Reportage
Liscia, gassata o ferrarese
Nell'impianto di potabilizzazione dell'acqua del Po
A Serravalle, in Emilia Romagna, l'oro blu del Po viene trasformato in acqua
bevibile. Come un'azienda interamente pubblica può rappresentare un modello
Gli scolari si divertono a vedere la goccia d'acqua «prima e dopo»,
avvicendandosi curiosi al microscopio del laboratorio. La goccia di prima è
quella che entra nell'impianto di potabilizzazione di Serravalle, a poche
decine di chilometri dal delta del Po; ed è, per così dire, brulicante di vita.
Ovvio, trattandosi di goccia che le pompe sollevano direttamente dalla parte
terminale del lungo fiume Po, in totale 9 milioni di metri cubi all'anno. C'è
di tutto: erbicidi e concimi dei campi, deiezioni degli allevamenti intensivi,
liquami di tante città alcune delle quali prive di depuratore; «una sinergia di
inquinamento organico e inorganico» come la definisce Maria Rita Benvenuti, la
biologa dell'impianto. Anche se qui intorno all'impianto sembra tutto verde e
pulito, pista ciclabile sull'argine, isola paradiso di biodiversità al centro
del fiume basso ma scorrevole, non melmoso anzi di un'acqua verdolina, alberi
autoctoni in abbondanza, nessuna casa.
La goccia di dopo è quella che esce batteriologicamente e chimicamente pura
dalla fabbrica dell'acqua, enorme impianto alambicco in grado di distribuire
all'acquedotto un'acqua perfettamente bevibile che... in gran parte non sarà
bevuta, ma andrà giù negli sciacquoni, scorrerà invano mentre ci si fa barba e
denti, laverà vestiti e pavimenti: visto che in Italia il rubinetto è snobbato
in favore delle acque nelle bottiglie di plastica, demenziale status symbol
alla rovescia. L'alambicco ha due peculiarità che messe insieme lo rendono
forse unico in Italia: primo, potabilizza l'acqua di un lungo e carico fiume;
secondo, è di proprietà interamente pubblica. La società Cadf è per azioni, ma
stabilmente nelle mani di decine di comuni della zona. «Acqua pubblica, bene
comune», esordisce un volantino colorato di Cadf, provincia di Ferrara e parco
del Delta del Po, invitando i ragazzi delle scuole alla gita in barca sul
fiume, completa di racconti popolari, musica, giochi e visite agli impianti di
potabilizzazione.
La fabbrica dell'acqua pulita
Per legge, trattandosi di acque di superficie, l'impianto realizza la
cosiddetta «potabilizzazione spinta», con tutti i tipi di trattamenti
possibili. Comincia così: l'acqua che le pompe prelevano dai quattro tubi di
pescaggio passa prima di tutto attraverso grandi vasche circolari chiamate
«mescolatori», che fanno per così dire il grosso: l'acqua è mescolata
all'ipoclorito di sodio che abbatte i batteri; mentre il flocculante fa
precipitare sul fondo le particelle di fango. L'acqua tracima all'esterno,
pronta per la prossima pulizia (e intanto il fango depositato, schiacciato così
da togliere l'acqua - che sarà reimmessa nel mescolatore per non sprecarla,
l'impianto è a ciclo chiuso - viene trasportato come rifiuto nelle apposite
discariche). Seguono i trattamenti fisici: la goccia attraversa per caduta i
filtri a sabbia quarzifera che trattengono le impurità rimaste (i filtri sono
continuamente puliti con un procedimento detto «lavaggio in controcorrente»).
Non è finita: l'ultima fase è la pulizia chimico-meccanica con i filtri a
carbone attivo granulare; sono grandi recipienti ovoidali che trattengono in
particolare tutte le sostanze chimiche pericolose per la salute umana, dai
pesticidi, allo stesso ipoclorito aggiunto all'inizio nel mescolatore
(ovviamente anche i filtri sono puliti con accuratezza).
«A questo punto, recita il percorso 3 delle schede preparate per le scuole dal
Laboratorio dell'acqua, struttura educativa della Cadf, l'acqua che esce è pura
come alla sorgente», che come abbiamo studiato tutti a scuola nel caso del Po è
il Pian del Re, sul Monviso, a 2020 metri di altitudine, in una conca di
origine glaciale (finché il riscaldamento climatico non la scioglierà, ma
questa è un'altra storia). Finito, il processo? Macché. L'acqua deve infatti
rimanere «pura come alla sorgente» anche durante il percorso nell'acquedotto,
fino ai rubinetti, e allora, per sgominare la contaminazione in agguato lungo
il cammino, si aggiunge al liquido in movimento il biossido di cloro,
comunemente detto cloro. Il gas disinfettante è di per sé innocuo ma
responsabile del gusto appunto «di cloro» che fa storcere il naso agli utenti
finali e li fa girare verso la bottiglia. Quando basterebbe, lo sanno anche i
bambini che vengono a lezione nel Laboratorio, lasciare l'acqua a depositare
per un po' in una caraffa in frigo e il gas se ne andrebbe portando con sé
odore e sapore. Comunque, la nostra borraccia riempita al rubinetto della
cucina lì all'impianto restituisce un liquido «inodore, insapore e incolore»,
come si studiava a scuola. Solo gli esperti del laboratorio di analisi della
Cadf sono in grado di dire che il gusto è diverso da quello che ha l'acqua
dell'altra centrale Cadf, a Ro ferrarese: un impianto più semplice, perché i 10
milioni di metri cubi annui che immette nella rete sono attinti non dal tratto
finale di un Po ma da 19 pozzi di falda freatica profonda e abbondante
dislocati in un grande parco di alberi autoctoni. L'acquedotto della Cadf
mescola poi le due acque; ogni anno la loro qualità è sottoposta al controllo
di 163.000 parametri chimici e microbiologici suddivisi su 18.000 campioni
prelevati in un anno. I prelievi per i controlli si fanno in vari punti
dell'acquedotto, fino al contatore dell'utenza; da lì fino al rubinetto spetta
al condominio il compito di garantire l'impianto (da inquinanti chimici, perché
quelli batteriologici sono scongiurati dal solito cloro in movimento). L'acqua
dell'acquedotto in questione non ha mai avuto dichiarazioni di non potabilità.
Allora: liscia, gassata o ferrarese? E cioè: si fidano di quest'acqua «al
punto di berla in massa» i 110mila residenti (200mila in estate) serviti
dall'acquedotto in questione, 2247 chilometri totalmente in pianura, con 24
impianti di accumulo-sollevamento? Tutta quella fatica per rendere pura l'acqua
del Po e poi magari non viene nemmeno bevuta? Dal 2001 il Cadf effettua
sondaggi sull'abitudine al consumo di potabile. Nel 2001, il 61 per cento degli
intervistati dichiarava di non berla mai, il 27 per cento solo qualche volta, e
il 12 per cento sempre. L'indagine del 2005 ha confermato gli stessi valori.
Dato allineato con la media italiana, visto che consumiamo 170 litri di acqua
pro capite e si suppone che se ne beva un litro al giorno, dunque in bottiglia
a testa ne beviamo la metà del totale.
E' buffo: perché poi le stesse persone interrogate sulla qualità dell'acqua
hanno dato un parere diverso: in gran maggioranza erano soddisfatte da sapore,
odore e limpidezza. Come si spiega che allora tracannino dalle bottiglie? Il
sapore vero o presunto è un elemento forte nella scelta dell'acqua. Ma la
pubblicità gioca moltissimo. Come contrastare la persuasione occulta dei
colossi delle bollicine? Come fare una campagna per l'orgoglio del rubinetto?
La Cadf fornisce periodicamente informazioni sulla bolletta, accoglie molte
scuole nel laboratorio dell'acqua, organizza feste con visite guidate alle
centrali, prove di assaggio a occhi bendati, spiega che l'acqua di rubinetto
deve per legge avere una quantità di minerali standard, adatta a tutti,
ottimale per bambini e anziani. Come al solito il metodo più efficace sembra
essere il coinvolgimento dei bambini, che dipende molto dal grado di
sensibilità degli insegnanti. In alcune scuole in mensa ci sono le caraffe sui
tavoli; così è anche nell'ospedale, peraltro. A quando una pubblicità progresso
promossa dal Comitato acqua pubblica a cui aderiscono le superstiti aziende
idriche senza presenze private?
Un servizio rimasto pubblico
Nel 1994 il Consorzio intercomunale Copparo e il Consorzio acquedotto basso
ferrarese diventano Consorzio acque delta ferrarese, azienda speciale
(municipalizzata). La struttura riesce a mantenersi in mani pubbliche anche nel
terremoto privatizzante degli anni seguenti, senza sconfinare dal proprio
territorio e in più aumentando il personale. Come sia avvenuto lo spiega il
direttore, ingegner Silvio Stricchi: «La proprietà di Cadf e del servizio
idrico integrato che essa effettua è dei 15 comuni serviti dall'acquedotto;
loro hanno messo il capitale. Nel 2001, per legge, il Consorzio è stato
trasformato in società per azioni; e si poneva l'obbligo della gara, per cedere
una parte della proprietà ai privati. Noi abbiamo aspettato; e alla fine del
2002 è stata introdotta, in buona parte grazie all'impegno di enti locali e
movimenti contro la privatizzazione, la possibilità di mantenere un capitale
interamente pubblico, con un controllo da parte dei soci pubblici analogo a
quello che essi hanno sugli altri servizi. La condizione per rimanere
interamente pubblici, esercitando la cosiddetta gestione in house era che le
attività si mantenessero limitate al territorio. E così è». Infatti l'unica
proiezione della Cadf al di fuori del bacino dei suoi 15 comuni è il sostegno
all'impianto di potabilizzazione che serve un ospedale in Kenya; e se ce ne
saranno altre, sarà sempre solo l'appoggio a progetti nel Sud del mondo.
Prosegue il direttore: «Del resto nel 2001 la regione Emilia Romagna aveva
introdotto la possibilità dell'in house nella propria legge regionale, e noi ce
ne siamo fatti forti. Ci è stato affidato il servizio idrico integrato per 20
anni» (il servizio integrato, o «ciclo integrato acquedotto depurazione e
fognatura» significa gestione di tutto il ciclo dell'acqua, quella pulita e
quella sporca: oltre alla potabilizzazione il pacchetto Cadf comprende 50
impianti di depurazione delle acque reflue da insediamenti civili e industriali
nell'area).
E le ultime novità, introdotte dal nuovo governo con il decreto Bersani?
«L'obbligo della gara per i servizi pubblici è stato reintrodotto e l'in house
estromessa, a esclusione però del settore idrico. Dunque andiamo avanti». Ma
non è comunque problematico gestire un bene comune esenziale alla vita come
l'acqua in un regime di società per azioni, dunque con vincoli di bilancio e
obbligo di fare utili? Per l'ingegnere, la struttura spa è al tempo stesso un
onere e un atout. Quanto agli oneri: «Se è una spa in mano pubblica a gestire
il servizio idrico e chiude in attivo, l'utile è incamerato, reinvestito in
lavoro e migliorie. Ai nostri sindaci va bene così; sono consci del fatto che
il primo obbligo non è fare utili ma servire il cittadino». Certo però «la
natura pubblica ed essenziale di certe attività dovrebbe essere tenuta in
maggior conto, e i soggetti che se ne occupano dovrebbero ricevere qualche
trattamento preferenziale. Invece, ad esempio, essendo spa non possiamo più
avere i finanziamenti pubblici nemmeno per le attività educative».
L'atout della spa, per Stricchi, è che obbliga a ingegnarsi per farcela senza
puntelli esterni. Così, per arrotondare il bilancio, alla Cadf si sono
inventati altre attività: anche le analisi chimiche e batteriologiche per
cittadini e aziende, con campionamenti anche a domicilio. E si internalizzano
operazioni prima affidate a imprese private esterne, come gli scavi e altre
opere strutturali. «E' così, dice l'ingegnere, che siamo riusciti ad aumentare
il servizio e il personale: assumendo in questi ultimi anni 25 persone, adesso
in totale sono 147 i dipendenti di Cadf».
Acqua ed energia, intrecci vitali
Potabilizzare è uno sforzo che costa anche energia. Per un metro cubo di acqua
potabile si «spendono» ben 0,585 chilowattora (0,452 per la potabilizzazione,
0,133 per la distribuzione), secondo i dati forniti dal servizio tecnico Cadf
per l'area in questione (d'altro canto, e nei mesi di penuria idrica sul Po lo
si è ben visto, la produzione di energia nelle stesse centrali termoelettriche
richiede molta acqua per il raffreddamento degli impianti).
Dunque, risparmiare acqua di rubinetto è risparmiare anche energia. Eppure,
gli italiani sono ai vertici europei per consumo di acqua pro capite.
L'ingegner Stricchi spiega: «Come quasi tutte le reti in Italia, anche la
nostra perde, essendo del 1953. Ma la ricerca dei guasti e le riparazioni,
costosissima, non riesce a essere coperta dal prezzo dell'acqua, regolato
dall'Ato. La logica del servizio integrato è che gli investimenti negli
impianti si pagano con la tariffa; da allora c'è stato un crollo negli
investimenti pubblici in materia. Che invece sono fondamentali». Comunque, la
tecnologia arriverà in parte in soccorso: «Stiamo mettendo a punto un modello
che simulerà il funzionamento delle reti; potremo così intervenire per
equilibrare almeno il livello di pressione, che quando è eccessivo provoca
guasti». Quanto ai consumi finali, sorge il dubbio che a chi vende acqua non
convenga il risparmio idrico. «Ma siamo sempre un'impresa pubblica, il bene
collettivo è il nostro fine primario», replica il direttore.