guerra e l'occupazione dell'Afghanistan. Liberatelo, la sua uccisione colpirebbe il movimento per la pace e verrebbe usato come pretesto per proseguire l'inaccettabile missione militare». L'assemblea approva. Poi, ed è già pomeriggio, si inizia ad affrontare la tragedia palestinese. Giudicata un nuovo banco di prova per il governo e la sua politica estera. Per capire quale sia la sua effettiva discontinuità, quale il cambio di strategia. Oggi si riparte.






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