[NuovoLab] Come insegnano i valsusini la politica non coinci…

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著者: antonio bruno
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To: fori-sociali
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題目: [NuovoLab] Come insegnano i valsusini la politica non coincide con il Palazzo
liberazione 16 luglio 2006

La politica non coincide con il Palazzo (come insegnano i valsusini)
Rina Gagliardi
Vedete un po’. Quando i movimenti non spaccano le vetrine, non gridano
parole inconsulte, non minacciano sfracelli, ma - semplicemente - portano
avanti la loro lotta con tenacia, coraggio e magari anche proposte
alternative, i media li ignorano. E’ successo, proprio in questi giorni,
con la “carovana” della Val di Susa.

Venerdì mattina, a Roma, c’è stata una bella assemblea del movimento
No-Tav, officiata da Carta: un’occasione per discutere con i partiti, i
sindacati, le associazioni. E anche e soprattutto per parlare di politica:
contro la “legge obiettivo”, per la tutela dell’ambiente, per uno sviluppo
diverso dalla filosofia insensata delle “grandi opere” e della cieca
crescita quantitativa. Sapete che cosa colpiva di più, in questo incontro
così vivo e partecipato? Che c’erano tante persone “normali”:
“normalissimi” cittadini di un luogo d’Italia, giovani e donne di diversa
età e professione, lavoratori ed esperti, che sono riusciti, in questi
mesi, a vincere (per ora) una battaglia di civiltà ma soprattutto a
costruire una nuova identità collettiva. La costruzione (ri-costruzione) di
una comunità minacciata dalle ragioni di un falso progresso. La pratica
concreta di una nuova cittadinanza, che passa anzitutto per la capacità di
decidere il proprio destino e quello dei propri figli e nipoti.

Appunto: stiamo ragionando di un obiettivo ambiziosissimo, non certo di una
vicenda locale, che ha fatto parlare di sé solo perché si è messa di
traverso sul “corridoio Cinque”. Possibile che in questa fase esso
interessi così poco gli esponenti dell’Unione - e del suo arcipelago di
riferimento - a parte noi di Rifondazione comunista? Possibile. Verdi,
piddicini (e anche la Cgil) appaiono in tutt’altre faccende affaccendati.

Il movimento No-Tav, forse, non è oggi abbastanza “spettacolare” e,
viceversa, è nutrito di spirito autonomo: è un luogo col quale il confronto
delle idee (e delle proposte) è reale, obbligato, sostanziale. Non è
insomma utilizzabile per alchimie tattiche, o per manovre di gruppo, o per
conferma di ruoli personali. All’opposto, esso si propone come un piccolo
“modello” di politica: nel senso della città partecipata. Della polis. E
del rapporto tra movimenti e istituzioni.

In questa esperienza, in effetti, è la soggettività dei cittadini della Val
di Susa ad avere sempre avuto un ruolo protagonistico. Il No all’alta
velocità - quello che non piace per definizione ai “riformisti” di varie
specie - è stato il punto di partenza che ha innescato il “ciclo virtuoso”
di una battaglia che ha coinvolto, se non tutti, la grandissima maggioranza
della valle. Il rifiuto, l’azione di massa, la capacità di fermare un
cantiere, la fermissima determinazione ad ottenere un risultato: qui, quei
normali cittadini di cui dicevamo, dirigenti politici, intellettuali ed
istituzioni hanno costruito un’unità vera, e imposto il rovesciamento di
un’agenda sbagliata. Qui, è maturato l’embrione di un’alternativa, pur
locale, di natura economica e culturale - che ha scosso l’egemonia del
“pensiero unico” del Gigantismo, il moloc della Grande Struttura che
sarebbe sempre e comunque un bene in sé, a qualsiasi costo, a qualsiasi
prezzo.
Ora, certo, tutto questo può esser battezzato come mera resistenza
“corporativa”. Invece, noi pensiamo che si tratti di politica matura. Essa
si nutre di autonomia, attività, presenza dei corpi e delle coscienze: non
delega nulla a nessuno, non rinuncia a nessuno degli obiettivi che la
muovono, tiene cara la sua tenacia (“L’è dura”, come recita lo slogan).

Allo stesso tempo, la sua radicalità non è fatta solo di opposizione o
domande o istanze - contiene anche le risposte “altre”, le diverse risposte
possibili ai problemi, incorpora capacità e pazienza negoziale. In questo
senso, il movimento No-Tav tiene ben salda la sua alterità rispetto alla
politica istituzionale - la Grande Politica nazionale, quella che si fa nei
governi e in parlamento - ma si propone come soggetto politico pieno - lo
ripetiamo, sì, per la terza volta.

Non è vero che la politica alta sta nelle istituzioni, e fuori c’è solo la
rivendicazione protestatoria. Non è vero che la sinistra, quando sta al
governo, deve espellere da sé la dimensione della critica o della protesta.
Non è vero, soprattutto, che le categorie della “lotta” e della
“mediazione” debbano essere concepite (e praticate) come sfere separate. O
come “mestieri” così diversi da diventare identità non comunicanti.

Questo genere di riflessione ci pare particolarmente congrua con la fase
difficile - ma anche ricca di opportunità - che stiamo vivendo. Tra i tanti
pericoli che incombono, ve n’è uno che ci pare particolarmente serio:
l’identificazione, teorica e pratica, della politica con il governo, o con
la sfera istituzionale. Questo appiattimento può esprimersi (si esprime) in
forme all’apparenza, totalmente divaricate: per un verso, produce
passività, delega, assenza di mobilitazione e di partecipazione; per il
verso opposto, mette in moto dinamiche meramente oppositive, non mediabili,
non componibili, che giocoforza finiscono con il restringere il campo
d’azione dei movimenti, e perfino a ridurli all’autoreferenzialità. Ma in
tutti e due i casi, alla politica - oggi al governo Prodi - è consegnata
tutta intera la scelta, nel bene o nel male che sia: ad essa, tocca ogni
responsabilità; fuori di essa, c’è il regno, assoluto, della
“irresponsabilità”.

E’ una “divisione del lavoro” non solo inaccettabile, ma destinata a far
danni. Vogliamo fare solo un esempio, nel fuoco delle discussioni di questi
giorni a proposito dell’Afghanistan? Gino Strada, è vero, è una figura
straordinaria, da rispettare ed anzi da ammirare, per le scelte di vita che
ha compiuto e continua a compiere. Ma il suo palese disprezzo per la
politica - che si manifesti nell’“equivicinanza” o “equilontananza” da
qualsiasi governo, o nel rimpianto per i Talebani - esprime un misto di
rinuncia ed orgoglioso elitarismo che non aiutano la battaglia pacifista.
Se la rivendicazione della pace - non solo del rifiuto della guerra e della
fine di ogni guerra - smarrisce la pazienza, perde la voglia di imporsi
davvero ad un mondo impazzito, derubrica dai suoi compiti la fatica della
trasformazione delle scelte e delle coscienze, e della costruzione del
consenso, non potrà che separarsi dalle larghe masse, che pure la guerra
non la vogliono mai.

Allora sì che il movimento pacifista andrebbe in contro ad una crisi
drammatica, passando da seconda superpotenza mondiale a gruppo minoritario.
Allora sì che non resterebbe che la comoda - ma catastrofica - via d’uscita
di considerare se stessi come l’unico modello positivo, ed il resto della
sinistra, e della popolazione, come una massa di guerrafondai. Per fortuna,
così non è e così non sarà. Sull’Afghanistan, il pacifismo ha segnato un
punto politico in avanti: una discontinuità vera, come spiegava ieri su
queste colonne Ramon Mantovani, rispetto al passato anche recente e alla
cultura politica della stessa Unione.

Un risultato che vale sia per le scelte di governo sia per il movimento,
che non è affatto morto. Non i pacifisti “di governo”, mai pacifisti tout
court - dei quali noi ci sentiamo parte fino in fondo - dovrebbero
apprezzarlo.