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Facciamo sentire la nostra voce!
Una campagna per la verità
(20 agosto 2006)
Gli appelli degli intellettuali sono un rito. E rischiano di passare 
inosservati, specie quando esprimano punti di vista estranei all’opinione 
prevalente. Eppure mai come oggi, noi sottoscritti, docenti di varie sedi 
universitarie, donne e uomini impegnati nel “mestiere” di intellettuali, 
riteniamo sia un dovere, prima che un diritto, “dire la nostra”, invitando 
tutti coloro che esercitano la nostra stessa professione, e che dovrebbero 
promuovere il dubbio e segnalare la complessità e la problematicità degli 
eventi, contro la disinformazione e la menzogna, a ridestarsi dal letargo, o 
a gridare sui tetti le parole che, molti, a mezza voce dicono tra di loro. 
Ci riferiamo a quella che pudicamente, e ipocritamente, è stata chiamata “la 
guerra del Libano” e che invece va definita con il nome che le compete: l’aggressione 
israeliana al Libano.
Le motivazioni che i governanti e i militari d’Israele forniscono, accettate 
acriticamente dai media e politici europei, sono che la guerra sia una 
risposta all’attacco degli Hezbollah: ma una incursione militare con la 
cattura di due soldati (tuttavia i dubbi sulla natura vera, “preventiva”, e 
concertata con Washington, dell’attacco israeliano, si fanno ogni giorno più 
corposi, sulla base di rivelazioni e documenti inquietanti), può, sul piano 
del diritto prima ancora che su quello etico, dare luogo a una risposta come 
quella cui il mondo ha assistito inerte? L’azione svolta per oltre un mese – 
le armi tacciono da pochi giorni, ma non del tutto, e non siamo sicuri che 
il loro silenzio perdurerà, e Israele non è apparsa finora intenzionata a un 
rispetto assoluto della tregua – dalle truppe di Tel Aviv, ha provocato 
oltre un migliaio di morti, la gran parte civili, di cui moltissimi bambini, 
ha devastato un Paese, al quale da tempo immemorabile gli israeliani recano 
danni e lutti, distruggendone infrastrutture, edifici civili, strade, 
fabbriche, ospedali, e preziose testimonianze storiche e artistiche. Si è 
trattata di una sia pur limitata “guerra totale”: ai civili, al territorio, 
all’ambiente, nella quale le forze armate israeliane hanno dispiegato una 
potenza terribile, facendo ricorso anche ad armi illegali, contro un Paese, 
multietnico e multireligioso, quale il Libano, che non ha neppure la 
possibilità materiale di difendersi.
Le stesse parole usate dai rappresentanti del potere israeliano – tra le 
quali spicca la parola “rappresaglia”, e la frase del capo del governo 
Olmert, “non chiederemo scusa a nessuno” – confermano il carattere punitivo, 
“esemplare” di questa guerra non dichiarata, che si aggiunge a innumerevoli 
atti compiuti dai governanti di Tel Aviv in spregio a reiterate risoluzioni 
dell’Onu (oltre 70, rimaste tutte disattese!), e alle norme del diritto 
internazionale. Questa guerra insomma è il più recente, ma temiamo non l’ultimo, 
atto di una politica fondata sull’arroganza di un esercito potentissimo, 
spalleggiato dalle amministrazioni e dalla quasi totalità dei centri di 
potere finanziario e mediatico statunitensi, e di gran parte dei Paesi 
occidentali.
Davanti a tale scempio della legalità, della giustizia, e della morale, le 
voci di dissenso nella comunità intellettuale sono state poche e sommesse. 
Perché? Perché su di noi – che ci professiamo democratici (molti dei 
firmatari si dichiarano senza esitazione “di sinistra”), antirazzisti, amici 
del dialogo tra i popoli, le religioni, le culture, come le nostre biografie 
intellettuali e politiche dimostrano – grava il peso di un ricatto: chi 
critica Israele, ci si dice, ne vuole la distruzione, chi condanna la sua 
politica è marchiato come antisemita. Ebbene, noi che ci siamo battuti 
contro fascismo, militarismo, razzismo (in specie l’antisemitismo), e ogni 
forma di ingiustizia e di illegalità, contro le disuguaglianze, contro la 
prepotenza dei forti, e dalla parte dei deboli, oggi diciamo basta.
Oggi dobbiamo avere il coraggio di essere impopolari, dichiarando a tutte 
lettere che la politica israeliana, e alle sue spalle quella statunitense 
(con il sostegno permanente dell’alleato-subordinato britannico e l’afasia 
complice della quasi totalità dei governanti europei, anche se molti dei 
firmatari di questo Appello apprezzano, pur dubitando del risultato, e, 
almeno in riferimento a certe forze politiche, delle stesse intenzioni, lo 
sforzo del governo italiano di allontanarsi dall’assoluta subordinazione a 
Washington e dalla totale adesione alle tesi di Tel Aviv), costituiscono un 
rischio permanente per la pace mondiale: non l’unico, certo, ma uno dei 
principali, accanto all’opera di formazioni fondamentaliste che, 
inventandosi un “dovere religioso”, seminano odio e morte, giocano, spesso, 
a favore della politica statunitense e di quella israeliana, animate a loro 
volta da altrettali integralismi, ai quali troppo poco si bada nel dibattito 
giornalistico e politico. Difficile accettare che si possa bollare col 
marchio del “terrorismo” le legittime forme di resistenza a forze occupanti, 
o ad aggressioni esterne.
Così, la paura degli uni genera odio, l’odio suscita paura, in una spirale 
mostruosa, a cui l’esportazione della democrazia con i bombardamenti e l’imposizione 
di regimi fantoccio, serve a far scorrere altro sangue, in una precarietà 
istituzionale che si rivela in tutta la sua fragilità, come gli inferni 
iracheno ed afgano dimostrano.
Ma non possiamo dimenticare che la politica d’Israele  si fonda sulla 
pulizia etnica e sull'apartheid di fatto nei confronti dei Palestinesi, del 
resto per decenni dimenticati dagli stessi cosiddetti “regimi arabi 
 moderati”. La costruzione di un muro invalicabile nell'esiguo territorio 
concesso ai Palestinesi, la deliberata destrutturazione della già misera 
economia dei Territori, le azioni "mirate" volte a uccidere – o a catturare, 
contro ogni legge –  i loro leader politici, anche quelli democraticamente 
eletti e legittimamente in carica, e la totale noncuranza della possibilità 
di sopravvivenza di un intero popolo, fanno di quella che ci viene 
instancabilmente presentata come “la sola democrazia del Medio Oriente”, una 
potenza imperialista, che è pronta a rischiare, in nome della sua “sicurezza 
nazionale”, lo scatenamento di un terzo conflitto mondiale.
Come non rendersi conto che tale politica, accompagnata da una campagna 
diffamatoria e di odio contro il mondo arabo e musulmano, rappresentato 
ormai, nel coro di molti politici, intellettuali e giornali occidentali, 
come “islamo-fascista” (un’autentica bestialità sul piano storico e 
politologico), scatena modalità sempre più aspre di conflitto, eccita le 
forme più atroci di terrorismo dall’altra parte, suscitando un risentimento 
non solo antiebraico, e antiamericano, ma antioccidentale, di cui tutti 
siamo e saremo soggetti a pagare conseguenze pesantissime?
Noi affermiamo che essere dalla parte della verità e della giustizia, 
significa innanzi tutto essere dalla parte dello Stato di diritto all’interno, 
e della legalità sul piano internazionale. Israele, nella sua politica, in 
cui la democrazia vacilla e il peso degli apparati militari diventa ogni 
giorno più forte, non deve più contare sul nostro silenzio. Noi chiediamo a 
tutti i nostri colleghi di esprimersi, di levare le loro voci, e di avviare 
una campagna di informazione autentica verso i loro allievi, verso il 
pubblico che legge i loro scritti o ascolta le loro conferenze e lezioni. 
Chiediamo ai giovani studiosi, agli operatori della comunicazione 
(giornalismo, editoria…), ai ricercatori del mondo extrauniversitario, agli 
studiosi in formazione, di mobilitarsi, accanto a noi, con noi.
Posto che per noi non è in discussione l’esistenza dello Stato d’Israele, 
che va accettata e riconosciuta dai suoi confinanti e dagli altri Paesi 
circumvicini, i principali punti di questa campagna dovranno essere sei (con 
un settimo punto rivolto al mondo italiano):
-           Primo: Spiegare che Israele deve accettare tutte le risoluzioni 
dell’Onu, ritirarsi entro i confini del 1967, in particolare rinunciando 
alla pretesa di fare di Gerusalemme la sua “capitale unica, eterna e 
indivisibile”, e consentendo a quella città plurimillenaria di ritornare ad 
essere un luogo d’incontro e di convivenza di popoli, culture e religioni.
-           Secondo: Affermare con altrettanta chiarezza che ai Palestinesi 
sia data la possibilità immediata di costruire un proprio Stato, 
indipendente e libero, con confini certi, ed esterni allo Stato israeliano, 
internazionalmente riconosciuto e non un piccolo protettorato di Israele. E 
che il riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte di chi finora nella 
Regione non l’ha concesso, è subordinato alla creazione dello Stato 
palestinese.
-           Terzo: Chiedere con vigore che il Libano eserciti pienamente la 
sovranità sul proprio territorio, contro le pretese di ingombranti tutele di 
Paesi quali l’Iran, la Siria e Israele: a quest’ultimo deve essere impedita 
la prosecuzione di furti d’acqua sul territorio libanese, e deve essere 
imposto, dopo il ritiro del blocco aeronavale del Paese, un risarcimento, 
almeno parziale, dei costi necessari per la ricostruzione.
-           Quarto: Sostenere che la forza di interposizione sia davvero 
tale, forza di pace, e non un esercito volto a continuare la guerra, magari 
con il fine di “disarmare i nemici di Israele”; che sia dispiegata anche nel 
territorio israeliano, e non solo libanese, in particolare in quel minuscolo 
abbozzo di Stato che è la Striscia di Gaza, a difendere i Palestinesi, da 
quotidiane incursioni, violenze e uccisioni “mirate” da parte degli 
Israeliani; e che, infine, sia accompagnata e seguita da concrete azioni 
costruttive, da condursi non con gli eserciti e le armi.
-           Quinto: Invitare, e ove possibile, fornire strumenti di studio 
per far conoscere meglio la vicenda storica di quella regione, la sua 
fisionomia geografica ed economica, le sue componenti etniche e religiose, 
fuori da ogni pregiudizio o di “conoscenza” per sentito dire.
-           Sesto: Richiedere la convocazione, al più presto, di una grande, 
vera conferenza internazionale che riporti non solo la pace nella regione, 
ma assicuri una stabilità nella giustizia per tutti i popoli che vi vivono, 
all’insegna della possibile, necessaria convivenza di culture e religioni.