[Lecce-sf] per una riflessione

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Auteur: Silverio Tomeo
Date:  
À: social forum
CC: Valentina Stamerra, Michele Bruno, Fabio De Nardis
Sujet: [Lecce-sf] per una riflessione
Per una politica estera dei movimenti
            Tommaso Fattori


            In Libano è accaduto un fatto enorme. Il meccanismo della guerra 
            permanente s' è inceppato e il progetto del "grande Medio-oriente" 
            s'è d'un tratto oscurato. Si apre uno spazio di possibilità quasi 
            vertiginoso, soprattutto per la pace in Palestina-Israele; una 
            simile occasione, che potrebbe ripetersi forse fra qualche decina 
            d'anni, non deve essere perduta: è il kairos, il momento opportuno 
            per agire. Persino l'Europa sembra finalmente uscire, con qualche 
            piuma, dal suo duro guscio monetario e dall'unidimensionalità 
            economicistica, per accennare a una possibile costruzione politica 
            di sè.
            I momenti storici gravidi di possibilità sono difficili da vivere 
            -non fosse altro che per le responsabilità di cui caricano tutti e 
            ciascuno - ma sono ancor più difficili se ci si condanna a non 
            capirli. Questo è un primo problema: la mancanza d'analisi e di 
            discussione, da molto tempo in qua, all'interno dei movimenti per la 
            pace. La speranza è che l'assemblea nazionale dei movimenti il 21 e 
            22 ottobre a Firenze possa aiutare a colmare questa mancanza.
            Un'altra difficoltà mi pare legata agli atteggiamenti che pongono, 
            di fatto, la centralità del problema del governo: vuoi che sia amico 
            a tutti i costi o nemico a tutti i costi, in questa "cosmologia" lo 
            sguardo è rivolto essenzialmente al palazzo. Dovremmo invece volgere 
            lo sguardo autenticamente sul pianeta: non per guardarlo e basta, 
            naturalmente, ma per agire-nel-mondo; come faceva Angelo. In che 
            modo muoverci in Italia, e, soprattutto, come essere presenti nei 
            luoghi dei conflitti, collettivamente. In che modo esserci noi in 
            quanto pezzi di società civile, movimenti, semplici persone 
            impegnate per la pace che si domandano, per esempio, com'è che il 
            cessate il fuoco valga finalmente per il Libano ma non ancora per la 
            Palestina. In questi anni ci siamo tutti concentrati sull'Iraq e il 
            risultato è il ritiro delle truppe italiane da quella guerra, anche 
            se con lentezza; adesso è tempo di un'iniziativa comune che investa 
            tutto il Medio Oriente, a partire dalla sua questione chiave: uno 
            stato palestinese entro i confini stabiliti dalla comunità 
            internazionale, non negli spazi che avanzano allo stato d'Israele. 
            C'è poi l'Afghanistan, un altro pezzo della guerra infinita, dove i 
            bombardieri vengono dipinti come alati perlustratori contro le 
            coltivazioni d'oppio, non a caso rigogliose come non mai. Dobbiamo 
            continuare a chiedere il ritiro delle truppe italiane e farne un 
            altro elemento cardine delle mobilitazioni autunnali.
            E' tempo di un'iniziativa politica forte, anzi, di una vera e 
            propria politica estera dei movimenti. Una politica estera 
            disarmata, il cui fine sia la giustizia sociale globale. Un progetto 
            complesso, una strategia che ripensi "l'insieme" - che entro breve 
            sappia accogliere pienamente l'Africa nel proprio orizzonte- e che 
            si traduca in diplomazia dal basso e in corpi civili di pace. 
            Dobbiamo ottenere la smilitarizzazione dell'economia, a partire 
            dalla prossima finanziaria. Possibile mai che quando rimonta la 
            litania dei tagli alla spesa pubblica potresti dire a occhi chiusi 
            dove non giungerà per certo la sforbiciata? Cioè appunto, le spese 
            militari? Con un paese reale largamente in sintonia con l'articolo 
            11 della propria Costituzione e dove questo potrebbe essere terreno 
            d'enorme consenso? Le alternative sono i corpi d'intervento 
            nonviolento nelle aree di conflitto, ma è l'ora di discutere anche 
            di modelli di difesa alternativi, come la Difesa Popolare 
            Nonviolenta.
            E qualcosa si dovrà pur dire anche sulla "ricostruzione": quale 
            ricostruzione in Libano, per esempio? Per il paese distrutto o per 
            gli interessi delle imprese italiane? "Un'altra cooperazione è 
            possibile", fatta con la società civile libanese, non con i 
            palazzinari italiani. Una ricostruzione che sia anche sociale, non 
            solo materiale. Le occupazioni non sono mai finite con il ritiro dei 
            soldati e se - dall'Afghanistan all'Iraq - all'occupazione militare 
            seguisse l'occupazione e la rapina economiche non avremmo ottenuto 
            la pace.
            In Libano è un bene che l'Onu sia finalmente intervenuta - il 
            cessate il fuoco era necessario- e tuttavia sono stridenti i toni da 
            grande festa per il palazzo di vetro. Intanto perché il compito 
            dell'Onu dovrebbe essere prevenire le guerre e semmai difendere uno 
            Stato militarmente aggredito. Vero, fin dal riconoscimento del 
            diritto di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di 
            sicurezza si ha un'originaria genuflessione del diritto rispetto 
            alla potenza. Ma è possibile dimenticarsi oggi di questo? Degli 
            elementi sostanziali di una riforma dell'Onu stessa? Con uno stato 
            d'Israele -che certo, deve esistere in sicurezza- ma che viola il 
            diritto internazionale ogni giorno e che pretende di selezionare, di 
            volta in volta, la risoluzione delle Nazioni Unite che più gli 
            aggrada? Sono toni stridenti anche perché l'Onu è giunta a chiedere 
            il cessate il fuoco dopo un mese di bombe. E l'ha fatto perché non 
            solo il Libano ne aveva vitale necessità, ma, a questo punto, anche 
            Israele stessa. E' un multilateralismo che nasce dalle ceneri di una 
            fallita prova di forza. Detto ciò, inscrivere la missione Onu in 
            Libano nella logica della guerra infinita, considerarla 
            pregiudizialmente inserita nel quadro della guerra permanente, è 
            privo di senso. Il che non significa non vedere il rischio che la 
            missione possa essere riassorbita nella logica della "guerra al 
            terrorismo". 
            Tuttavia i militari non sono lì per bombardare (né per disarmare 
            Hezbollah) ma per impedire che si bombardi e stanno riuscendo a 
            mantenere il cessate il fuoco. Semmai, in prospettiva, la domanda è: 
            abbiamo bisogno di militari -dobbiamo ricorrere a professionisti 
            della guerra- per impedire la guerra? Al fondo di un simile 
            paradosso vi il nodo della congruenza fra strumenti e obbiettivi: lo 
            sono i militari? Lo sono le portaerei, protuberanze della guerra 
            permanente? Occorrono mezzi di pace, mezzi adeguati ai fini, 
            strumenti nuovi per affrontare le crisi senza armi. L'orizzonte non 
            è solo quello di interventi internazionali che siano fuori dalla 
            guerra, ma anche fuori dall'uso della forza. Non è in ogni caso uno 
            sbarco di militari, né la precaria interruzione della "guerra 
            guerreggiata" a costituire la pace; oggi questa interruzione è una 
            condizione indispensabile, ma una volta che l'interposizione sia 
            riuscita? I militari dividono i contendenti, ma poi la pace è tutta 
            da costruire: perciò è indispensabile la politica, e una politica 
            estera dei movimenti.
            Politica è la parola chiave. Anche per capire cosa è successo in 
            Libano, cosa ha inceppato la guerra. Non c'e' stata la vittoria di 
            una resistenza militare di Hezbollah, dove l'accento cada sul 
            termine "militare". Tra l'altro nessuno sa esattamente quali siano 
            le perdite realmente subite da Hezbollah -molto alte, pare; quel che 
            si sa è l'enorme sproporzione, per l'appunto militare, fra la 
            valanga di bombe di parte israeliana e i razzi di Hezbollah, fra le 
            1109 vittime civili in Libano e quelle provocate dai razzi su Haifa, 
            43 vittime civili su 159. E' stata l'ennesima guerra asimmetrica. 
            Non lo dico per una totale lontananza di orizzonte fra una cultura 
            laica, nonviolenta e di sinistra, come la mia, ed Hezbollah ("il 
            partito di dio"), né perché trovo criminale (e lo trovo criminale) 
            lanciare bombe su civili in Israele, facendo altri morti innocenti, 
            fra i più poveri di quei territori. Il fatto è che l'obiettivo di 
            Israele era politico e la risposta libanese è stata politica. 
            L'obiettivo era il Libano stesso, sgretolarne l'unità nazionale. 
            Frammentare e avere, in prospettiva, un nuovo governo più filo 
            americano e filo israeliano, che tenesse fuori Hezbollah. Il 
            fallimento di questa strategia è che la disgregazione non c'e' 
            stata. La risposta libanese è stata politica: la resistenza libanese 
            è stata "politica", non militare. Il Libano -multietnico, 
            multireligioso- stavolta è rimasto unito. I libanesi, dopo i 
            bombardamenti, sono scesi in piazza non con le bandiere di questo o 
            quel gruppo, di questa o quella componente, ma con la bandiera 
            libanese. Se la politica ha iniziato a vincere là, oggi vi è qua, in 
            Italia, una diffusa speranza che si possano risolvere politicamente 
            nodi che ci portiamo dietro dal secolo scorso, a partire dalla 
            questione Palestinese. Questo ci riguarda come movimenti: il 21 e 22 
            ottobre ne dovremo discutere perché è tempo d'agire. Una "politica 
            estera dal basso" è l'unico realismo possibile per il XXI secolo.


            Firenze, assemblea del 21/22 ottobre
            dei movimenti per la pace e contro la guerra
            anche in vista di una manifestazione nazionale a Milano 
            per metà di novembre