[NuovoLab] i funerali di angelo frammartino

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Author: brunoa01
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Subject: [NuovoLab] i funerali di angelo frammartino
il manifesto, 17.8.06
Un rivoluzionario della solidarietà
Lo striscione: «Faremo l'amore con la non violenza per partorire la pace dal grembo della società». Gli amici: «Angelo, sei un germoglio fecondo» Applausi, commozione e lacrime alle esequie. Bertinotti: «La politica prenda esempio da lui». Monsignor Capucci: «Quella terra non è più santa, ma maledetta»
Alessandro Braga
Monterotondo (Roma)
Il carro funebre entra nel cimitero, seguito dalla madre di Angelo, Silvana, dal papà Michelangelo, dalla sorella Romina. Entra il prete. Entra anche qualche amico. Poi il cancello si chiude. «Il cimitero è chiuso, non si può entrare», dicono i volontari della protezione civile di Monterotondo, che si occupano dell'organizzazione della giornata. Hanno presidiato le transenne di fronte al Duomo, controllato la piazza di fronte al municipio, distribuito bottigliette d'acqua a chi ha partecipato alla celebrazione religiosa fuori dalla cattedrale, sotto il sole di un pomeriggio di ferragosto. Ora stanno di fronte al cancello del cimitero, e non fanno entrare le persone, tante, che hanno accompagnato Angelo fin lì. Perché è il momento di salutare il figlio, il fratello, l'amico. Di stare stretti nell'intimità. Quelli, tanti, tantissimi, si parla di almeno tremila persone, che sono venuti a Monterotondo, il giorno di ferragosto, per salutare il compagno, il ragazzo di pace, la vittima dell'ingiustizia del mondo, restano fuori. E' giusto così. Il dolore composto e discreto dei familiari, la fierezza e la dignità dimostrata dagli amici di Angelo, hanno bisogno di un po' di pace.
Dentro le mura del camposanto del paese, protetti dagli sguardi, a volte indiscreti, di telecamere e giornalisti, i parenti e gli amici più intimi si abbracciano, si stringono, mentre Angelo viene sepolto. Fuori, nel piazzale antistante, si formano tanti capannelli di persone che discutono, si interrogano sui motivi di una morte incomprensibile. «Era un ragazzo solare, educato». «Sorrideva sempre, il suo viso è proprio quello della foto della camera ardente». Tutti lo ricordano, Angelo. Aneddoti, immagini, piccoli racconti di vita quotidiana si susseguono.
Le autorità se ne sono già andate. Il presidente della camera Fausto Bertinotti, all'uscita dalla cattedrale, ha gli occhi arrossati. Ha voluto rendere omaggio a un compagno, a un ragazzo di ventiquattro anni che ha perduto la vita perché aveva deciso di usare le armi della non violenza in un angolo del mondo dove a parlare sono le armi, quelle vere, e l'odio instillato nella popolazione da una situazione di cui non si vede la fine, una via d'uscita. «E' una grande perdita, un grande dolore - osserva Bertinotti - Attraverso l'esempio di questo ragazzo, l'utopia della pace si conferma l'unica politica concreta possibile. Angelo è diventato, come hanno sottolineato anche i suoi amici, un seme di pace. Con la guerra non vince nessuno». Cosa deve fare adesso la politica? «Deve trarre esempio da un ragazzo morto in una missione di pace, segnata dal sogno-speranza di una generazione che ha usato un linguaggio nuovo nella politica», chiosa il presidente della camera, prima di salire in macchina. Chi proprio non c'era è invece il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «Il nostro sindaco, attraverso la vice ministra degli esteri Patrizia Sentinelli, aveva chiesto, a nome di tutta la cittadinanza, la presenza del capo dello stato. Non è venuto. Peccato, era un'occasione per testimoniare, con la sua presenza, che le istituzioni sono vicine a chi cerca di costruire quotidianamente la pace, non con le armi, ma una vera pace», dicono alcuni cittadini di Monterotondo. Ora il loro impegno si proietta al 26 agosto, alla marcia per la pace Perugia-Assisi straordinaria che sarà dedicata ad Angelo. «Faremo delle proposte per dei tavoli di riflessione. Una potrebbe essere il ruolo delle istituzioni nella costruzione della pace. Vogliamo farle vivere davvero queste istituzioni, o devono restare legate alla presenza o meno dei militari, caschi blu o no, nelle regioni critiche del mondo?» chiedono con una punta di polemica.
Monterotondo è un paese di 34.000 abitanti, alle porte di Roma. Storicamente di sinistra. Medaglia d'argento per la battaglia antifascista durante la Resistenza. L'orgoglio di questa storia si vede negli occhi lucidi degli anziani che sono lì per salutare Angelo. Era uno di loro: di sinistra, impegnato nel partito, nelle associazioni di volontariato, voleva cambiare il mondo. Adesso lo piangono.
Ci sono anche i giovani, tanti. Con le bandiere arcobaleno, quelle di Rifondazione comunista, dell'Arci. Quando passa la bara, avvolta nei colori della pace, scatta l'applauso. Lacrime, pugni chiusi, magliette con il viso di Angelo e quel messaggio, l'ultimo: «Faremo l'amore con la non violenza per partorire la pace dal grembo della società». E' una promessa che fanno a Angelo.
Dentro la chiesa, il vescovo della diocesi sabina, Lino Fumagalli, ricorda il cooperante ucciso, interrotto più volte dagli appalusi: «Con la morte sei diventato un seme di pace, hai servito Gesù, implicitamente, nel tuo servizio ai più deboli e avrai il suo abbraccio». Perché, si permette una citazione monsignor Fumagalli, Cristo dice ai non credenti giusti: «Entrate nel paradiso che avete così ostinatamente negato». Parla anche monsignor Hilarion Capucci, vescovo di Gerusalemme, e porta il dolore di tutto il popolo palestinese. Sono parole dure le sue, intrise di amarezza: «Vi prego, vi prego, vi prego - lo ripete tre volte per enfatizzare la cosa - di credermi quando vi dico che non siamo tutti così. Il mio popolo si vergogna per quello che è successo ad Angelo, a un angelo di nome e di fatto. E' un atto criminale, schifoso. Quella terra non è più santa, è maledetta. Che il sangue di Angelo la purifichi».
Dopo è la volta degli amici. Quelli di sempre, e quelli che lo sono diventati a Gerusalemme, in dieci giorni di vita comune: «Sei un rivoluzionario di pace, un germoglio fecondo. Un seme per la pace nel mondo». Ricordano le cose semplici, l'abbraccio dei bambini palestinesi, le risate. Il sorriso di Angelo quella sera quando, a cena, gli è squillato il cellulare: «E' la mamma», aveva detto agli amici allontanandosi per avere un po' di intimità con la madre. Poi, l'ultima sera: un momento, uno dei pochi, di riposo. Le risa, gli abbracci. E quel guizzo nel buio, un'ombra che si allontana, lui che si accascia: «Ciao Angelo».
    

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Addio Angelo
Quel pacifista d'altri tempi, tra sogno e realtà
I funerali del volontario italiano ucciso a Gerusalemme
Giuliana Sgrena
Non conoscevo Angelo, come credo la maggior parte delle centinaia di persone che si assiepavano nella chiesa e nella piazza del duomo di Monterotondo martedì scorso, in un giorno assolato di ferragosto. Angelo sorrideva dalle magliette dei suoi compagni, che indossava anche la madre. Non avevo mai incontrato Angelo ma l'ho conosciuto attraverso il dolore composto dei genitori per una morte tanto assurda. «La morte di Angelo è frutto dell'odio delle guerre», ripeteva Michelangelo, il padre. E anche nelle parole della madre, nella convinzione a continuare l'impegno condiviso del figlio, c'era un misto di orgoglio e dignità. Angelo era uno di noi pacifisti o, forse, era come noi eravamo, ormai molti anni fa, quando non avevamo ancora abbandonato sogni e illusioni. Richiamati anche dai testi letti dai compagni di Angelo in chiesa, durante una cerimonia che era un misto di religioso e di laico, come il pubblico che assisteva.
Continuare la solidarietà con i palestinesi (e con altri popoli), ma come? Se non si può nemmeno più fare una passeggiata per le strade della Gerusalemme est? Un senso di impotenza terribile di fronte a un odio che continua a diffondersi insieme ai combattimenti, ai soprusi, alla violazione dei diritti più elementari. Abbiamo sempre denunciato gli orrori della guerra, i suoi effetti perversi e la degenerazione che comporta. Ma la realtà supera anche le più pessimistiche previsioni e i fautori dello scontro di civiltà rischiano di avere il sopravvento. Come si può contrastare questo disegno che ci condannerebbe tutti? E ci sta già condannando: sempre più siamo visti come «occidentali», nemici da combattere e se andiamo in un luogo martoriato dalla guerra non dobbiamo temere solo il fuoco nemico ma anche quello amico. Come portare avanti un impegno umanitario se non si può andare sul luogo della sofferenza? Non si può certo immaginare di fare i pacifisti scortati da uomini armati, così come non si può fare i giornalisti embedded. In questo modo accetteremmo anche noi quella militarizzazione in cui è insita la violenza. E d'altra parte come un'organizzazione può assumersi la responsabilità di mandare dei giovani a rischiare la vita per fare solidarietà?
Molte domande a cui dobbiamo trovare una risposta, non possiamo accettare che l'odio prevalga. Non possiamo interiorizzare la sconfitta, come purtroppo sembrano inclini a fare persino i palestinesi dopo tante battaglie perse, troppo assuefatti alle condanne gratuite, ai due pesi e due misure. Martedì al funerale di Angelo monsignor Capucci condannava l'assassinio e si scusava perché a commetterlo era stato un palestinese, quando ancora non si sa nemmeno chi è stato veramente. Forse è stato il gesto folle e disperato di un palestinese che non ha nulla da perdere e non crede nella solidarietà, ma potrebbe essere stato chiunque. Non è stata un'azione terroristica come vuol fare credere Israele, perché ne è mancata l'iconografia classica. Senza voler cedere a teorie complottistiche molti potrebbero essere interessati a mettere fine alla cooperazione tra italiani e palestinesi e i tentativi per impedirli sono stati molti.
Non possiamo arrenderci: per Angelo, per i palestinesi, i libanesi o gli iracheni, per i pacifisti israeliani e anche per noi stessi. Reagire in queste condizioni è difficile perché dobbiamo prepararci ad agire in una nuova realtà, analizzare la situazione per trovare nuovi strumenti. L'entusiasmo di molti giovani impegnati contro le ingiustizie e la guerra deve essere uno stimolo.
Nell'ultimo mese, mentre le bombe distruggevano il Libano e i katiuscia di Hezbollah colpivano Israele, noi ci sentivamo impotenti proprio come di fronte all'assassinio di Angelo. Tutti si chiedevano perché i pacifisti non si muovevano, molti meno interrogavano i politici. Ora qualcosa si è messo in moto, non solo le Nazioni unite hanno varato la risoluzione per la tregua, ma anche i pacifisti manifesteranno ad Assisi il 26 agosto, per Angelo e per la pace. Resta molto da fare: innanzitutto vigilare sulla forza multinazionale in Libano, perché sia realmente una forza peacekeeping e non si trasformi strada facendo, e soprattutto perché l'attenzione della comunità internazionale torni ad occuparsi anche della Palestina, che resta il nodo centrale per la soluzione del conflitto mediorientale. L'assassinio di Angelo è lì a ricordarcelo.
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