[NuovoLab] TESTO DELLA "RISOLUZIONE DI PACE" E INTERVISTA A …

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Autor: Sergio Casanova
Data:  
Para: forumgenova
Asunto: [NuovoLab] TESTO DELLA "RISOLUZIONE DI PACE" E INTERVISTA A WARSCHAWSKI
Apcom) Di seguito, il testo della risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e che prevede la cessazione delle ostilità nel conflitto tra Israele e milizie sciite libanesi di Hezbollah, iniziato lo scorso 12 luglio. Il testo è una versione modificata in maniera significativa rispetto a quello introdotto la settimana scorsa da Francia e Stati Uniti. Ha ottenuto tutti e 15 i voti dei membri del braccio esecutivo dell'Onu, incluso quello del Qatar, l'unico Paese arabo presente al voto.
Determinando che la situazione in Libano costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale; Il Consiglio di Sicurezza,
 
1. chiede una piena cessazione delle ostilità basata, in particolare, sull'immediata cessazione da parte degli Hezbollah di tutti gli attacchi e l'immediata cessazione di tutte le operazioni militari offensive di Israele";
 
2. a seguito della piena cessazione delle ostilità, chiede al governo del Libano e all'UNIFIL, (United Nations Interim Force in Lebanon) come previsto dal paragrafo 11 per l'invio delle loro forze in una missione congiunta nel sud del e chiede al governo di Israele, contestualmente all'inizio del dispiegamento, di ritirare le proprie forze contemporaneamente;
 
3. sottolinea l'importanza dell'estensione del controllo del governo del Libano su tutto il territorio libanese come previsto dalle disposizioni della risoluzione 1559 del 2004 e della risoluzione 1680 del 2006, e dalle disposizioni degli Accordi di Taif, per l'esercizio della sua piena sovranità, in maniera tale che non possano esserci armamenti se non con il consenso del governo del Libano e non possa esserci altra autorità che quella del governo del Libano;
 
4. reitera il proprio forte sostegno per il pieno rispetto della Linea Blu, che separa Israele e il Libano;
 
5. reitera il proprio forte sostegno, come previsto dalle precedenti risoluzioni sul Libano, per l'integrità territoriale, per la sovranità e per l'indipendenza politica del Libano all'interno dei confini riconosciuti dalla comunità internazionale, come contemplato dall'armistizio del 23 marzo 1949;
 
6. chiede alla comunità internazionale di attivarsi immediatamente per dare impulso all'assistenza finanziaria e umanitaria al popolo libanese, da compiersi anche facilitando il ritorno a casa degli sfollati e, sotto l'autorità del governo del Libano, con la riapertura di aeroporti e porti, nel rispetto dei paragrafi 14 e 15; e chiede che siano presi in considerazione ulteriori aiuti in futuro per contribuire alla ricostruzione e allo sviluppo del Libano;
 
7. afferma che le parti hanno la responsabilità di garantire che nessuna azione sia compiuta in violazione del paragrafo 1 in modo tale da compromettere in maniera negativa la ricerca di una soluzione di lungo termine, l'accesso agli aiuti umanitari della popolazione civile, incluso il passaggio dei convogli umanitari, o il ritorno volontario degli sfollati, e chiede che le parti rispettino questa responsabilità e cooperino con il Consiglio di Sicurezza;
 
8. chiede a Israele e al Libano di sostenere un cessate il fuoco e una soluzione di lungo termine fondata sui seguenti principi e elementi: - pieno rispetto della Linea Blu per entrambe le parti; - l'adozione di misure di sicurezza atte a prevenire la ripresa delle ostilità, che preveda l'istituzione, nella zona compresa tra la Linea Blu e il fiume Litani, di un'area priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell'esercito libanese e delle forze UNIFIL come previsto dal paragrafo 11, che operano in questa zona; - la piena attuazione di tutti i regolamenti previsti dagli Accordi di Taif e dalle risoluzioni 1559 del 2004, 1680 del 2006, che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano, in maniera tale che non possano esserci armi o autorità in Libano se non quelle dello Stato libanese, come deciso
dall'esecutivo libanese il 27 luglio 2006; - l'eliminazione di tutte le forze straniere dal Libano che non abbiano l'autorizzazione dal governo; - l'istituzione di un embargo internazionale sulla vendita di armi e materiali al Libano, se non su autorizzazione del suo governo; - la notifica alle Nazioni Unite delle mappe delle mine posizionate sul territorio libanese che siano ancora in possesso di Israele;
 
9. invita il Segretario Generale (Kofi Annan) a sostenere gli sforzi per arrivare al più presto possibile ad accordi di principio da parte del governo del Libano e del governo di Israele sui principi e gli elementi di una soluzione duratura come delineato nel paragrafo 8, ed esprime la volontà di essere attivamente coinvolto;
 
10. chiede al Segretario Generale di sviluppare, in collaborazione con i partner internazionali e le parti coinvolte, delle proposte per la messa in atto dei provvedimenti più importanti previsti dagli Accordi di Taif e dalle risoluzioni 1559 del 2004 e 1680 del 2006, compreso il disarmo, e per la demarcazione dei confini internazionali del Libano, specialmente in quelle aree dove il confine è soggetto a dispute o incerto, compresa l'area delle fattorie di Shebaa, e a presentare quelle proposte al Consiglio di Sicurezza entro trenta giorni;
 
11. decide, per sostenere e rafforzare la forza in dimensione, equipaggiamenti, mandato e raggio di operazione, di autorizzare un incremento nella forza della UNIFIL fino a un massimo di 15.000 uomini, e che quella forza debba, oltre a portare a termine il proprio mandato come previsto dalle risoluzioni 425 e 426 del 1978: a. sorvegliare la cessazione delle ostilità; b. affiancare e sostenere le forze libanesi nel loro dispiegamento nel sud, compresa la zona di confine della Linea Blu, mentre Israele ritira le proprie forze armate dal Libano come previsto dal paragrafo 2; c. coordinare le proprie attività con riferimento al paragrafo 11 (b) con il governo del Libano e il governo di Israele; d. estendere la propria assistenza per contribuire a garantire l'accesso della popolazione civile agli aiuti umanitari e il ritorno degli
sfollati; e. assistere le forze armate libanesi in operazioni mirate alla definizione dell'area prevista nel paragrafo 8; f. assistere il governo del Libano, se da questo richiesto, all'implementazione del paragrafo 14;
 
12. operando sulla base di una richiesta del governo del Libano di inviare una forza internazionale per assisterlo nell'esercizio della sua autorità su tutto il territorio, autorizza la UNIFIL a prendere tutte le azioni necessarie nelle aree in cui tutte le forze sono presenti e nelle loro capacità, a assicurare che questa area non sia utilizzata per operazioni ostili di nessun tipo, a resistere ai tentativi di impedire con l'uso della forza dallo svolgere i suoi compiti come da mandato del Consiglio di Sicurezza, e a proteggere il personale delle Nazioni Unite, le strutture, le postazioni e gli equipaggiamenti, a garantire la sicurezza e la libertà di movimento del personale delle Nazioni Unite, gli operatori umanitari e, senza pregiudicare la responsabilità del governo del Libano, a proteggere i civili da minacce contingenti di violenza fisica;
 
13. chiede al Segretario Generale di attuare con urgenza i provvedimenti necessari a consentire che le forze UNIFIL siano in grado di portare a termine le funzioni previste da questa risoluzione, preme perché i Paesi membri prendano in considerazione i contributi adeguati all'UNIFIL e a rispondere in maniera positiva alle richieste di assistenza per la forza, e esprime il convinto apprezzamento per coloro che hanno contribuito alle forze UNIFIL in passato;
 
14 chiede al governo del Libano di controllare i propri confini e tutti gli altri varchi d'accesso per impedire che armi e materiali siano importati in Libano senza il suo consenso e chiede alla forza UNIFIL, come previsto nel paragrafo 11, di assistere il governo del Libano dietro sua richiesta;
 
15. decide inoltre che tutti gli Stati adottino le misure necessarie per impedire, a propri cittadini, sul proprio territorio, o utilizzando navi battenti bandiera del Paese o velivoli, (a) la vendita o la fornitura a nessuna entità o individuo in Libano di armamenti e materiali di alcun tipo, incluse armi e munizioni, veicoli militari e equipaggiamenti, equipaggiamenti paramilitari e parti di ricambio per i suddetti, siano o no prodotti nei loro territori, e (b) la fornitura a nessuna entità o individuo in Libano o di qualsiasi addestramento o qualsiasi tipo di sostegno per la fornitura, la produzione, la manutenzione o l'uso di quanto citato nel comma (a) qui sopra, con l'eccezione che questi divieti non si applicano a armi, materiali, addestramento e assistenza autorizzata dal governo del Libano o dall'UNIFIL come previsto nel paragrafo 11;
 
16. decide di estendere il mandato dell'UNIFIL fino al 31 agosto 2007, ed esprime le sue intenzioni a considerare in una successiva risoluzione ulteriori estensioni al mandato della forza e altri passi mirati a contribuire l'implementazione di un cessate il fuoco permanente e di una soluzione duratura; 17. chiede al Segretario Generale di fare rapporto al Consiglio di Sicurezza entro una settimana sull'implementazione di questa risoluzione e di aggiornare regolarmente;
 
18. sottolinea l'importanza di, e la necessità di arrivare a una pace estesa, giusta e duratura in Medio Oriente, sulla base delle risoluzioni 242 del 22 novembre 1967 e 338 del 22 ottobre 1973;
 
19. decide di continuare a occuparsi attivamente della questione.
 
IL MANIFESTO 15/08/06
TESTO INTEGRALE DELL'INTERVISTA A WARSCHAWSKI

Di Geraldina Colotti
 
Raggiungiamo a Gerusalemme l’analista politico Michel Warschawski, 57 anni, uno dei maggiori esponenti della sinistra radicale israeliana.
D. Lei è stato fra i primi israeliani a rifiutarsi di prestare servizio militare fuori dai confini e per questo, durante la guerra in Libano dell’82 è stato più volte in carcere. Qual è la sua analisi oggi?
R. Non si può comprendere questa guerra d’aggressione contro il Libano, né l’accanimento contro i palestinesi, in particolare a Gaza, fuori dal contesto della guerra permanente e preventiva intentata dai neoconservatori di Washington a livello mondiale e fatta propria da Tel Aviv. L’obiettivo è quello di imporre l’egemonia nordamericana nella regione a scapito di regimi come Siria e Iran e organizzazioni politiche di massa come Hamas e Hezbollah, identificate come terroristiche. Ma questa guerra è stata anche un laboratorio, in termini di strategia, tattica, e sperimentazioni di armi che Israele ha ricevuto in questi anni da Washington: anche armi sconosciute, come abbiamo appreso dal manifesto.
D. Nell’82, in Israele ci fu un forte movimento di opposizione alla guerra. Qual è invece la situazione oggi?
R. Anche oggi il movimento contro la guerra è attivo, ma purtroppo è minoritario, non riesce a esercitare egemonia. Al massimo mobilita 5-6.000 persone. Al suo interno, ci sono forze di sinistra o di estrema sinistra. La maggioranza ha meno di 25 anni. Sono quelli che si sono mobilitati nel corso di questi ultimi anni contro l’occupazione, che non hanno creduto alla propaganda secondo cui il processo di pace sarebbe fallito per colpa del ‘terrorismo palestinese’, che hanno compreso la strategia di neocolonizzazione messa in atto dal governo. Sono quelli che si sono opposti alla costruzione del muro, alla repressione nei territori occupati, e che oggi costituiscono la colonna vertebrale del movimento antiguerra. Ma fra questi giovani e la mia generazione, quella dei militanti che si sono opposti alla guerra in Libano nell’82, c’è
un buco generazionale. Il movimento contro la guerra, che era riuscito a farsi sentire davvero nell’82 e anche nell’88, durante la prima intifada, in gran parte oggi sostiene ufficialmente la politica del governo: sostiene quella che percepisce come una guerra di autodifesa. Il discorso secondo cui c’è una minaccia del terrorismo islamico che incombe sulla democrazia, è ormai maggioritario, ha distrutto quella grande opposizione alla guerra, la sua efficacia e la sua capacità di produrre egemonia in Israele. Oggi la maggioranza della società vede nell’esercito l’ultima difesa contro un nuovo giudeocidio. Alcune delle unità combattenti più prestigiose, assomigliano ormai agli squadroni della morte, specializzati come sono nelle cosiddette uccisioni mirate, ma la domanda per entrare a farne parte è altissima.
D. Perché la società israeliana ha voltato le spalle alla pace? Le rivolgo una domanda che ricorre nei suoi ultimi libri: Sulla frontiera, edito da Città aperta; Israele-palestina, edito da Sapere 2000; A precipizio, Bollati Boringhieri…
R. Da anni è in corso in Israele una massiccia campagna per convincere la società che la pace è un’illusione e che occorre tornare al cosiddetto spirito del ’48. Una vera controriforma su tutti i piani (culturale, ideologica, giuridica e istituzionale), che, dopo l’11 settembre, ha incontrato e inglobato la teoria dello scontro di civiltà e la retorica della guerra al terrorismo. Alle ragioni geostrategiche di controllo del territorio e di annessione continua dell’intera Palestina storica, si è aggiunto un altro elemento: a partire dell’11 settembre, anche la stragrande maggioranza della sinistra moderata, quello che per voi è il centrosinistra, pensa che ci sia una civiltà minacciata dai barbari e che occorra difendersi. Si crede l’avamposto della civilizzazione nel cuore del mondo arabo, l’ultimo baluardo in seno alla barbarie: questo è il discorso che è passato.
D. E non riscontra un atteggiamento speculare anche in certi settori dell’islamismo radicale?
R. Non sono d’accordo. Ascolto con molta attenzione Nasrallah e, come altri commentatori in Israele, constato che i suoi discorsi sono pacati e di grande responsabilità: tutto il contrario dell’occidente che si pretende baluardo di civiltà e che invece trasuda retorica fondamentalista. Sembra di assistere a un capovolgimento di valori: il campo laico che si abbandona al fanatismo, e quello religioso che, anche se parte da una diversa concezione, fa di tutto per non pronunciare discorsi confessionali.
D. Nei suoi libri lei parla di disumanizzazione dei palestinesi e degli arabi da parte di Israele. Cosa intende?
R. Con l’11 settembre c’è stata una svolta. Fino ad allora, i palestinesi venivano percepiti come nemici con cui si aveva una divergenza profonda, soprattutto per via della violenza, ma si dava per possibile che la questione potesse essere affrontata, che si dovesse arrivare a una qualche trattativa concreta. Aver assunto il discorso dei neoconservatori americani, ha spinto Israele a un cambiamento qualitativo: da nemici che erano, i palestinesi si sono trasformati in minaccia. E una minaccia non è più identificabile in un contenzioso concreto e in un nemico concreto, incombe e basta e ci si deve difendere. “Israele è una villa nel cuore della giungla”, ha detto qualche anno fa Ehud Barak. Si può mai intrattenere rapporti con la giungla? Questo discorso domina e guida la politica israeliana e la gran parte dell’opinione pubblica.
D. Scomparsa l’Unione sovietica, si ha bisogno di un altro Impero del male?
R. E’ evidente che con la scomparsa del nemico globale che minacciava il cosiddetto mondo libero, e cioè l’Urss, e con l’azzeramento del processo di pace con i palestinesi, si è dovuto rimpiazzare il vuoto con una minaccia apocalittica. Non a caso, riferendosi ad Al-Qaeda si parla di nebulosa: un mostro immateriale. Una guerra, quindi, che non si può mai vincere perché il nemico è un fantasma che non può essere identificato. Solo che la guerra è reale e fa disastri concreti. Anzi, innesca un meccanismo difficilmente controllabile, capace di creare da sé la minaccia ancora prima che si presenti. In Israele, questo meccanismo si innerva su un inconscio collettivo marcato da un genocidio che è ancora recente, perché sono passati appena 60 anni, e che rapidamente traduce ogni problema politico concreto in minaccia esistenziale. Non
è infatti razionale credere che qualche razzo di Hezbollah possa preoccupare davvero una grande potenza militare come Israele, al massimo può portare a un certo livello di destabilizzazione, ma certo non minaccia l’esistenza del popolo ebreo come ha sostenuto il primo ministro israeliano. Però, la propaganda porta a leggere il presente e la storia come un immenso pogrom che continua da millenni e per cui non ci si può mai fermare: una dinamica di guerra infinita. Siamo sull’orlo del baratro e ne stiamo avendo un assaggio.
D. Il suo libro A precipizio, La crisi della società israeliana, è dedicato a due comunisti tedeschi, trasferitisi in Israele per fuggire al nazismo. Due militanti anticolonialisti. Perché ha fallito quella generazione di comunisti in Israele?
R. Micha e Trude hanno trovato rifugio in Palestina un po’ loro malgrado, pensavano di tornare indietro dopo la liberazione dal nazifascismo, ma poi sono rimasti. Da loro, impermeabili a ogni forma di trialismo, ho appreso che l’internazionalismo e l’impegno comunista sono maniere di essere cittadini del mondo. Erano migliaia i comunisti che, prima del ’48, si sono scontrati con una realtà coloniale che gli ha lasciato poco spazio: non erano aggrappati all’identità ebraica, ma non erano arabi. E gli arabi, anzi, li identificavano col campo avverso. E’ la logica perversa dei conflitti nazionali. Ti ritrovi tuo malgrado nei quartieri bombardati dagli arabi, o viceversa: ci vuole una grande convinzione per prendersi le bombe e dire: io sono altro da questo.
D. Lei pensa in questo modo, ma continua a vivere a Gerusalemme. Perché?
R. Ancora di recente, durante una manifestazione contro la guerra, sono stato aggredito dagli estremisti religiosi. Ma ogni cedimento sarebbe una tragedia per i nostri figli. La politica di guerra dei dirigenti israeliani porta alla catastrofe, e chiude le porte alla possibilità di una coesistenza nazionale con i palestinesi. Ci fanno odiare dagli arabi perché, pur vivendo in una regione araba, Israele rigetta il mondo arabo. Bisogna essere pazzi per credere che possiamo imporre la nostra esistenza in questa regione e contro il mondo arabo.
D. In un volume edito da Sapere 2000, Israele-Palestina, la sfida binazionale, lei – riferendosi a lontane esperienze intercomunitarie tra ebrei e musulmani, auspica un nuovo sogno Andaluso per il XXI secolo. Che cosa intende?
R. Una comunità può vivere e pensarsi in relazione con l’ambiente umano che la circonda, oppure in autarchia. Io penso che tutto ciò che è autarchico impedisca ogni sviluppo e marcisca. Accade così a Israele, che ha scelto di vivere in autarchia, in una specie di ghetto armato in pieno Medioriente, cioè in opposizione al contesto. Uno dei compiti degli intellettuali – che oggi, purtroppo, sono completamente preda della sindrome da assedio -  è di far capire questo alla gioventù israeliana, insegnare nelle scuole che le più belle pagine degli ebrei nel mondo sono quelle in cui hanno arricchito e si sono arricchiti della cultura del posto. In particolare, in Andalusia, in  quella che chiamiamo l’età d’oro degli ebrei, quando la cultura musulmana e quella ebraica, e in misura minore quella
cristiana, convivevano in un dialogo proficuo che ha portato al massimo sviluppo il Medioevo. E’ stata poi la Riconquista che, dopo la caduta di Granada nel 1487 ha distrutto tutto. Le pagine di questa storia non si insegnano in Israele, farle conoscere, invece, serve a dimostrare che la convivenza tra giudei e musulmani è stata possibile e reciprocamente feconda.
D. Cosa dovrebbe fare Israele per invertire la rotta?
R. Intanto, applicare le numerose risoluzioni dell’Onu, tutte disattese. Mettere fine all’occupazione. Costruire legami di coesistenza con i palestinesi e con la regione in cui si trova, non fare l’apripista per le politiche nordamericane. Sul piano politico, dovrebbe trasformarsi da stato ebraico a stato di tutti i cittadini, separare religione e Stato, statalizzare la terra e finirla con le discriminazioni etniche. Sostituire la Legge del ritorno con una legislazione che consenta il ricongiungimento familiare e l’immigrazione di tutti, a cominciare dai profughi palestinesi. Prevedere forme di autogestione che garantiscano l’espressione delle diversità, in primo luogo quella dei palestinesi.
D. Nei suoi libri, lei paragona il processo di Oslo a una sorta di compromesso storico che non ha funzionato. Quale via rimane oggi ai palestinesi?
R. Siamo in un complicato periodo di transizione. Se mi avesse posto la domanda qualche anno fa le avrei detto: qualunque sia la soluzione a lungo termine, a breve termine, deve passare per la costruzione di uno stato palestinese e la fine dell’occupazione, la decolonizzazione della Cisgiordania, uno stato palestinese a fianco di quello israeliano, e un lavoro per arrivare a una forma di coabitazione più stretta. Ma ora, dopo la distruzione sistematica nei territori occupati, che da cinque anni Israele persegue, e l’accanimento degli ultimi mesi contro il popolo palestinese, ho molte difficoltà a rispondere. Cosa fa la l’Europa perché i palestinesi abbiano una terra? Cosa fa l’Italia ora che c’è un governo di centrosinistra? Molto meno di quanto facevano i governi democristiani. Per ora, quindi, vedo un unilateralismo totale
che mira a chiudere la partita con una seconda nakba. Secondo la politica dello stato israeliano, esiste un solo popolo, quello ebreo, e un problema: quello palestinese.