Per una politica estera dei movimenti
Tommaso Fattori
In Libano è accaduto un fatto enorme. Il meccanismo della guerra
permanente s' è inceppato e il progetto del "grande Medio-oriente"
s'è d'un tratto oscurato. Si apre uno spazio di possibilità quasi
vertiginoso, soprattutto per la pace in Palestina-Israele; una
simile occasione, che potrebbe ripetersi forse fra qualche decina
d'anni, non deve essere perduta: è il kairos, il momento opportuno
per agire. Persino l'Europa sembra finalmente uscire, con qualche
piuma, dal suo duro guscio monetario e dall'unidimensionalità
economicistica, per accennare a una possibile costruzione politica
di sè.
I momenti storici gravidi di possibilità sono difficili da vivere
-non fosse altro che per le responsabilità di cui caricano tutti e
ciascuno - ma sono ancor più difficili se ci si condanna a non
capirli. Questo è un primo problema: la mancanza d'analisi e di
discussione, da molto tempo in qua, all'interno dei movimenti per la
pace. La speranza è che l'assemblea nazionale dei movimenti il 21 e
22 ottobre a Firenze possa aiutare a colmare questa mancanza.
Un'altra difficoltà mi pare legata agli atteggiamenti che pongono,
di fatto, la centralità del problema del governo: vuoi che sia amico
a tutti i costi o nemico a tutti i costi, in questa "cosmologia" lo
sguardo è rivolto essenzialmente al palazzo. Dovremmo invece volgere
lo sguardo autenticamente sul pianeta: non per guardarlo e basta,
naturalmente, ma per agire-nel-mondo; come faceva Angelo. In che
modo muoverci in Italia, e, soprattutto, come essere presenti nei
luoghi dei conflitti, collettivamente. In che modo esserci noi in
quanto pezzi di società civile, movimenti, semplici persone
impegnate per la pace che si domandano, per esempio, com'è che il
cessate il fuoco valga finalmente per il Libano ma non ancora per la
Palestina. In questi anni ci siamo tutti concentrati sull'Iraq e il
risultato è il ritiro delle truppe italiane da quella guerra, anche
se con lentezza; adesso è tempo di un'iniziativa comune che investa
tutto il Medio Oriente, a partire dalla sua questione chiave: uno
stato palestinese entro i confini stabiliti dalla comunità
internazionale, non negli spazi che avanzano allo stato d'Israele.
C'è poi l'Afghanistan, un altro pezzo della guerra infinita, dove i
bombardieri vengono dipinti come alati perlustratori contro le
coltivazioni d'oppio, non a caso rigogliose come non mai. Dobbiamo
continuare a chiedere il ritiro delle truppe italiane e farne un
altro elemento cardine delle mobilitazioni autunnali.
E' tempo di un'iniziativa politica forte, anzi, di una vera e
propria politica estera dei movimenti. Una politica estera
disarmata, il cui fine sia la giustizia sociale globale. Un progetto
complesso, una strategia che ripensi "l'insieme" - che entro breve
sappia accogliere pienamente l'Africa nel proprio orizzonte- e che
si traduca in diplomazia dal basso e in corpi civili di pace.
Dobbiamo ottenere la smilitarizzazione dell'economia, a partire
dalla prossima finanziaria. Possibile mai che quando rimonta la
litania dei tagli alla spesa pubblica potresti dire a occhi chiusi
dove non giungerà per certo la sforbiciata? Cioè appunto, le spese
militari? Con un paese reale largamente in sintonia con l'articolo
11 della propria Costituzione e dove questo potrebbe essere terreno
d'enorme consenso? Le alternative sono i corpi d'intervento
nonviolento nelle aree di conflitto, ma è l'ora di discutere anche
di modelli di difesa alternativi, come la Difesa Popolare
Nonviolenta.
E qualcosa si dovrà pur dire anche sulla "ricostruzione": quale
ricostruzione in Libano, per esempio? Per il paese distrutto o per
gli interessi delle imprese italiane? "Un'altra cooperazione è
possibile", fatta con la società civile libanese, non con i
palazzinari italiani. Una ricostruzione che sia anche sociale, non
solo materiale. Le occupazioni non sono mai finite con il ritiro dei
soldati e se - dall'Afghanistan all'Iraq - all'occupazione militare
seguisse l'occupazione e la rapina economiche non avremmo ottenuto
la pace.
In Libano è un bene che l'Onu sia finalmente intervenuta - il
cessate il fuoco era necessario- e tuttavia sono stridenti i toni da
grande festa per il palazzo di vetro. Intanto perché il compito
dell'Onu dovrebbe essere prevenire le guerre e semmai difendere uno
Stato militarmente aggredito. Vero, fin dal riconoscimento del
diritto di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di
sicurezza si ha un'originaria genuflessione del diritto rispetto
alla potenza. Ma è possibile dimenticarsi oggi di questo? Degli
elementi sostanziali di una riforma dell'Onu stessa? Con uno stato
d'Israele -che certo, deve esistere in sicurezza- ma che viola il
diritto internazionale ogni giorno e che pretende di selezionare, di
volta in volta, la risoluzione delle Nazioni Unite che più gli
aggrada? Sono toni stridenti anche perché l'Onu è giunta a chiedere
il cessate il fuoco dopo un mese di bombe. E l'ha fatto perché non
solo il Libano ne aveva vitale necessità, ma, a questo punto, anche
Israele stessa. E' un multilateralismo che nasce dalle ceneri di una
fallita prova di forza. Detto ciò, inscrivere la missione Onu in
Libano nella logica della guerra infinita, considerarla
pregiudizialmente inserita nel quadro della guerra permanente, è
privo di senso. Il che non significa non vedere il rischio che la
missione possa essere riassorbita nella logica della "guerra al
terrorismo".
Tuttavia i militari non sono lì per bombardare (né per disarmare
Hezbollah) ma per impedire che si bombardi e stanno riuscendo a
mantenere il cessate il fuoco. Semmai, in prospettiva, la domanda è:
abbiamo bisogno di militari -dobbiamo ricorrere a professionisti
della guerra- per impedire la guerra? Al fondo di un simile
paradosso vi il nodo della congruenza fra strumenti e obbiettivi: lo
sono i militari? Lo sono le portaerei, protuberanze della guerra
permanente? Occorrono mezzi di pace, mezzi adeguati ai fini,
strumenti nuovi per affrontare le crisi senza armi. L'orizzonte non
è solo quello di interventi internazionali che siano fuori dalla
guerra, ma anche fuori dall'uso della forza. Non è in ogni caso uno
sbarco di militari, né la precaria interruzione della "guerra
guerreggiata" a costituire la pace; oggi questa interruzione è una
condizione indispensabile, ma una volta che l'interposizione sia
riuscita? I militari dividono i contendenti, ma poi la pace è tutta
da costruire: perciò è indispensabile la politica, e una politica
estera dei movimenti.
Politica è la parola chiave. Anche per capire cosa è successo in
Libano, cosa ha inceppato la guerra. Non c'e' stata la vittoria di
una resistenza militare di Hezbollah, dove l'accento cada sul
termine "militare". Tra l'altro nessuno sa esattamente quali siano
le perdite realmente subite da Hezbollah -molto alte, pare; quel che
si sa è l'enorme sproporzione, per l'appunto militare, fra la
valanga di bombe di parte israeliana e i razzi di Hezbollah, fra le
1109 vittime civili in Libano e quelle provocate dai razzi su Haifa,
43 vittime civili su 159. E' stata l'ennesima guerra asimmetrica.
Non lo dico per una totale lontananza di orizzonte fra una cultura
laica, nonviolenta e di sinistra, come la mia, ed Hezbollah ("il
partito di dio"), né perché trovo criminale (e lo trovo criminale)
lanciare bombe su civili in Israele, facendo altri morti innocenti,
fra i più poveri di quei territori. Il fatto è che l'obiettivo di
Israele era politico e la risposta libanese è stata politica.
L'obiettivo era il Libano stesso, sgretolarne l'unità nazionale.
Frammentare e avere, in prospettiva, un nuovo governo più filo
americano e filo israeliano, che tenesse fuori Hezbollah. Il
fallimento di questa strategia è che la disgregazione non c'e'
stata. La risposta libanese è stata politica: la resistenza libanese
è stata "politica", non militare. Il Libano -multietnico,
multireligioso- stavolta è rimasto unito. I libanesi, dopo i
bombardamenti, sono scesi in piazza non con le bandiere di questo o
quel gruppo, di questa o quella componente, ma con la bandiera
libanese. Se la politica ha iniziato a vincere là, oggi vi è qua, in
Italia, una diffusa speranza che si possano risolvere politicamente
nodi che ci portiamo dietro dal secolo scorso, a partire dalla
questione Palestinese. Questo ci riguarda come movimenti: il 21 e 22
ottobre ne dovremo discutere perché è tempo d'agire. Una "politica
estera dal basso" è l'unico realismo possibile per il XXI secolo.
Firenze, assemblea del 21/22 ottobre
dei movimenti per la pace e contro la guerra
anche in vista di una manifestazione nazionale a Milano
per metà di novembre