[NuovoLab] Per una politica estera dei movimenti

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Autor: antonio bruno
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Per una politica estera dei movimenti
Tommaso Fattori
In Libano è accaduto un fatto enorme. Il meccanismo della guerra permanente
s' è inceppato e il progetto del "grande Medio-oriente" s'è d'un tratto
oscurato. Si apre uno spazio di possibilità quasi vertiginoso, soprattutto
per la pace in Palestina-Israele; una simile occasione, che potrebbe
ripetersi forse fra qualche decina d'anni, non deve essere perduta: è il
kairos, il momento opportuno per agire. Persino l'Europa sembra finalmente
uscire, con qualche piuma, dal suo duro guscio monetario e
dall'unidimensionalità economicistica, per accennare a una possibile
costruzione politica di sè.
I momenti storici gravidi di possibilità sono difficili da vivere -non
fosse altro che per le responsabilità di cui caricano tutti e ciascuno - ma
sono ancor più difficili se ci si condanna a non capirli. Questo è un primo
problema: la mancanza d'analisi e di discussione, da molto tempo in qua,
all'interno dei movimenti per la pace. La speranza è che l'assemblea
nazionale dei movimenti il 21 e 22 ottobre a Firenze possa aiutare a
colmare questa mancanza.
Un'altra difficoltà mi pare legata agli atteggiamenti che pongono, di
fatto, la centralità del problema del governo: vuoi che sia amico a tutti i
costi o nemico a tutti i costi, in questa "cosmologia" lo sguardo è rivolto
essenzialmente al palazzo. Dovremmo invece volgere lo sguardo
autenticamente sul pianeta: non per guardarlo e basta, naturalmente, ma per
agire-nel-mondo; come faceva Angelo. In che modo muoverci in Italia, e,
soprattutto, come essere presenti nei luoghi dei conflitti,
collettivamente. In che modo esserci noi in quanto pezzi di società civile,
movimenti, semplici persone impegnate per la pace che si domandano, per
esempio, com'è che il cessate il fuoco valga finalmente per il Libano ma
non ancora per la Palestina. In questi anni ci siamo tutti concentrati
sull'Iraq e il risultato è il ritiro delle truppe italiane da quella
guerra, anche se con lentezza; adesso è tempo di un'iniziativa comune che
investa tutto il Medio Oriente, a partire dalla sua questione chiave: uno
stato palestinese entro i confini stabiliti dalla comunità internazionale,
non negli spazi che avanzano allo stato d'Israele.
C'è poi l'Afghanistan, un altro pezzo della guerra infinita, dove i
bombardieri vengono dipinti come alati perlustratori contro le coltivazioni
d'oppio, non a caso rigogliose come non mai. Dobbiamo continuare a chiedere
il ritiro delle truppe italiane e farne un altro elemento cardine delle
mobilitazioni autunnali.
E' tempo di un'iniziativa politica forte, anzi, di una vera e propria
politica estera dei movimenti. Una politica estera disarmata, il cui fine
sia la giustizia sociale globale. Un progetto complesso, una strategia che
ripensi "l'insieme" - che entro breve sappia accogliere pienamente l'Africa
nel proprio orizzonte- e che si traduca in diplomazia dal basso e in corpi
civili di pace.
Dobbiamo ottenere la smilitarizzazione dell'economia, a partire dalla
prossima finanziaria. Possibile mai che quando rimonta la litania dei tagli
alla spesa pubblica potresti dire a occhi chiusi dove non giungerà per
certo la sforbiciata? Cioè appunto, le spese militari? Con un paese reale
largamente in sintonia con l'articolo 11 della propria Costituzione e dove
questo potrebbe essere terreno d'enorme consenso? Le alternative sono i
corpi d'intervento nonviolento nelle aree di conflitto, ma è l'ora di
discutere anche di modelli di difesa alternativi, come la Difesa Popolare
Nonviolenta.
E qualcosa si dovrà pur dire anche sulla "ricostruzione": quale
ricostruzione in Libano, per esempio? Per il paese distrutto o per gli
interessi delle imprese italiane? "Un'altra cooperazione è possibile",
fatta con la società civile libanese, non con i palazzinari italiani. Una
ricostruzione che sia anche sociale, non solo materiale. Le occupazioni non
sono mai finite con il ritiro dei soldati e se - dall'Afghanistan all'Iraq
- all'occupazione militare seguisse l'occupazione e la rapina economiche
non avremmo ottenuto la pace.
In Libano è un bene che l'Onu sia finalmente intervenuta - il cessate il
fuoco era necessario- e tuttavia sono stridenti i toni da grande festa per
il palazzo di vetro. Intanto perché il compito dell'Onu dovrebbe essere
prevenire le guerre e semmai difendere uno Stato militarmente aggredito.
Vero, fin dal riconoscimento del diritto di veto ai cinque membri
permanenti del Consiglio di sicurezza si ha un'originaria genuflessione del
diritto rispetto alla potenza. Ma è possibile dimenticarsi oggi di questo?
Degli elementi sostanziali di una riforma dell'Onu stessa? Con uno stato
d'Israele -che certo, deve esistere in sicurezza- ma che viola il diritto
internazionale ogni giorno e che pretende di selezionare, di volta in
volta, la risoluzione delle Nazioni Unite che più gli aggrada? Sono toni
stridenti anche perché l'Onu è giunta a chiedere il cessate il fuoco dopo
un mese di bombe. E l'ha fatto perché non solo il Libano ne aveva vitale
necessità, ma, a questo punto, anche Israele stessa. E' un multilateralismo
che nasce dalle ceneri di una fallita prova di forza. Detto ciò, inscrivere
la missione Onu in Libano nella logica della guerra infinita, considerarla
pregiudizialmente inserita nel quadro della guerra permanente, è privo di
senso. Il che non significa non vedere il rischio che la missione possa
essere riassorbita nella logica della "guerra al terrorismo".
Tuttavia i militari non sono lì per bombardare (né per disarmare Hezbollah)
ma per impedire che si bombardi e stanno riuscendo a mantenere il cessate
il fuoco. Semmai, in prospettiva, la domanda è: abbiamo bisogno di militari
-dobbiamo ricorrere a professionisti della guerra- per impedire la guerra?
Al fondo di un simile paradosso vi il nodo della congruenza fra strumenti e
obbiettivi: lo sono i militari? Lo sono le portaerei, protuberanze della
guerra permanente? Occorrono mezzi di pace, mezzi adeguati ai fini,
strumenti nuovi per affrontare le crisi senza armi. L'orizzonte non è solo
quello di interventi internazionali che siano fuori dalla guerra, ma anche
fuori dall'uso della forza. Non è in ogni caso uno sbarco di militari, né
la precaria interruzione della "guerra guerreggiata" a costituire la pace;
oggi questa interruzione è una condizione indispensabile, ma una volta che
l'interposizione sia riuscita? I militari dividono i contendenti, ma poi la
pace è tutta da costruire: perciò è indispensabile la politica, e una
politica estera dei movimenti.
Politica è la parola chiave. Anche per capire cosa è successo in Libano,
cosa ha inceppato la guerra. Non c'e' stata la vittoria di una resistenza
militare di Hezbollah, dove l'accento cada sul termine "militare". Tra
l'altro nessuno sa esattamente quali siano le perdite realmente subite da
Hezbollah -molto alte, pare; quel che si sa è l'enorme sproporzione, per
l'appunto militare, fra la valanga di bombe di parte israeliana e i razzi
di Hezbollah, fra le 1109 vittime civili in Libano e quelle provocate dai
razzi su Haifa, 43 vittime civili su 159. E' stata l'ennesima guerra
asimmetrica. Non lo dico per una totale lontananza di orizzonte fra una
cultura laica, nonviolenta e di sinistra, come la mia, ed Hezbollah ("il
partito di dio"), né perché trovo criminale (e lo trovo criminale) lanciare
bombe su civili in Israele, facendo altri morti innocenti, fra i più poveri
di quei territori. Il fatto è che l'obiettivo di Israele era politico e la
risposta libanese è stata politica. L'obiettivo era il Libano stesso,
sgretolarne l'unità nazionale. Frammentare e avere, in prospettiva, un
nuovo governo più filo americano e filo israeliano, che tenesse fuori
Hezbollah. Il fallimento di questa strategia è che la disgregazione non
c'e' stata. La risposta libanese è stata politica: la resistenza libanese è
stata "politica", non militare. Il Libano -multietnico, multireligioso-
stavolta è rimasto unito. I libanesi, dopo i bombardamenti, sono scesi in
piazza non con le bandiere di questo o quel gruppo, di questa o quella
componente, ma con la bandiera libanese. Se la politica ha iniziato a
vincere là, oggi vi è qua, in Italia, una diffusa speranza che si possano
risolvere politicamente nodi che ci portiamo dietro dal secolo scorso, a
partire dalla questione Palestinese. Questo ci riguarda come movimenti: il
21 e 22 ottobre ne dovremo discutere perché è tempo d'agire. Una "politica
estera dal basso" è l'unico realismo possibile per il XXI secolo.