[NuovoLab] La guerra globale ce l’abbiamo dentro casa , anc…

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Author: antonio bruno
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CC: forumambientalista, fori-sociali, debate
Subject: [NuovoLab] La guerra globale ce l’abbiamo dentro casa , anche se non si vede
liberazione 23.7.06

La guerra globale ce l’abbiamo dentro casa, anche se non si vede
Tommaso Fattori

Che ci fa una base militare statunitense, fra Pisa e Livorno, a oltre
sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale? Perché la Nato è
sopravvissuta al collasso del blocco sovietico e del patto di Varsavia?
Risposta: vecchi involucri racchiudono le nuove forme della guerra
permanente. Nuove forme, come il passaggio da un’alleanza atlantica
“difensiva” ad un’alleanza oggettivamente offensiva (“organizzazione di
sicurezza”), sui pilastri dell’ossimorica guerra umanitaria e
dell’esportazione della democrazia con i missili.

Mentre in Pakistan si sostiene con entusiasmo un dittatore golpista e in
Arabia Saudita una monarchia assoluta e anticostituzionale, in altre terre
un irrefrenabile afflato di libertà suggerisce di bombardare per affermare
il diritto a libere elezioni, esercitabile dai fortunati che scamperanno a
guerre e guerriglie. Da una “civiltà” (diciamo “occidentale”) che beve coca
cola o acqua in bottiglia e si fa la doccia con l’acqua potabile, penserà
un assetato mediorientale, non c’è da aspettarsi granché. Eppure il
progetto è grandioso: generare un nuovo Nomos della terra, un diritto del
più forte, sulle rovine del diritto internazionale sorto all’indomani dei
due conflitti mondiali.

Sono allora guerre costituenti, volte ad edificare un equilibrio predatorio
e un nuovo ordine globale, che poi è il ritorno a forme di potere assoluto,
economico e politico. Di ciò che era in origine, l’Onu mantiene oggi
l’involucro e poco più: la massima violazione della Carta delle Nazioni
Unite è per l’appunto l’aggressione, le cui caratteristiche definitorie
sono due, l’essere un’azione militare “unilaterale” e “preventiva”.

Ma, argomentava già Thomas Hobbes, la guerra permanente a lungo andare non
conviene a nessuno, neppure al più forte, come dimostra il cortocircuito
guerra-terrorismo e i “pantani” iracheno e afghano.

Al criceto nella gabbietta sembra che continuare a correre nella ruota sia
l’unica strada possibile. In questo mondo squilibratissimo c’è chi pensa
che l’enorme divario debba essere mantenuto col sangue e con i denti - “the
American lifestyle is not negotiable” -sia che ciò significhi non
ratificare gli accordi di Kyoto (e quindi soffocamento planetario) sia che
significhi inviare centinaia di migliaia di soldati a spasso per il globo.

Se i 225 personaggi più ricchi della terra hanno, da soli, un reddito annuo
superiore a quello del 45% dell’umanità (oltre due miliardi e mezzo di
persone), la guerra diviene il modo con cui governare unilateralmente una
simile follia senza il consenso di chi abita il pianeta e senza toccare i
meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza. Che poi la corsa
alla crescita infinita (in un mondo dalle risorse finite) o che
l’autoavvelenarci con i nostri stessi consumi sia la prospettiva meno
realistica e meno carica di futuro anche per noi pochi “privilegiati” del
pianeta, questo, ai “realisti” armati fino ai denti, sembra un ragionamento
dal sapore quasi metafisico.

E la Toscana che c’entra? La guerra è infinita perché è senza tempo
(«decideremo noi quando finirà» dice l’amministrazione statunitense, e in
questi giorni ripete il governo israeliano) ma pure perché è senza spazio:
ogni spazio è spazio di guerra. Territori concreti dove non sempre, però,
questo elemento è “visibile”.

Dovremmo ragionare sulla coppia visibile/invisibile: i dispositivi di
controllo e dominio sono tanto più pericolosi quanto meno sono manifesti.
Pericoloso è quando Guantanamo non si vede: quando Guantanamo è uno
sperduto Cpt. Insidioso è quando dietro l’orrore di un teatro di “guerra
guerreggiata” vi è un’apparentemente sonnacchiosa Camp Darby, in mezzo a
cipressi e pini. Preoccupante è quando l’aeroporto militare di Grosseto
ospita i caccia Eurofighter freschi d’acquisto.

L’unica certezza di ogni manovra finanziaria, sia detto per inciso, è che i
tagli non riguarderanno la spesa militare: fra l’acquisto degli Eurofighter
(121), delle nuove fregate (10) e della portaerei Conte di Cavour abbiamo
già messo insieme un punto del Pil. Non potremmo cominciare da qui? E non
potremmo iniziare con l’espellere i pezzi di guerra che si incistano nel
nostro territorio, mostrando che sono invece possibili altre economie e
altre relazioni con il mondo?

Far saltare anelli locali significa spezzare la catena della violenza
planetaria: la guerra globale si regge grazie a infiniti nodi locali. La
costruzione di un altro mondo passa attraverso l’azione territoriale e la
costituzione di nodi di una rete altrenativa.

C’è anche un altro elemento, a proposito di connessioni nascoste o non
immediatamente evidenti. La guerra in Libano è ancora un tassello della
geopolitica al tempo dell’esaurimento delle risorse (si pensi ad acqua e
petrolio): un pezzo della nuova geografia dell’esclusione. Questa forma di
globalizzazione uniforma i territori tanto nel segno della guerra quanto
nel segno della merce. Vi è un nesso strutturale fra guerra infinita e
infinita mercificazione del mondo. La pace non è semplice mancanza di
guerra ma giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, uso
collettivo e non predatorio dei beni comuni.

Ma allora costruire la pace vuol dire interrompere la privatizzazione del
pianeta. Insomma, che fare dei beni comuni dell’umanità? Condividerli e
redistribuirli o inseguire la strada della privatizzazione,
dell’“esclusione” e della guerra? Dobbiamo procedere sulla via delle
energie fossili, fonti di conflitti infiniti oltre che di grandi profitti,
o delle energie rinnovabili, producibili localmente e gestibili in modo
democratico e partecipato? Un raggio di sole o un soffio di vento non
possono essere racchiusi in un barile e venir commercializzati: la pace è
anche questo.

La responsabilità, rispetto a tutto ciò, non si colloca al di là di
ciascuno di noi né investe solo territori lontani da quelli che abitiamo.
Il processo deve avere mille epicentri: occorre trasformare i luoghi in cui
viviamo e impedire da subito che qui i beni comuni siano tramutati in beni
economici e i servizi pubblici siano privatizzati.

Non esistono scelte locali che non abbiano un significato globale. Non è
possibile essere pacifisti e acconsentire alla mercificazione del mondo in
nome del libero mercato. Se la Toscana non solo percorrerà la strada della
smilitarizzazione (chiusura delle basi, liberazione da armi pesanti e
leggere, riconversione delle fabbriche d’armi e creazione di laboratori di
pace e di diplomazia dal basso), ma sarà allo stesso tempo terra di
sperimentazione di nuove forme pubbliche di gestione dei beni comuni; se
mostrerà che la partecipazione dei cittadini è una strada per uscire dalla
crisi della democrazia globale; se inaugurerà forme solidali di
partenariato pubblico-pubblico, allora contribuirà alla costruzione di una
vera pace globale. Non vedo altro realismo possibile.