[NuovoLab] il movimento torna in strada

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Szerző: antonio bruno
Dátum:  
Címzett: fori-sociali, forumambientalista, debate
CC: forumgenova, forumsociale-ponge
Tárgy: [NuovoLab] il movimento torna in strada
il manifesto, 27.08.06

Il movimento torna in strada
Ieri a Assisi la manifestazione per la pace. L'8 ottobre il prossimo
appuntamento
Alessandro Braga
Assisi
Dentro l'auditorium della Cittadella di Assisi si discute sul da farsi. Si
susseguono gli interventi: don Luigi Ciotti, Franco Giordano, Antonio
Papisca, Fabio Corazzina. Proposte, idee, appuntamenti. «La missione è
pericolosa, ma è un primo importante passo». «La politica è l'altro nome
della pace», dice Pierluigi Castagnetti. «Troviamoci di nuovo tutti qui, a
ottobre, e facciamo il punto della situazione», propone Flavio Lotti. Carne
al fuoco ce n'è tanta.
Fuori, sotto il sole, il popolo della pace aspetta il momento della marcia.
Intanto si confronta, dibatte. Qualcuno si riposa. Una ragazza si appisola
sotto un ulivo. Le bandiere arcobaleno sono ovunque, mischiate a quelle
rosse di Cgil, Rifondazione, Comunisti italiani. A quelle bianche delle
Acli, quelle gialle di Legambiente, quelle multicolore dell'Arci. C'è la
Margherita. Ci sono pure i Verdi.
Sono in tanti a Assisi, in una calda giornata di fine agosto. «Se vengono
4.000 persone sarà un grande successo, in un periodo in cui anche le
diocesi sono chiuse» aveva dichiarato nei giorni scorsi la Tavola della
Pace. Forse non sono così tanti, ma è un successo lo stesso. Non solo per
il numero di partecipanti, ma per lo spirito con cui hanno voluto essere
presenti. Gioiosi e preoccupati nello stesso tempo, speranzosi nel buon
esito della missione, per nulla rassegnati. «Non chiamateci sognatori,
utopisti. Quelli semmai sono coloro che continuano a credere di poter
costruire la pace con la guerra. Ma allora è meglio chiamarli illusi», dice
Flavio Lotti nel suo intervento.
Se a seguire il dibattito ci sono mille persone, è perché di più nella sala
non ce ne stanno. Fuori sono almeno il doppio. Anziani con i nipotini
mischiati a giovani che si baciano. Famiglie che mangiano sedute sull'erba.
Intanto gli altoparlanti diffondono le parole che vengono dette
nell'auditorium. Si applaude dentro, risponde il battimani fuori. Quando
Raffaella Bolini, dell'Arci, apre il suo intervento dicendo di volersi
stringere in un abbraccio alla famiglia di Angelo Frammartino e gli amici
mostrano in sala lo striscione che lo ricorda, si alzano tutti in piedi.
Battono le mani. E' un applauso lungo, commosso.
Tutti vogliono parlare, intervenire, dire la propria. I tempi si dilatano.
La marcia, prevista per le tredici, viene rimandata di mezzora. Poi di
un'ora. Alla fine parte. Alla testa del corteo c'è uno striscione degli
organizzatori con la scritta «Forza Onu». A seguire il gonfalone del comune
di Monterotondo e il lenzuolo con la scritta «Faremo l'amore con la non
violenza, per partorire la pace dal grembo della società». E' l'invito che
Angelo aveva lanciato in una delle sue ultime e-mail. Ci sono poi i
numerosi gonfaloni degli enti locali che hanno aderito all'iniziativa: 181
tra comuni, province e regioni. Le bandiere delle oltre 400 associazioni
partecipanti. Singoli che hanno voluto esserci, per dimostrare di essere
contro la guerra. «In Libano ma anche in Palestina, in Africa come nel sud
est asiatico», dice Silvia, venticinque anni. E' venuta in macchina
dall'Emilia Romagna con due amiche. Duecentocinquanta chilometri per dire
«No alla guerra». Alcuni vengono dalla Campania, molti dal Lazio. Ci sono
anche dei lombardi. Si sentono accenti veneti. Mario è di Pordenone, ma
vive in Toscana. Anche lui ha voluto esserci. Ha partecipato anche Mohamed
Nour Dachan, il presidente dell'Ucooi, l'unione delle comunità islamiche
d'Italia, che non ha voluto commentare la vicenda dell'inserzione a
pagamento su alcuni giornali della destra in cui la sua associazione
definiva equivalenti le stragi israeliane e quelle naziste. «Siamo qui per
dare la nostra solidarietà ai genitori di Angelo Frammartino» dice.
Poi è la volta delle scarpe, quelle simboleggianti le vittime della guerra.
I partecipanti le depositano sull'enorme lenzuolo-macchia di sangue al
centro della piazza, insieme a tanti ramoscelli d'ulivo.
Infine gli interventi, stavolta brevi. Padre Vincenzo Coli, custode del
sacro convento, dice che l'iniziativa «è un supporto all'azione di governo,
un buon obiettivo per la pace». Gli amici di Angelo lo ricordano leggendo i
suoi scritti. L'attrice Daniela Poggi legge tre brani: di una cantante
palestinese, di uno scrittore israeliano e di uno libanese. Poi i saluti:
ci vediamo presto, a ottobre. Ancora ad Assisi.
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liberazione, 27.8.06

Parla il presidente di Libera: «La forza Onu
è una scelta necessaria sulla strada della pace»
Don Ciotti: «Non dobbiamo nasconderci i dubbi»
Assisi nostro inviato
Don Luigi Ciotti non poteva mancare. Il prete scomodo, l’amico dei
pacifisti se ne sta in piedi, defilato. Al riparo da giornalisti e da occhi
indiscreti. Ma anche lì non può sfuggire agli abbracci e ai saluti
affettuosi degli amici e dei compagni di sempre. Lui ricambia e invita al
silenzio. Non vuole perdersi neanche un intervento. Che sia un politico
avvezzo ai telegiornali o l’ignoto rappresentate della più piccola
associazione di base, lui è sempre lì che ascolta, attento e partecipe.

Del resto è il suo lavoro ascoltare le parole e l’anima profonda delle
persone. Un lavoro che, di certo, Don Luigi Ciotti sa far molto bene. E’
convinto e lo ripete più volte che per cambiare il mondo, per migliorarlo,
«dovremmo scegliere un po’ di più il Noi e un po’ meno l’Io».


Una forza di interposizione Onu. E’ una vittoria per il popolo della pace?

Diciamo che è una scelta necessaria. Una scelta che va nella direzione
della costruzione della pace. Non dobbiamo però nasconderci dubbi e
interrogativi. Dobbiamo avere coscienza dei nostri limiti. E agli amici che
hanno scelto di non essere qui con noi oggi, che noi siamo qui anche per
loro. Il nostro obbiettivo è lo stesso: la pace.


Qualcosa però è cambiato: l’Onu e l’Europa hanno assunto un ruolo determinante
E’ vero, questa è una novità importantissima. E non è neanche l’unica. Da
un lato l’Onu si è svegliata, ed era ora. Dall’altro c’è un’Europa che
finalmente si propone unita come grande forza di mediazione. Credo allora
che forze siamo davanti a un metodo che può essere seguito per altre
situazioni drammatiche. Nel mondo ci sono 22 conflitti che hanno provocato
la morte di 5 milioni di persone. Senza contare che c’è un commercio d’armi
tale d’aver raggiunto, l’anno passato, la cifra record di 1000 miliardi di
dollari. Basterebbe il 5% di questa cifra per risolvere il problema
dell’acqua nel nostro mondo. Per questo voglio chiedere al nostro governo
di rimettere quei paletti legislativi, senza i quali il nostro paese è
arrivato ai vertici mondiali del commercio di armi.


Una volta finito il ruolo della forza di interposizione cosa bisognerebbe
fare?

Dobbiamo avviare una politica concreta e di lungo periodo contro la povertà
e l’ignoranza. Non c’è pace senza un’impegno quotidiano contro la violenza
della povertà. Non ci sarà mai. Ci sono milioni di uomini nel mondo che
vivono nella miseria, privati dei diritti più elementari. Dobbiamo
continuare a mobilitarci e a impegnarci per avviare una politica in cui al
centro ci sia l’uomo.

Non posso dimenticare che in Italia abbiamo la Mafia che solo nell’ultimo
quinquennio ha causato la morte di cinquemila persone. Non è una guerra
anche questa?


Cosa può fare la cosiddetta società civile? Che ruolo può avere?

Deve continuare a reclamare spazi di “protagonismo” e continuare a
mobilitarsi. L’anno scorso l’Onu ha ricevuto e ascoltato 100 Ong. Un grande
momento di confronto tra chi ha, o avrebbe, il potere di intervenire e
cambiare i destini del mondo e delle persone e chi quel mondo e quei
destini li vive quotidianamente. Ecco, questo non dovrebbe rimanere un
fatto isolato ma una norma condivisa e accettata. Dobbiamo affermare una
volta per sempre la partecipazione come valore fondante della politica
italiana e internazionale.

D. V.

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La missione parte da Assisi
Stefano Bocconetti
AssisiNostro inviato
Assemblea e corteo. Uno dopo l’altra, senza soluzione di continuità. Senza
neanche un minuto di pausa. Quasi cinque ore di discussione - vera, mai
formale, come solo questo movimento sa fare - e poi subito via in strada.
Meglio: subito via nei vicoli. Nelle piccole strade medioevali di Assisi.
Portando nel sagrato della Basilica di San Francesco lo stesso striscione
che fino a qualche minuto prima era esposto sotto il tavolo della
presidenza, lì, nella sala convegni della Cittadella. Striscione inusuale,
di più: impegnativo. Su uno sfondo blu, c’erano scritte due sole parole:
«Forza Onu».

E proprio attorno a queste due parole ha ruotato tutta la giornata di
mobilitazione straordinaria, organizzata dalla «Tavola della pace» e dal
coordinamento degli enti locali, ieri ad Assisi. Giornata che era stata
organizzata a luglio - una vera e propria scommessa - durante i primi,
tremendi bombardamenti israeliani sul Libano. Giornata confermata anche
quando la comunità internazionale è riuscita ad imporre una debole tregua
alle parti in guerra. Ancora: giornata confermata anche quando ha
cominciato a farsi strada l’idea di un possibile intervento di una forza di
peace keeping delle Nazioni Unite.

Sviluppi della situazione che piacciono a quasi tutti quelli che sono qui
ad Assisi. Quasi tutti, non proprio tutti tutti. Sviluppi - «inizio di un
percorso», è l’espressione più usata - che però hanno bisogno di tanto,
tanto altro per poter dare dei frutti. Ed è proprio di tutto quest’altro
che il movimento per la pace vuole occuparsi. Di quel resto che manca. E
che ci fosse bisogno di discutere, lo rivela subito Flavio Lotti, il
coordinatore della «Tavola», quando, verso le dieci e mezza, dà il via
all’assemblea. In una sala con trecento posti a sedere tutti occupati e
qualche altro centinaia di persone che seguono la discussioni fuori,
attraverso altoparlanti e uno schermo. Un piccolo schermo. Flavio Lotti
racconta del suo disagio davanti ad una guerra dove molti, troppi
osservatori si sono schierati come in «un derby calcistico». Stavolta, a
differenza di tutti gli altri anni, a differenza di quando si provava a
fermare la guerra in Kosovo, in Afghanistan, in Iraq, «il movimento non
manifesta contro qualcosa o qualcuno, ma vuole provare a fare qualcosa -
tutti insieme - per la pace in Medioriente».

La pace in Medio Oriente. Già, ma la missione di interposizione rende
quell’obiettivo più vicino o no? Molti, quasi tutti, sono convinti della
prima risposta, perché la risoluzione dell’Onu, la decisione europea di
dare corpo a quella scelta, sono davvero un segnale della fine di un mondo
unilaterale. Quello delle guerre preventive. Da Raffaella Bolini dell’Arci
(«stiamo provando a rimettere il coperchio al vaso di Pandora scoperchiato
da Bush») a Paolo Nerozzi, Cgil, tutti sono convinti di questo. La
differenza, se differenza c’è, è nelle sfumature: c’è chi parla di «primo
segnale» da incoraggiare, chi parla già di svolta. Ma il senso è quello.

Solo qualcuno non è d’accordo. Ci sono quelli che ad Assisi non sono
venuti, e qui, in assemblea, c’è chi non se la sente di avallare l’invio
della spedizione militare. Pax Christi, per esempio. Qui ha parlato uno suo
dirigente. E ha fatto un discorso franco: «Se mi chiedete se sono d’accordo
con una forza di interposizione, rispondo di no. Perché sono contrario a
qualsiasi cosa si interponga fra i popoli, fra le genti, sia un muro, un
esercito, siano caschi blu». Ma anche Pax Christi pensa che tutto questo
non sposti di una virgola il problema. «Qualcuno si divertirà a parlare di
movimento diviso. Ma non è così. Non sono d’accordo su questa misura ma
siamo tutti uniti nel progettare il resto».

Resto che significa una cosa soprattutto: affrontare di petto il nodo
della questione palestinese, «la madre di tutte le questioni», come dirà
nel suo applauditissimo intervento Franco Giordano, il segretario di
Rifondazione. E oggi c’è una chance in più. Anche su questo tutta
l’assemblea è concorde. Tutta. Sul fatto che l’occasione è ora, e non
durerà a lungo. L’occasione di mettere fine alle stragi a Gaza (Luisa
Morgantini ha portato racconti terribili), l’occasione di rilanciare la
parola d’ordine «due popoli e due Stati» (cominciando a ricordare però che
uno dei due Stati, quello palestinese, quasi non esiste più, come ha detto
in un bellissimo messaggio Michel Sabbah, il Patriarca di Gerusalemme).
L’occasione per far tornare protagonista la politica. Scelte che non
possono essere delegate ai governi. Scelte di pace, lo ricorderà Fausto
Bertinotti nel suo messaggio, che «devono trovare il proprio fondamento
nelle associazioni, nelle coscienze delle singole persone». Scelte che
devono poggiarsi sulla capacità del movimento. E soprattutto di questo
movimento.

Che deve farsi sentire, ora, adesso, in queste settimane. Ecco perché la
«Tavola» all’inizio di settembre discuterà se dar vita ad una marcia
straordinaria, visto che quella ordinaria si svolge ogni due anni. Ed è
bastato proporre l’idea che già quasi tutti si sono detti d’accordo,
dall’arcipelago di associazioni pacifiste ai partiti. Tutti i partiti
presenti: dall’Italia dei Valori, ai diesse, fino naturalmente a
Rifondazione. Che ad Assisi era davvero il più presente: c’erano oltre al
segretario, il deputato europeo Musacchio, la viceministra Sentinelli, il
responsabile esteri Amato, il senatore Bonadonna, e centinaia di ragazzi e
ragazze con le bandiere del partito. Tutti a favore, si diceva, al punto
che si fa già una data per la «marcia straordinaria»: l’8 ottobre. E
ancora. La «Tavola» chiede che si discuta di pace, della pace possibile in
Palestina e in Medio Oriente, alla riapertura delle scuole.

E chiede tante altre cose. Vuole che le forze di peace keeping siano
accompagnate dall’intervento di civili, chiede che le truppe siano davvero
sotto il comando Onu, chiede che si disinneschi la «bomba iraniana»,
promuovendo una conferenza di pace, chiede che i soldi per la missione non
siano sottratti alla cooperazione. E vuole garanzie che i tremila italiani
vadano davvero a fare peace keeping. Vogliono garanzie da Prodi, D’Alema,
Parisi, con i quali ha chiesto un incontro. Urgente. E ancora, di più: dal
governo, dal governo dell’Unione, la «Tavola» vuole che una politica di
pace si faccia anche in casa nostra. Interrompendo la guerra, anche questa
segnata da centinaia di vittime, ai migranti che provano ad attraversare il
mare per sfuggire alla morte. Per una mina, per una bomba o per fame.

Questo per l’assemblea significa mettere l’iniziativa dell’Onu «dentro un
contesto più ampio». Vecchia formula riecheggiata tante volte ieri ad
Assisi. Una volta tanto, però, formula chiara, immediata. Resa più
percepibile dai discorsi, resa più chiara anche dal corteo. Dalle sue
parole d’ordine. Una su tutte: «Sicurezza per Israele, diritti per la
Palestina», diceva uno striscione seguito dalle due bandiere unite assieme.
O come quel cartello portato a mano, magari un po’ lungo ma efficace: «No
alla guerra, no ai terrorismi, no ai fondamentalismi, no agli integralismi.
Giustizia internazionale». Forza Onu, allora. E si va avanti con in testa i
genitori di Angelo Frammartino. Si va avanti fino al sagrato della
Basilica. Dove su un tappeto rosso, ognuno lascia una scarpa. Fino a farne
una montagna. Un’immagine identica a quella che fino a qualche giorno fa
scorreva sulle Tv, dopo i bombardamenti. Finisce con l’attrice Daniela
Poggi, ambasciatrice Unicef, che legge tre testi: di una canzone
palestinese, di un poeta israeliano, di uno scrittore libanese. Finisce con
l’ultimo omaggio ad Angelo. I suoi amici leggono un suo scritto. Semplice,
semplicissimo: «Vale la pena provarci».

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ul pullman
da Monterotondo
In marcia
per non
dimenticare
Angelo
Claudia Russo
«Regà nun m'è sonata la sveja e me so’ dovuto scapicollà...»

Un coro di risate dà il buongiorno ad Alessandro, ancora spettinato e con
gli occhi assonnati. Sono le 6.45 e in Piazza Roma a Monterotondo sono
pronti i cinque pullman che ci porteranno ad Assisi. Il popolo della pace
si è davvero ri-svegliato e dopo il cordoglio di questi giorni, ha di nuovo
facce aperte e sicure. La Fiat Uno di Roberto è carica: le bandiere
arcobaleno, quelle del Prc, le magliette con la frase di Angè.

«Colazione da Rita» propone Carla. Rita è una signora coi capelli bianchi
che gestisce un bar con i tavolini fuori. Dice di aver aperto prima del
solito apposta per noi. Ci stringiamo davanti al bancone.

«Il solito cappuccio senza schiuma» chiede un tizio magro che legge
Liberazione. Aria densa di cornetto al cioccolato e voglia matta di
mangiarne ancora. «La prossima volta però invece di una marcia mattutina
organizziamo una fiaccolata notturna, è meno faticoso..» dice tra un
sorriso e uno sbadiglio il leader dei Giovani Comunisti di Monterotondo.
Intorno ai pullman si sta formando il gruppo arcobaleno. Bello è vedere
tante donne mature non preoccuparsi di affrontare tre ore di autostrada e
una lunga camminata per testimoniare la propria volontà di Pace, bello
vedere una madre con sua figlia per mano e uno stuolo di giovani con le
scarpe “comode per camminare”. Sul pullman 5, l'unico con aria
condizionata, si accomodano i parenti di Angelo provenienti da Caulonia e
le persone più anziane. I Frammartino verranno in macchina e li
incontreremo direttamente ad Assisi. Sul pullman 2 salgono i 10 bambini
Saharawi ospiti dei comuni di Forano, Cantalice e Monterotondo per il
periodo estivo. Sono vispi e chiacchieroni. Masticano l’italiano come fosse
gomma americana: lo ciancicano, ma si fanno capire. E chiedono e osservano
e fanno le boccacce ai fotografi. Noi, giovani e comunisti, ci assicuriamo
il terzo veicolo e proviamo a rivestirlo di bandiere rosse che però ci
cadono continuamente in testa e alla fine ce le leghiamo ai fianchi. Dietro
a me, Silvia e Chiara. La prima era con Angelo davanti alla Porta di
Damasco giovedì 10 agosto, la seconda ci ha ”sconvolti” il giorno dei
Funerali con una struggente lettera per la Palestina. I discorsi si
alternano. «E' un periodo difficile -dice Silvia- i mie non accettano
l'idea che dopo quello che è successo io voglia lavorare come operatrice
sociale in Medio Oriente. Ma proprio dopo quello che ho visto so di non
poter fare altrimenti. A settembre mi iscrivo a scuola di arabo». «Anch’io»
le fa eco la figlia del respondabile Prosvil, Silvia Bassoli che ha 19 anni
e due occhi grandi di bambina che cresce. Chiara è la più risoluta.
Iscritta alla Sinista Giovanile, critica aspramente l'atteggiamento di
scarso interesse dimostrato dai Ds nei confronti del “caso Frammartino”.
«Non stiamo parlando di scheramenti più o meno radicali, parliamo di un
volontario di 24 anni - dice- Ho già chiesto che una percentuale degli
incassi della prossima Festa dell’ Unità siano usati per finanziare il
progetto Torre del Fenicottero al quale noi stesse lavoreremo. Voglio
parlare con Epifani e Veltroni - continua- Nel nostro manifesto
programmatico (che verrà letto a fine giornata ndr), chiediamo la
costituzione in Italia di corsi di formazione per palestinesi che
diventeranno personale stabile e
qualificato per il centro. A questi si affiancheranno i volontari, ma per
periodi brevi». Hanno ragione.

Mentre già vediamo il profilo bianco della città e ci prepariamo
all’assemblea indetta dalla Tavola della Pace, si fa chiara l’urgenza di
risposte concrete. Queste giovanissime donne un progetto di ampio respiro
ce l’hanno. E’ un progetto di sviluppo e costruzione di Pace; a tempo
indeterminato.

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Intervista alla viceministra degli Esteri, ieri al corteo per manifestare
il proprio sostegno all’iniziativa Onu in Libano: «Una vittoria della
politica e della diplomazia. Chi non è qui ad Assisi non ha capito»
Sentinelli:«Una chance per la pace»
Davide Varì
Assisi nostro inviato
La viceministra degli Esteri Patrizia Sentinelli, presente ieri
all’assemblea ed alla marcia per la pace di Assisi, ha pochi dubbi: «quella
parte di movimento pacifista che ha scelto di non venire ha sbagliato.
Credo che abbiano perso una grande occasione».


Crede davvero che questa missione Onu possa rappresentare un’opportunità
per iniziare a ricostruire la pace in quei luoghi martoriati?

Lo spero e voglio crederci. Forse siamo davvero all’inizio di una nuova
fase. Abbiamo l’opportunità di avviare una nuova stagione di pace e
un’occasione, inoltre, per riprendere in mano il filo interrotto del
dialogo tra tutti i popoli e gli stati dell’area mediorientale. Penso
soprattutto alla questione israelo-palestinese. La sicurezza di Israele
passa per la pace, è inevitabile. E l’intervento dell’Onu in Libano è una
prima pietra verso la costruzione di una pace anche in Israele e Palestina.


Don Ciotti parla di metodo da seguire. Crede anche lei che il modo con cui
si è stata affrontata la crisi in Libano possa rappresentare un metodo
valido anche in futuro e per altre situazioni di guerra?

Certo, l’Onu e l’Europa hanno riacquistato quella centralità che in questi
anni era andata perduta sotto i colpi della politica scellerata
dell’amministrazione Bush. E questa è una novità fondamentale e
importantissima, non solo formale ma anche di sostanza. E’ passata l’idea
secondo cui l’arma per risolvere i conflitti e le guerre è quella
diplomatica e non solo quella bellica. La politica torna ad essere
protagonista e questa è una grande conquista. Un grande segno di civiltà e
una vittoria per quanti credono nei valori della pace.


In che modo verrà coinvolta la società civile nella ricostruzione del Libano?

Stiamo organizzando un tavolo composto da Ong e Associazioni, italiane e
libanesi, che avranno un ruolo centrale nella ricostruzione delle
infrastrutture e, cosa altrettanto importante, nella ricostruzione del
tessuto sociale. Dobbiamo creare situazioni e realtà capaci di disinnescare
nuovi conflitti e attriti. Non abbiamo solo idee ma veri e propri progetti
che alla logica della guerra di civiltà, contrappongono la logica della
cooperazione e del dialogo. Per questo ci sono cose molto concrete da fare.
Penso alla ricostruzione di scuole e al materiale per gli studenti. Penso
ad interventi per il sostegno alle famiglie più colpite dalla guerra e, in
generale, più esposte alla povertà. Voglio però sottolineare che l’impegno
dell’Italia per la ricostruzione non sarà quello di affidare ad aziende del
nostro paese la ricostruzione. Saranno le imprese locali che dovranno
occuparsene, questo per favorire un immediata ripresa economica.


Cosa vuol dire a chi non ha aderito alla manifestazione di Assisi? A chi
pensa che «la missione in Libano è al servizio degli americani»?

Credo che abbia perso un’occasione. Chi non crede a questo nuovo corso
della politica e della diplomazia, a mio avviso, è rimasto prigioniero
dentro quella logica di guerra permanente contro cui, in passato, abbiamo
lottato insieme. E’ proprio da qui, da Assisi e dal movimento per la pace
che è partito il nuovo corso di una politica che finalmente sa trovare
risposte. Senza contare che ora abbiamo un’Onu che ha finalmente un ruolo
centrale e un’Europa che sa dare risposte alternative a quelle dell’America
di Bush.
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il manifesto, 27.08.06

Missione Onu in Libano, rischi e opportunità
Alberto Burgio
È comprensibile, benché paradossale, che quanto più una situazione è
complessa tanto più forte si manifesti l'esigenza della chiarezza. Il
bisogno di chiarificazione induce a semplificazioni. È ciò che accade nella
discussione sulla missione in Libano. Oggi, a dispetto di chi vorrebbe
formule «nette», non è possibile disegnare quadri univoci: non è
condivisibile né la certezza di chi si dice sicuro che «si va a fare la
guerra» né quella opposta di chi dà per certo che siamo dinanzi ai primi
vagiti della «pace perpetua» in Medio Oriente. Vi sono aspetti
indubbiamente positivi, a cominciare dal fatto che questa missione è
profondamente diversa non solo da quelle nelle quali il governo Berlusconi
ha coinvolto l'Italia ma anche dalle guerre «democratiche» e «umanitarie»
appoggiate dal centrosinistra negli anni '90. È diversa in primo luogo per
il suo scopo e per il contesto regionale: l'esito della guerra ha visto la
vittoria della resistenza libanese e la sconfitta di Israele e oggi la
missione è richiesta da tutte le parti sul terreno. È diversa questa
missione anche per ciò che attiene al contesto generale, che vede da un
lato la ripresa d'iniziativa, potenzialmente positiva, delle Nazioni Unite
e dall'altro le evidenti difficoltà dell'unilateralismo anglo-americano.
Riconoscere i rischi non toglie che l'unica alternativa oggi
all'interposizione sarebbe l'immediata ripresa delle ostilità e il
divampare di una guerra verosimilmente più disastrosa delle precedenti.
I rischi, appunto. In primo luogo la risoluzione non contiene clausole
relative all'occupazione israeliana delle fattorie di Sheeba (così come
nulla dice del Golan e della West Bank), mentre legittima una iniqua
asimmetria nella misura in cui destina la totalità delle forze di
interposizione in territorio libanese. Per quanto concerne il ruolo di
Hezbollah tutti i paesi che partecipano alla missione lo considerano un
affare interno al Libano, ma Israele pretende il disarmo delle milizie e ha
già ripetutamente dimostrato di non voler accettare soluzioni diverse. Vi è
poi il problema dello schieramento di caschi blu lungo il confine con la
Siria e, in prospettiva, la questione del comando della missione. È bene
evocare - per dichiararlo sin d'ora inaccettabile - il rischio che possa
ripetersi la vicenda delle guerre nei Balcani e quella del colpo di mano
con cui tre anni fa la Nato si impossessò del comando di tutte le
operazioni in Afghanistan, trasformando la missione Isaf in una guerra
americana di aggressione e occupazione.
Come si vede non sarebbe ragionevole ridurre l'insieme di questa trama di
problemi a uno slogan. Del resto proprio l'ambiguità che la caratterizza
potrebbe rivelarsi proficua poiché racchiude potenzialità che sta alla
politica mettere a frutto. Le condizioni in cui la missione sta maturando
tengono aperta la possibilità di sviluppi positivi per il conflitto
israelo-palestinese (con l'estensione dell'intervento di interposizione
lungo il confine di Gaza e della Cisgiordania) ma anche di passi
significativi in direzione dell'unica sua accettabile risoluzione, che
implica la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Il
fatto che oggi Israele si veda costretto a riconoscere l'autorità dell'Onu
è una circostanza che rende insostenibile la sua violazione di oltre 70
risoluzioni internazionali, ponendo all'ordine del giorno la questione del
ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati nel 1967.
Sarà fondamentale la concreta volontà delle parti e quella dei paesi che
partecipano alla missione. Per quanto concerne l'Italia, la responsabilità
del governo attiene anche alla sorte della nostra partecipazione alla
missione in Afghanistan. A connettere quest'ultima alla missione in Libano
vi sono problemi di bilancio: posto che sarebbe inaccettabile che gli
ingenti costi di Unifil gravassero sui già magri capitoli della spesa
sociale, ne segue che il governo dovrebbe decidere di ritirare le nostre
truppe dall'Afghanistan. Che questo venga sostenuto oggi anche da chi lo
scorso luglio votò la proroga della missione militare dimostra la giustezza
della battaglia di chi invece vi si oppose, e autorizza la speranza che
tale battaglia venga fatta propria da un più vasto schieramento di forze. A
raccomandare il ritiro dall'Afghanistan vi sono però anche ragioni
politiche: il ritiro gioverebbe, come ha osservato Cesare Salvi, alla
credibilità della missione in Libano poiché impedirebbe di confonderla con
qualsiasi «missione occidentale» di guerra. Siamo di fronte, come ha
sottolineato Tommaso di Francesco, ad un quadro estremamente complesso. Ma
non bisogna avere paura delle contraddizioni. Ritrarsene non giova a
risolverle. Occorre invece, con consapevolezza e coraggio, farsene carico e
intervenire in esse senza perdere di vista né rischi né opportunità.

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Intervento
L'intervento in Libano non pesi sulla cooperazione
Raffaele K. Salinari*
E dunque l'Italia avrà il comando dei Caschi blu Onu in Libano. Questo
significa molto per il movimento pacifista italiano che, al di là delle
manifestazioni in favore della pace in Medio oriente, dovrà ora dimostrare
un livello di vigilanza e maturità politica all'altezza del nuovo ruolo del
nostro paese. Il primo ordine di problemi è certamente quello delle regole
di ingaggio e dunque sui termini operativi della missione. A questo
proposito non ci si può accontentare di salutare genericamente il
cambiamento della politica internazionale dell'Italia, ma bisogna entrare
nel merito dei problemi: chi disarma Hezbollah, chi assicura che Israele
non attacchi i civili, come si attivano i corridoi umanitari per le Ong
internazionali chi, infine, assicura che la tragica commistione tra
umanitario e militare non si ripeterà come in Iraq ed Afganistan? Su tutto
questo occorre aprire subito un chiaro dibattito nel movimento e tra chi
intende partecipare alle azioni umanitarie in Libano. Se già ora si colgono
le divisioni interne al movimento, sarà bene andare ad un chiarimento che
consenta una convergenza più ampia ed aperta possibile ma non bloccata dai
veti incrociati di chi gioca sempre al "più uno". Sarebbe esiziale infatti
limitarsi a generiche dichiarazioni senza entrare nel merito della
missione, lasciando alla politica la possibilità di giocare sulle nostre
divisioni. Il secondo ordine di problemi è strettamente collegato al primo
e cioè, chi paga per i «seimila scarponi» italiani? Anche qui è d'obbligo
fare chiarezza su un punto dolente quando si tratterà di trovare le
coperture finanziarie per la missione di pace in Libano. Non è una missione
per distribuire aiuti umanitari e dunque non deve gravare sui fondi della
cooperazione allo sviluppo. Lo diciamo preventivamente dato che in passato
le missioni «umanitarie» in Iraq e in Afganistan sono state finanziate con
quei fondi. L'umanitario torni ad essere indipendente dalle logiche
politiche. Quella del Libano è una occasione per cambiare le cose anche in
questo senso. Quindi subito il ritiro dall'Afganistan per compensare
l'impegno in Libano, ma nessuno storno dei fondi per la cooperazione con la
scusa della pace.
*Presidente Terre des Hommes
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Le parole di Angelo
«Respiriamo aria di rivoluzione pacifica per fare l'amore con la non violenza»
E' stata la presenza più forte della manifestazione. Quella di Angelo
Frammartino, il cooperante ucciso lo scorso 10 agosto a Gerusalemme da un
coetaneo palestinese mentre lavorava in un campo organizzato da Arci e
Cgil. Ricordato in tutti gli interventi durante l'assemblea, con le sue
parole ha riempito anche la piazza davanti alla basilica di San Francesco.
Gli amici hanno voluto leggere alcuni suoi scritti. «Respiriamo aria di
rivoluzione pacifica - aveva scritto sul giornalino di Rifondazione
comunista di Monterotondo - e dobbiamo fare l'amore con la non violenza». E
ancora: «Il cielo sarà duro da raggiungere, ma la terra è qui sotto di noi.
E' nostra. Per questo vale la pena lottare nella nostra unica,
irripetibile, vita».
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«L'Onu deve spostarsi a Gerusalemme»
L'assemblea propone le prossime mosse: il primo giorno di scuola dedicato
alla pace, Gerusalemme come città dell'Onu. E poi la marcia
G. Ra.
Quando parlava Antonio Papisca, giurista della pace, ieri verso le 12 nel
la sala di Assisi, c'erano almeno mille persone, tra quelle sedute e quelle
in piedi, quelle in galleria e quelle nell'atrio e nei corridoi. Fuori,
negli spazi intorno al teatro, a occhio cen'era due o tre volte tante.
Erano i camminatori della pace, quelli in servizio permanente effettivo.
Papisca ha rilanciato la parola d'ordine che forse caratterizzeràle
assemblee popolari e questa svolta nel pacifismo: «il forza Onu». Il suo
«forza Onu» cercava di rimettere le cose a posto. Prevalenza della politica
sull'azione militare, proposta della formazione di un'unità di crisi
politica, fatta del segretario dell'Onu e e dei ministri degli esteri dei
paesi che partecipano all'interposizione; in definitiva un forte controllo
e una continua presenza civile capace di condizionare l'operazione
militare, fino al punto di nominare una sorta di difensore civico, dotato
di poteri e capace di proteggere le popolazioni dai possibili atti ingiusti
dei militari. Forza Onu, dunque.
Le proposte più importanti arrivano da Flavio Lotti, coordinatore nazionale
della Tavola della Pace. Le principali sono tre: la prima è l'atteso
Dialogo internazionale sulla pace, dai contorni ancora sfumati, a partire
dalla festa di San Francesco, il 4 ottobre e che, nei giorni successivi,
dovrebbe dare la parola agli esponenti del partito della pace mondiale,
consentendo a tutti di discutere di verità e giustizia come strumenti di
pace, di odio e di paura. La discussione dovrebbe durare fino all'8,
domenica, un giorno per il quale il progetto è sulla bocche di tutti, ma
senza alcuna conferma ufficiale: la marcia d'autunno tra Perugia e Assisi.
E' difficile progettare una marcia di fronte a una tregua tanto fragile;
comunque il seme è ormai gettato. Se la tregua tiene, la marcia si fa. E la
tregua deve tenere. La seconda proposta tocca la scuola. Lotti chiede che
il primo giorno, in tutte le classi, sia dedicato alla pace. Una proposta a
costo zero, che mobilita insegnanti e scolaresche in una giornata
importante in cui milioni di voci parleranno di pace, milioni di piccole
matite disegneranno la pace. La pace, una matieria che si impara a scuola.
La terza proposta riguarda l'Onu: è certo la più difficile, quella da
costruire con calma, vincendo molte resistenze, paure, rifiuti del nuovo.
L'Onu in sostanza dovrebbe eleggere Gerusalemme come propria sede
principale: Gerusalemme città del mondo, città aperta, città della pace.
L'Onu - ricorda Lotti - ha dato vita a Israele e Palestina, quindi è come
se ne fosse la madre. E come una buona madre si prende cura della salute
dei figli, anche l'Onu deve fare lo stesso, deve prendersi cura di Israele
e Palestina. E per salvarle dal disastro in cui sono finite, deve mettersi
in mezzo, «spostarsi a Gerusalemme», andare via da un paese «inospitale».
Lotti parla a lungo, con il diritto del padrone di casa. Chiede che si
appronti un'interposizione anche in difesa di Gaza e delle città della West
Bank; chiede un incontro ravvicinato a D'Alema, a Prodi e perfino a Parisi,
perché vuole sapere e far sapere quali siano le intenzioni e i prossimi
passi di mediatori, diplomatici e politici. Conta anche di chiedere con
quali soldi si muoveranno i nostri soldati, che non venga in mente di
utilizzare quelli sottratti alla lotta contro la povertà, alla
cooperazione, insomma. Ricorda infine a tutti gli scettici che un manuale
per gli interventi di pace esiste da molti anni: è l'Agenda di Boutrus
Ghali. Infiamma la sala chiedendo che la scuola di guerra di Civitavecchia
venga chiusa, o si trasformi in una scuola di cooperazione internazionale.
Quando Raffaella Bolini, con la voce rotta ricorda il suo giovane compagno
ucciso a Gerusalemme (come si racconta qui sopra) parte un applauso senza
fine tra i presenti in sala, tutti in piedi, tutti convinti che la pace sia
una vicenda spesso crudele. Ventiquattro anni aveva Angelo, proprio come il
suo assassino. Bolini spiega che il Medio oriente è una vaso di Pandora,
che Bush ha scoperchiato. Il compito degli uomini e delle donne della pace
è quello di rimettere a posto quel coperchio e tenerlo ben fermo.
Per Massimo Toschi che dalla sua carrozzella si presenta come l'assessore
sgangherato della Toscana, il problema dell'odio è quello decisivo, molto
prima di quello del petrolio. Il nostro compito, ripete, è quello di stare
da lla parte delle vittime dell'odio. In Kosovo la nostra presenza è
indispensabile; senza i nostri l'odio rinascerebbe; mentre è solo dannosa
in Afghanistan. Toschi avverte: la finestra di cui disponiamo è di sei mesi
«e sono ottimista di natura». In questo tempo dobbiamo schierare tutta la
nostra forza di cooperazione. «Non l'odio, ma la terra è il vero problema»
risponde Luisa Morgantini. Stiamo molto attenti, perché di terra in
Palestina non ce n'è quasi più.
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