[NuovoLab] [COMITATI] Totale fallimento del WTO!

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Autor: by way of antonio bruno <bruno@aleph.it>
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To: forumgenova, forumsociale-ponge
CC: aderentiretecontrog8
Betreff: [NuovoLab] [COMITATI] Totale fallimento del WTO!


È finita l'ultima corsa del Wto

<smaller>Fallimento completo dei negoziati del Doha Round e rinvio «sine
die» di ogni trattativa

</smaller>Antonio Tricarico *

<smaller>Questa volta non è stato qualche diplomatico africano a
decretare la fine dei negoziati dell'Organizzazione mondiale del
commercio, come già successo a Seattle nel 1999 e a Cancun nel 2003, ma i
rappresentanti dei governi più potenti del pianeta e il direttore
generale della Wto in persona, Pascal Lamy. Al termine dell'ennesimo
incontro ristretto del «Gruppo dei 6» - Stati Uniti, Unione Europea,
Australia, Giappone, Brasile e India - arriva una clamorosa sospensione
sine die del ciclo negoziale lanciato a Doha nel novembre 2001, in un
clima politico internazionale a senso unico, in cui l'amministrazione
Bush legava il bisogno di nuove liberalizzazioni a una maggiore sicurezza
globale. Dopo la crepa di Seattle e il trambusto di Cancun, è la caduta
definitiva della Wto, che lo scorso dicembre ad Hong Kong era riuscito
solo in extremis ad evitare la conclusione di ieri. La fine di luglio
rappresentava la scadenza ultima per definire le modalità negoziali negli
spinosi dossier su agricoltura e prodotti industriali, poiché entro
l'anno si sarebbero dovute raggiungere le cifre precise di riduzione
delle tariffe prima della scadenza del super-mandato negoziale del
Presidente Bush. Un mandato conferito da un Congresso Usa che non era
ancora protezionista come è diventato ultimamente, e che attualmente
finirebbe per bloccare ogni nuovo accordo della Wto.

Come sempre, quando salta il circo della Wto, scattano le accuse tra chi
fino all'ultimo era pronto a infinite concessioni pur di raggiungere
l'accordo. Il capro espiatorio questa volta sono gli Stati Uniti e non
l'Unione Europea, come successe a Cancun. A Susan Schwab, rappresentante
di Bush, si imputa di non aver voluto concedere quel taglio ai propri
sussidi interni in agricoltura necessario per sbloccare l'apertura dei
mercati agricoli europei e quindi di quelli dei prodotti industriali
nelle economie emergenti del Sud del mondo. Il negoziato sui servizi
sarebbe stata un'importante appendice per l'industria occidentale, anche
se va detto che formalmente potrebbe continuare a prescindere dal
collasso dell'agenda di Doha. Una volta quadrato il cerchio tra i Paesi
che contano, con il silenzio-assenso della super-potenza cinese, allora
si sarebbe condito un'ennesimo accordo di selvaggia liberalizzazione dei
mercati mondiali con qualche irrisoria misura di sviluppo per i Paesi più
poveri, da sempre poco ascoltati nelle stanze segrete di Ginevra.

Per la società civile internazionale è senza dubbio una vittoria, dopo la
battuta di arresto di Hong Kong di pochi mesi fa, causata dal
«tradimento» delle nuove potenze del Sud, desiderose di un intesa. Da
Cancun in poi la richiesta dei movimenti sociali è stata «nessun accordo
è meglio di un pessimo accordo», e così è stato. Come molti ministri
hanno fatto capire nelle «calde» conferenze stampa ginevrine, è ormai a
rischio l'intero sistema multilaterale commerciale come concepito nella
Wto dai vincitori della guerra fredda. E' la crisi del liberismo che
diventa palese anche nel tempio più grande di questo dogma economico. Con
lo stop Wto, destinato a durare probabilmente a lungo, entriamo in una
nuova era della globalizzazione, segnata per ora da un caos multipolare e
dall'impasse della super-potenza a stelle e strisce. Usa e Ue già da mesi
concepivano la fine dell'istituzione ginevrina e la necessità di muovere
aggressivi negoziati su scala bilaterale e regionale che andassero ben
oltre il tetto minimo fissato dalle liberalizzazioni siglate Wto. I Paesi
emergenti, seppur sposando la logica liberista, hanno riscoperto un ruolo
per lo Stato-Nazione, soprattutto India e Cina, e nuove ambizioni di
integrazione regionale, come l'America Latina.

E' vero che il «grande Sud» avrebbe ancora bisogno di uno spazio
multilaterale, in cui vincere è più semplice, ma oramai anche per le
nuove potenze del pianeta risulta ineludibile affrontare la crisi del
liberismo e il bisogno di alternative. Peter Mandelson, commissario
europeo al commercio, ha parlato di «ultima uscita» persa
sull'autostrada. Per la società civile globale è chiaro che l'autostrada
deve essere ricostruita dalle sue fondamenta. Chi in Italia a parole
difende il multilateralismo e la protezione dei diritti umani
fondamentali, come il ministro per il Commercio Internazionale Emma
Bonino, dovrebbe trarne finalmente le debite conseguenze. Oggi ha vinto
chi alla vigilia del Round del millennio chiedeva all'organizzazione
principe della globalizzazione liberista di fermarsi.

</smaller>* CRBM/Mani Tese


----------

<bold><italic>Hanno seguito ogni passo del “Doha round” e fatto da
consulenti ai Paesi del Sud. Festeggiano


per il fallimento e mettono in guardia: «Ora i grandi imporranno le loro
regole con accordi bilaterali»

La buona notizia e i rischi futuri:

le valutazioni delle reti contro il Wto

Martino Mazzonis

Per anni hanno viaggiato dietro agli sherpa dei ministri del Commercio,
seguito summit, organizzato campagne, manifestazioni, dialogato con la
stampa. Adesso che il Doha round sembra essere arrivato su un binario
morto, non sembrano gioire come ci si sarebbe potuti aspettare. Sono i
cosiddetti “campaigner”, le persone che lavorano alle campagne per un
commercio internazionale più giusto e contro la forma presa dal Wto
(l’Organizzazione mondiale del commercio). Qual’è il nodo? Perché chi ha
organizzato le lotte contro il Wto, seguito i negoziati e fatto da
consulente alle delegazioni del Sud del mondo nei negoziati in queste ore
non sta brindando? «La sospensione delle trattative sarebbe un buon
risultato se avessimo assistito a un cambiamento radicale dell’approccio
di Europa e Stati Uniti sul commercio, se questa fosse una pausa di
riflessione - spiega a Liberazione Romain Benicchio di Oxfam
international da Ginevra - La verità è che senza un’idea di commercio più
giusto tra nord e sud, qualsiasi trattativa non può portare risultati
buoni, che avvenga in una sede multilaterale come quella del Wto qui a
Ginevra o che sia il frutto di trattative bilaterali tra un grande e un
piccolo». Quello degli accordi bilaterali è un pericolo tanto grande
quanto quello di una felice conclusione del Doha round. Su questo
concordano in molti tra coloro che lavorano alle campagne. Cosa vuol dire
accordi bilaterali o, come recita il gergo tecnico del Wto, Accordi di
partnership economica (in inglese Economic Partnership Agreements, o
EPAs)? Molto semplicemente trattative commerciali tra due Paesi nelle
quali l’Unione europa, gli Stati Uniti (o la Francia, l’Italia, la Gran
Bretagna) dettano le loro condizioni a un Paese X del Sud. Banalizzando
lo scambio che avviene è «Ti lasciamo esportare la tua canna da zucchero
- o il tuo cotone, la tua frutta - se tu mi garantisci l’accesso
privilegiato al tuo mercato delle telecomunicazioni e dei servizi». Non
succede proprio così, di solito si tratta di formule più sfumate, ma il
concetto è questo: uso sproporzionato della forza commerciale per imporre
a un piccolo Paese che ha bisogno di esportare la sua monocoltura di
accettare delle relazioni commerciali capestro.


Come spiega Roberto Sensi di Mani Tese, «Verrebbe quasi da pensare che
gli Stati Uniti volessero una messa in discussione del sistema
multilaterale, ormai erano costretti a mediare con troppi altri attori
importanti (India, Brasile e Cina). E con loro anche altre grandi potenze
commerciali di oggi e di domani: la Cina è stata molto silenziosa, ha la
sua agenda commerciale e la sta implementando con trattative bilaterali».
Anche secondo Aileen Kwa (che segue i negoziati a Ginevra per Focus on
the Global South, un’organizzazione con sede a Bangkok) stavolta il nodo
sono stati gli Usa: «L’Unione europea sembrava pronta a concedere
qualcosa, ma questioni di politica interna statunitense hanno determinato
lo stallo. L’idea di tagliare i sussidi agricoli per favorire
importazioni dal Sud non piace al Congresso Usa. L’atteggiamento
americano ha fatto irrigidire brasiliani e indiani ed ecco il risultato».
Questo naufragio si spiega anche e soprattutto con quello che è successo
nel mondo in qesti anni. Quando partono i negoziati Wto non c’è la Cina,
non c’è l’India e nemmeno il Brasile, il Sud Africa. Il pericolo è che
alcune delle questioni che si volevano imporre nei Doha round e che sono
state fermate a Cancun, adesso vengano imposte dai trattati bilaterali o
regionali. «Il rischio è che le grandi potenze commerciali di oggi e di
domani si costruiscano aree di influenza dividendosi il mondo per
macroregioni» conclude Sensi.


Ma c’è solo da essere preoccupati? Tradewatch, l’osservatorio rete sul
commercio internazionale gioisce e parla di «De profundis per il Wto e di
resa della massima istituzione del liberismo internazionale», mentre
Peter Hardstaff, del britannico World Development Movement ci spiega che
«Era chiaro fin dall’inizio che il Doha round non sarebbe stato un
negoziato di sviluppo e perciò, con tutte le precauzioni del caso,
dobbiamo rallegrarci del fallimento di questi negoziati. Non solo Use ed
Ue non concedevano abbastanza sull’agricoltura, ma l’idea stessa che i
Paesi del Sud potessero proteggere i prprio piccoli agricoltori o le loro
industrie nascenti era fuori discussione. Non era un round di sviluppo».
Un’opinione diversa da quella di Claire Melamed di Christian Aid che
sostiene che «c’era bisogno che questi negoziati portassero ad un accordo
equo, il fallimento è da addossare a Europa e Stati Uniti» (che a loro
volta si scambiano accuse). Una visione diversa che parte da un’analisi
simile (il commercio internazionale così com’è non va) e ne ricava
risultati diversi: c’è chi crede che si possa arrivare a trattati giusti
ed equi in ambito Wto e chi pensa che sia l’organizzazione in quanto tale
a dover essere rifondata e collegata all’Onu. «Il fallimento di ieri
dimostra come il sistema Wto sia totalmente inadeguato a far fronte alle
sfide della globalizzazione» dice ad esempio Monica Di Sisto di Fair. La
Di Sisto si appella ai movimenti sociali, «che possono dare un contributo
determinante nel favorire la costruzione di un sistema realmente
multilaterale più equo, che superi un Wto in crisi e che tenga in debita
considerazione le istanze delle popolazioni, dell’ambiente ed i diritti
umani». Una strada possibile anche per Aileen Kwa che aggiunge: «Non è
detto che il Doha round sia finito. Si trova sempre un modo per
reinventare un negoziato. Capire se ci sarà questa volontà è solo
questione di tempo, ma bisogna tenere conto che nei colloqui informali di
ieri, tutti i delegati dicevano di essere fortemente impegnati per
salvare il round. Certo, se in questa fase i Paesi del Sud si facessero
avanti con delle idee forti e una posizione chiara e unita su un’idea
diversa di Wto, ci sarebbero delle possibilità interessanti. Bisogna
cogliere l’attimo». Un passaggio cruciale saranno le elezioni di mid term
americane di novembre e la nuova composizione del Congresso. Se e quale
nuovo mandato daranno i deputati americani ai negoziatori Usa nel Wto è
una chiave di volta importante che dipende proprio da chi verrà eletto.
Ma chi è che potrebbe raccogliere attorno a sè i Paesi del Sud dopo che
India e Brasile sono diventati potenze regionali con interessi almeno in
parte divergenti? E’ ancora la Kwa a rispondere: «Io spero molto che
Bolivia e Venezuela possano portarsi dietro i Paesi africani (che
cominciano a manifestare palesemente di non essere affatto contenti di
come sono andati i negoziati e di come va il bilaterale)».

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<bold><italic>Hanno seguito ogni passo del “Doha round” e fatto da
consulenti ai Paesi del Sud. Festeggiano


per il fallimento e mettono in guardia: «Ora i grandi imporranno le loro
regole con accordi bilaterali»

La buona notizia e i rischi futuri:

le valutazioni delle reti contro il Wto

Martino Mazzonis

Per anni hanno viaggiato dietro agli sherpa dei ministri del Commercio,
seguito summit, organizzato campagne, manifestazioni, dialogato con la
stampa. Adesso che il Doha round sembra essere arrivato su un binario
morto, non sembrano gioire come ci si sarebbe potuti aspettare. Sono i
cosiddetti “campaigner”, le persone che lavorano alle campagne per un
commercio internazionale più giusto e contro la forma presa dal Wto
(l’Organizzazione mondiale del commercio). Qual’è il nodo? Perché chi ha
organizzato le lotte contro il Wto, seguito i negoziati e fatto da
consulente alle delegazioni del Sud del mondo nei negoziati in queste ore
non sta brindando? «La sospensione delle trattative sarebbe un buon
risultato se avessimo assistito a un cambiamento radicale dell’approccio
di Europa e Stati Uniti sul commercio, se questa fosse una pausa di
riflessione - spiega a Liberazione Romain Benicchio di Oxfam
international da Ginevra - La verità è che senza un’idea di commercio più
giusto tra nord e sud, qualsiasi trattativa non può portare risultati
buoni, che avvenga in una sede multilaterale come quella del Wto qui a
Ginevra o che sia il frutto di trattative bilaterali tra un grande e un
piccolo». Quello degli accordi bilaterali è un pericolo tanto grande
quanto quello di una felice conclusione del Doha round. Su questo
concordano in molti tra coloro che lavorano alle campagne. Cosa vuol dire
accordi bilaterali o, come recita il gergo tecnico del Wto, Accordi di
partnership economica (in inglese Economic Partnership Agreements, o
EPAs)? Molto semplicemente trattative commerciali tra due Paesi nelle
quali l’Unione europa, gli Stati Uniti (o la Francia, l’Italia, la Gran
Bretagna) dettano le loro condizioni a un Paese X del Sud. Banalizzando
lo scambio che avviene è «Ti lasciamo esportare la tua canna da zucchero
- o il tuo cotone, la tua frutta - se tu mi garantisci l’accesso
privilegiato al tuo mercato delle telecomunicazioni e dei servizi». Non
succede proprio così, di solito si tratta di formule più sfumate, ma il
concetto è questo: uso sproporzionato della forza commerciale per imporre
a un piccolo Paese che ha bisogno di esportare la sua monocoltura di
accettare delle relazioni commerciali capestro.


Come spiega Roberto Sensi di Mani Tese, «Verrebbe quasi da pensare che
gli Stati Uniti volessero una messa in discussione del sistema
multilaterale, ormai erano costretti a mediare con troppi altri attori
importanti (India, Brasile e Cina). E con loro anche altre grandi potenze
commerciali di oggi e di domani: la Cina è stata molto silenziosa, ha la
sua agenda commerciale e la sta implementando con trattative bilaterali».
Anche secondo Aileen Kwa (che segue i negoziati a Ginevra per Focus on
the Global South, un’organizzazione con sede a Bangkok) stavolta il nodo
sono stati gli Usa: «L’Unione europea sembrava pronta a concedere
qualcosa, ma questioni di politica interna statunitense hanno determinato
lo stallo. L’idea di tagliare i sussidi agricoli per favorire
importazioni dal Sud non piace al Congresso Usa. L’atteggiamento
americano ha fatto irrigidire brasiliani e indiani ed ecco il risultato».
Questo naufragio si spiega anche e soprattutto con quello che è successo
nel mondo in qesti anni. Quando partono i negoziati Wto non c’è la Cina,
non c’è l’India e nemmeno il Brasile, il Sud Africa. Il pericolo è che
alcune delle questioni che si volevano imporre nei Doha round e che sono
state fermate a Cancun, adesso vengano imposte dai trattati bilaterali o
regionali. «Il rischio è che le grandi potenze commerciali di oggi e di
domani si costruiscano aree di influenza dividendosi il mondo per
macroregioni» conclude Sensi.


Ma c’è solo da essere preoccupati? Tradewatch, l’osservatorio rete sul
commercio internazionale gioisce e parla di «De profundis per il Wto e di
resa della massima istituzione del liberismo internazionale», mentre
Peter Hardstaff, del britannico World Development Movement ci spiega che
«Era chiaro fin dall’inizio che il Doha round non sarebbe stato un
negoziato di sviluppo e perciò, con tutte le precauzioni del caso,
dobbiamo rallegrarci del fallimento di questi negoziati. Non solo Use ed
Ue non concedevano abbastanza sull’agricoltura, ma l’idea stessa che i
Paesi del Sud potessero proteggere i prprio piccoli agricoltori o le loro
industrie nascenti era fuori discussione. Non era un round di sviluppo».
Un’opinione diversa da quella di Claire Melamed di Christian Aid che
sostiene che «c’era bisogno che questi negoziati portassero ad un accordo
equo, il fallimento è da addossare a Europa e Stati Uniti» (che a loro
volta si scambiano accuse). Una visione diversa che parte da un’analisi
simile (il commercio internazionale così com’è non va) e ne ricava
risultati diversi: c’è chi crede che si possa arrivare a trattati giusti
ed equi in ambito Wto e chi pensa che sia l’organizzazione in quanto tale
a dover essere rifondata e collegata all’Onu. «Il fallimento di ieri
dimostra come il sistema Wto sia totalmente inadeguato a far fronte alle
sfide della globalizzazione» dice ad esempio Monica Di Sisto di Fair. La
Di Sisto si appella ai movimenti sociali, «che possono dare un contributo
determinante nel favorire la costruzione di un sistema realmente
multilaterale più equo, che superi un Wto in crisi e che tenga in debita
considerazione le istanze delle popolazioni, dell’ambiente ed i diritti
umani». Una strada possibile anche per Aileen Kwa che aggiunge: «Non è
detto che il Doha round sia finito. Si trova sempre un modo per
reinventare un negoziato. Capire se ci sarà questa volontà è solo
questione di tempo, ma bisogna tenere conto che nei colloqui informali di
ieri, tutti i delegati dicevano di essere fortemente impegnati per
salvare il round. Certo, se in questa fase i Paesi del Sud si facessero
avanti con delle idee forti e una posizione chiara e unita su un’idea
diversa di Wto, ci sarebbero delle possibilità interessanti. Bisogna
cogliere l’attimo». Un passaggio cruciale saranno le elezioni di mid term
americane di novembre e la nuova composizione del Congresso. Se e quale
nuovo mandato daranno i deputati americani ai negoziatori Usa nel Wto è
una chiave di volta importante che dipende proprio da chi verrà eletto.
Ma chi è che potrebbe raccogliere attorno a sè i Paesi del Sud dopo che
India e Brasile sono diventati potenze regionali con interessi almeno in
parte divergenti? E’ ancora la Kwa a rispondere: «Io spero molto che
Bolivia e Venezuela possano portarsi dietro i Paesi africani (che
cominciano a manifestare palesemente di non essere affatto contenti di
come sono andati i negoziati e di come va il bilaterale)».

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